Le Monde Diplomatique  -- Novembre 2008
Protocolli dell’espulsione

di Tassadir Imache

(Traduzione dal francese di José F. Padova)


Tassadir Imache - Scrittrice, autrice in particolare di Des nouvelles de Kora, che sarà pubblicato nel marzo 2009; membro della Commissione nazionale di deontologia della sicurezza (CNDS) dal febbraio 2001 al febbraio 2007.

Da anni siamo stati nutriti da verbali di accertamento ingannevoli e da falsi dibattiti miranti a definire come problematica la presenza degli immigrati nel nostro Paese. Mentre i telegiornali ci proponevano come illustrazioni: donne in lunghe tuniche con grappoli di bambini, adolescenti neri e magrebini sulla soglia delle case, campi sinistrati di gente in viaggio. Questa immigrazione l’avevamo subita, è venuto il momento in cui si sceglierà infine con chi noi vogliamo vivere. Sì, siamo stati preparati bene all’attuale politica di controllo dell’immigrazione. Così «gli stranieri senza documenti (ndt.: i sans papiers) sono portati a ritornare nel loro Paese». E in verità noi facciamo opera di carità strappando questa gente dalle mani dei loro sfruttatori per gettarli fuori. Il più pulitamente possibile, alla francese, con molta amministrazione. E dovremmo anche essere onorati di essere quel Paese, in Europa, che mette l’indicatore dei valori umani al segno più basso.
Oggi sono apparsi nel nostro panorama morale e politico scenari inimmaginabili fino ad ora: centri, locali dove sono rinchiusi gli individui, le famiglie. Esiliati, rifugiati i quali, una volta giudicati in prefettura colpevoli di non corrispondere più ai criteri sempre più numerosi della nostra ospitalità, vengono strappati alla loro vita e alle nostre, in attesa di essere espulsi con la costrizione fisica, psicologica e morale. E una direttiva europea ha appena autorizzato la durata della loro reclusione fino a diciotto mesi.
Nostri concittadini ci dicono quello che hanno visto e vissuto nella strada, nel metro, in aereo. Quelle scene di fermo di polizia o di espulsione sbalorditive, composte dagli stessi ingredienti: rapimento e brutalità. E quei visi intravisti, sfigurati dall’angoscia o dalla vergogna – illegali?
L’espulsione ha i suoi protocolli particolari, le procedure elaborate nella lingua e nella logica della sola razionalità tecnica. Lo stress dei professionisti della sicurezza, le emozioni da una parte e dall’altra, grida, sputi, pianti, insulti, paura, pietà sono convertiti in fattori di frenata, in rischi di cattivi risultati. Perché se la missione fallisce il «clandestino» ridiscende dall’aereo e rimette piede sul nostro suolo. E tutto deve essere ricominciato… Si può facilmente immaginare lo stato di tensione dei professionisti che sono incaricati di questi DEPA (Deported Accompanied), la pressione che grava su di loro perché le cifre raggiunte siano quelle degli obiettivi, in permanente rialzo.
Da allora si attrezza meglio chi ci scorta e si prendono in considerazione tutti gli aspetti pratici. Spessi guanti premuniscono dai morsi, dai rischi d’infezioni. Le braccia di una funzionaria di polizia sono più efficaci per un lattante somalo di quelle di una madre ammanettata che si lascia cadere a terra e dice che non vuole partire. Si previene il rischio più pericoloso: l’empatia che minaccia ogni poliziotto, ogni poliziotto-cittadino-genitore, ma soprattutto gli spettatori presenti sul percorso dell’espulso – magistrati, medici, infermieri, associazioni umanitarie.
Così l’attesa prima dell’imbarco di persone provate o malmenate è più appropriata nel veicolo della polizia, sulla pista d’involo, piuttosto che al servizio medico dell’aeroporto, dove lavorano potenziali intrusi. Si è osservato che la disperazione centuplica le forze della persona e anche come quella gente là sappia sviare un oggetto dalla sua funzione per automutilarsi e tentare di suicidarsi per compromettere l’espulsione. Se ne sono tratte lezioni. Si è in grado di arginare la vana crescita della speranza, proporzionale ai rischi di far superare ai poliziotti i loro limiti deontologici. Si sono accumulati dati preziosi sul comportamento dei DEPA (la nigeriana è violenta e il cinese un pericoloso pacchetto di nervi). È necessario seguire la loro evoluzione psicologica fino all’ora del decollo, mantenere una parvenza di dialogo, addormentare le resistenze con un tono fermo e calmo: statevene tranquilli e ritornerete legalmente, dibattetevi e non entrerete mai più in Francia.
Si è riflettuto sul loro ingresso nell’aereo. Lo si fa prima di quello dei passeggeri ordinari, nella parte posteriore dell’aereo, vi è uno spazio con sedili vuoti. Uno dei professionisti sarà incaricato di negoziare eventualmente con un comandante offeso per non essere più padrone a bordo. Un altro parlerà ai passeggeri stupefatti o scioccati, potenziali fattori di disordini. Si impara a riconoscere meglio le tensioni. Secondo il profilo del cittadino-viaggiatore che si è appena informato presso gli uomini di scorta le risposte variano con gradualità. Si va dall’informazione - «Noi applichiamo la legge» - all’intimidazione e alla minaccia. Se il numero d’importuni aumenta vi sarà il netto rapporto di forza con l’estrazione dei disturbatori, l’intimazione e i procedimenti giudiziari per aver ostacolato il volo di un aeromobile o incitazione alla sommossa.
Da cinque anni si impartiscono al personale di sicurezza formazioni specifiche basate da osservazioni sul terreno. Grazie alle telecamere si può rivedere indefinitamente una espulsione. Si fissano sul video le immagini degli errori da non commettere. In diretta c’è quell’uomo nero che ha gridato, chiamato sua madre e il buon Dio. Come farlo salire sull’aereo? L’istruttore mostra i punti precisi del corpo, i gesti tecnici professionali consigliati. Ecco come si immobilizza un braccio, un paio di gambe, mediante quelle fasce di tipo velcro. In due minuti si ottiene una mummia trasportabile.
Certo, non è più permesso piegare in fretta e furia i recalcitranti sul sedile dell’aereo per nasconderli alla vista e all’attenzione degli altri passeggeri, bocca tappata con la mano, e neppure sedersi sulla schiena dell’espulso fino al decollo. Due uomini ne sono morti, il loro cuore si è fermato sul nostro territorio nazionale. Si chiamavano Ricardo Barrientos e Mariane Getu Hagos.
Eppure un problema rimane: quello delle «nocività foniche». Come evitare che l’espulso, con le sue grida, non metta in subbuglio l’equipaggio, i viaggiatori? Si è trovata una soluzione nelle arti marziali: si insegna la pressione da esercitare su determinati punti del collo. Ciò blocca la respirazione, il cervello non è più irrorato, l’espulso non ha più voce. Tutto questo ha un nome assai poetico: «modulazione fonica», ovvero come impedire a una persona in pericolo di chiamare aiuto. Dal fax della prefettura al sedile di aereo, dall’arresto amministrativo alla legatura come salame, la logica disumana dell’espulsione si svolge fino all’indegnità terminale, presa in carico dai poliziotti. La violenza intrinseca dell’espulsione era scritta fino dalla partenza: la persona non conta nulla. E alla fine si caricano esseri umani inerti, orizzontali, come oggetti.
Cultura di Stato della menzogna, dell’agguato, del deliberato aggiramento delle leggi e delle riposizioni di soccorso esistenti nelle nostre democrazie per i più vulnerabili… Ecco ora che il Comitato intermovimentista per gli evacuati (Cimade), impegnato a favore dei migranti, di chi chiede asilo e degli espulsi, è minacciato nella sua opera (1). I suoi membri vedono arrivare nei centri di detenzione persone la cui vita si è ribaltata in qualche ora, che si trascina gli effetti personali che si sono lasciati loro prendere con sé, le valigette, talvolta un lattante in una cesta.
La presenza della Cimade in quei luoghi è ciò che resta oggi della nostra presenza, del nostro sguardo. Un’organizzazione umanitaria può essere portata, mediante la pubblicazione dei suoi resoconti, a rendere pubbliche manchevolezze inaccettabili per l’amministrazione, la polizia, i responsabili politici, i cittadini. Quella voce la si vorrebbe anch’essa «modulare».
Il governo vuole aprire il settore umanitario alla concorrenza per fare a pezzi l’esperienza accumulata, frammentare il territorio in «lotti» per impedire una visuale d’insieme. Esige neutralità e riservatezza. Il settore umanitario non sarebbe sufficientemente neutro: con l’umanità vengono in effetti il diritto e la dignità della persona. Come il segreto e l’arbitrario si adattano bene ai luoghi chiusi… questo terreno di coltura di abusi e violenze delle nostre prigioni. Allora, che diremo a questo punto?
Facciamo ancora parte di coloro che vogliono continuare a parlare la nostra lingua: «diritto», «libertà», «dignità» della persona? Di coloro che pensano che, «per loro», valgono i nostri testi e il nostro credere nella perennità dell’universalità dei valori? Perché il modo in cui oggi da noi si trattano quegli stranieri, i più vulnerabili, dice qualcosa di grave sulla Francia e gli stranieri, e sull’Europa, al resto del mondo. Su ciò che eravamo e su ciò che rischiamo di essere domani. Stranieri a noi stessi.

(1) Dal 1985 soltanto la Cimade è abilitata a intervenire per gli stranieri passibili di espulsione all’interno dei centri di detenzione amministrativa. Il Ministero dell’immigrazione intendeva spezzettare questa missione mediante la concorrenza. Dopo la sospensione del bando di raccolta delle offerte decretato dal tribunale amministrativo dio Parigi, la decisione è stata rinviata al 31 ottobre al più tardi.

Testo originale:

Le Monde Diplomatique – Novembre 2008
Protocoles de l’expulsion
Par Tassadir Imache
* Ecrivaine, auteure notamment de l’ouvrage Des nouvelles de Kora, à paraître en mars 2009 (Actes Sud); membre de la Commission nationale de déontologie de la sécurité (CNDS), de février 2001 à février 2007.

DEPUIS DES ANNÉES, nous avons été nourris de constats fallacieux et de faux débats visant à définir comme problématique la présence des immigrés dans notre pays. Tandis que les journaux télévisés nous proposaient en illustration : femmes en boubous avec grappes d’enfants, adolescents noirs et maghrébins au pied des immeubles, camps sinistrés de gens du voyage. Nous avions subi cette immigration-là, le temps est venu où l’on va enfin choisir avec qui nous voulons vivre. Oui, nous avons été bien préparés à la politique actuelle de contrôle de l’immigration. Ainsi, «les étrangers qui n ’ont pas de papiers ont vocation à retourner dans leur pays». Et, en vérité, nous faisons œuvre de charité en arrachant ces gens-là des mains de leurs exploiteurs pour les jeter dehors. Aussi proprement que possible, à la française, avec beaucoup d’administration. Et nous devrions même nous honorer d’être de ce pays-là, en Europe, qui met le curseur des valeurs humaines le moins bas.
Aujourd’hui sont apparus dans notre paysage moral et politique des décors inimaginables jusqu’alors : des centres, des locaux où sont enfermés des individus, des familles. Exilés, réfugiés qui, une fois jugés en préfecture coupables de ne plus remplir les toujours plus nombreux critères de notre hospitalité, sont arrachés à leur vie et aux nôtres, en attendant d’être expulsés sous la contrainte physique, psychologique et morale. Et une directive européenne vient d’autoriser la durée de leur enfermement jusqu’à dix-huit moïs:
Des concitoyens nous disent ce qu’ils ont vu et vécu dans la rue, le métro, l’avion. Ces scènes d’interpellations ou de reconduites stupéfiantes, composées des mêmes ingrédients : rapt et brutalité. Et ces visages-là entraperçus, défigurés par l’angoisse ou la honte — illégaux?
L’expulsion a ses protocoles particuliers, des procédures élaborées dans la langue et la logique de la seule rationalité technique. Le stress des professionnels de la sécurité, les émotions de part et d’autre, les cris, crachats, pleurs, insultes, peur, pitié sont convertis en facteurs de frein, en risques de mauvais résultats. Car si la mission échoue, le «clandestin» redescend de l’avion, remet ses pieds sur notre sol. Et tout est à recommencer... On peut imaginer aisément l’état de tension des professionnels qui sont chargés de ces DEPA (Deported Accompanied), la pression qui s’exerce sur eux pour que les chiffres atteints soient ceux des objectifs, en hausse permanente.
Dès lors, on équipe mieux nos escorteurs et on considère tous les aspects pratiques. Des gants épais prémunissent des morsures, du risque d’infection. Les bras d’une fonctionnaire de police sont plus efficaces pour un nourrisson somalien que ceux d’une mère menottée qui se laisse tomber au sol et dit qu’elle ne veut pas partir. On prévient le risque le plus dangereux : l’empathie qui guette tout policier, tout policier-citoyen-parent, mais surtout les voyeurs présents sur le parcours du reconduit — magistrats, médecins, infirmiers, associations humanitaires.
Ainsi, l’attente avant l’embarquement de personnes éprouvées ou malmenées est plus appropriée dans le véhicule de police, sur le tarmac, qu’au service médical de l’aéroport, où travaillent de potentiels intrus. On a observé que le désespoir décuple les forces humaines, et aussi comme ces gens-là savent détourner un objet de sa fonction pour s’automutiler, tenter de se suicider pour compromettre l’expulsion. On en a tiré les leçons. On sait endiguer la montée vaine de l’espoir, proportionnelle au risque de franchissement par les policiers des limites déontologiques. On a accumulé des données précieuses sur le comportement des DEPA (la Nigériane est violente et le Chinois un dangereux paquet de nerfs). Il faut suivre leur évolution psychologique jusqu’à l’heure du décollage, entretenir un semblant de dialogue, endormir les résistances avec un ton ferme et calme : tenez-vous tranquille et vous reviendrez légalement, débattez-vous et plus jamais vous n’entrerez en France.
On a réfléchi à leur entrée dans l’avion. Elle se fait avant les passagers ordinaires, par l’arrière; il y a un sas de sièges vides. Un des professionnels aura en charge la négociation éventuelle avec un commandant offensé de ne plus être maître à bord. Un autre parlera aux passagers étonnés ou choqués, potentiels fauteurs de troubles. On appréhende mieux les tensions. Selon le profil du citoyen-voyageur qui vient se renseigner auprès des escorteurs, les réponses varient graduellement. Cela va de l’information — « Nous appliquons la loi» — à l’intimidation et à la menace. Si le nombre d’importuns augmente, ce sera le franc rapport de forces avec extraction des perturbateurs, gardes à vue et poursuites judiciaires pour obstacle au vol d’un aéronef ou incitation à l’émeute.
Depuis cinq ans, on dispense aux personnels de sécurité des formations spécifiques nourries d’observations de terrain. Grâce au Caméscope, on peut revoir indéfiniment une reconduite. On pointe à l’image les erreurs à ne pas commettre. En direct, il y a cet homme noir qui a crié, appelé sa mère et le Bon Dieu. Comment le faire monter dans l’avion? L’instructeur montre les endroits précis du corps, les gestes techniques professionnels recommandés. Voilà comment on immobilise des bras, une paire de jambes, grâce à ces bandes de type Velcro. En deux minutes, on obtient une momie transportable.
Il n’est certes plus permis de plier à la hâte les récalcitrants sur le siège de l’avion pour les dérober à la vue et à l’attention des autres passagers, bouche fermée à la main, ni de s’asseoir sur le dos du reconduit jusqu’au décollage. Deux hommes en sont morts, leur coeur s’est arrêté sur notre territoire. Ils s’appelaient Ricardo Barrientos et Mariame Getu Hagos.
MAIS un problème demeure : celui des «nuisances phoniques ». Comment éviter que le reconduit, par ses cris, n’ameute l’équipage, les voyageurs? On a trouvé une solution du côté des arts martiaux : on enseigne la pression à exercer en certains points du cou. Ça coupe la respiration, le cerveau n’est plus irrigué, le reconduit n’a plus de voix. Cela a un nom assez poétique : la «modulation phonique», ou comment empêcher une personne en détresse d’appeler au secours. Du fax préfectoral au siège d’avion, de l’arrêté administratif au saucissonnage, la logique inhumaine de l’expulsion se déroule jusqu’à l’indignité finale, endossée par les policiers. La violence intrinsèque de la reconduite était inscrite dès le départ : la personne ne pèse rien. Et, à la fin, on charge des êtres humains inertes, à l’horizontale, comme des choses.
Culture étatique du mensonge, du guet-apens, du contournement délibéré des lois et des dispositifs d’aide existant dans nos démocraties pour les plus vulnérables... Voici maintenant que le Comité inter-mouvements auprès des évacués (Cimade), engagé auprès des migrants, des demandeurs d’asile et des expulsés, est menacé dans son action (1). Ses membres voient arriver dans les centres de rétention des personnes dont la vie a basculé en quelques heures, traînant les effets qu’on leur a laissé prendre, les cartables, parfois un nourrisson dans un couffin.
La présence de la Cimade dans ces lieux, c’est ce qui reste aujourd’hui de notre présence, de notre regard. Un organisme humanitaire peut être amené à signifier à l’administration, à la police, aux responsables politiques, aux citoyens, par ses rapports rendus publics, des manquements inacceptables. Cette voix-là, on voudrait la «moduler» aussi.
Le gouvernement veut ouvrir l’humanitaire à la concurrence pour casser l’expérience accumulée, morceler le territoire en «lots» pour empêcher une visibilité d’ensemble. Il exige neutralité et confidentialité. L’humanitaire ne serait pas assez neutre : avec l’humain, viennent en effet le droit et la dignité de la personne. Comme le secret et l’arbitraire vont bien aux lieux clos... ce terreau d’a us et de violences de nos prisons. Alors, que dirons-nous à cette heure? Sommes-nous encore de ceux qui veulent continuer à parler notre langue : «droit», «liberté», «dignité» de la personne? De ceux qui pensent que «pour eux» valent nos textes et notre croyance en la pérennité de l’universalité des valeurs? Car la façon dont aujourd’hui on traite chez nous ces étrangers-là, les plus vulnérables, dit quelque chose de grave sur la France et les étrangers, et sur l’Europe, au reste du monde. Sur ce que nous étions, et sur ce que nous risquons d’être demain. Etrangers à nous-mêmes ?
(1) Seule la Cimade est habilitée, depuis 1985, à intervenir auprès des étrangers expulsables à l’intérieur des centres de rétention administrative. Le ministère de l’immigration entendait émietter par la concurrence cette mission. Après la suspension de l’appel d’offres décrétée par le tribunal administratif de Paris, la décision a été reportée au 31 octobre au plus tard.




Venerd́, 07 novembre 2008