Sueddeutsche Zeitung - 18.03.2008    10:33 Uhr
Sondaggio: il Papa è sempre più malvisto

Nei “numeri rossi” [in passivo]


(traduzione dal tedesco di José F. Padova)

http://www.sueddeutsche.de/kultur/artikel/239/86153/1/
Secondo un sondaggio ormai soltanto un tedesco su due è contento di papa Benedetto XVI. Sono 20 punti percentuali in meno di un anno fa. Mentre i cattolici sono proprio favorevoli.
Papa Ratzinger
Ormai solamente un cittadino federale su due (51 %) è contento di papa Benedetto XVI. Secondo un sondaggio eseguito per conto del settimanale amburghese Stern dieci percento dei tedeschi giudicano il lavoro del capo della Chiesa cattolica, in carica da tre anni scarsi, come “molto buono”, il 41 % gli danno il voto “buono”. Un anno fa ancora il 70% si era dichiarato contento del lavoro di Benedetto XVI (20% “molto buono”, 50% “buono”). Secondo l’attuale sondaggio sono scontenti il 16% (10% “poco buono”, 6% “cattivo”).

A stragrande maggioranza (76%) i cattolici tedeschi sono soddisfatti del lavoro di Benedetto XVI: il 20% trova che egli svolge il suo lavoro “molto bene”, il 56% pensa che lo faccia “bene”. L’otto percento giudica il suo lavoro “poco buono”, il quattro percento “Cattivo”.

Non altrettanto favore riscuote il papa fra i membri della Chiesa evangelica: soltanto il 7% lo valuta “molto buono”, il 43% gli dà un “buono”, 11% “poco buono”, 6% dei protestanti definisce il suo lavoro “cattivo”.

Distacco dal suo predecessore
La nuova «cultura del conflitto» di Benedetto XVI

Discussioni sull’esatta terminologia erano già da tempo l’hobby di Joseph Ratzinger. Adesso il papa ha oltrepassato il segno e raccoglie irritazione per il suo nuovo stile. Al suo predecessore non sarebbe successo.
Di Alexander Kiessler (traduzione dal tedesco di José F. Padova)

L’incontro di Benedetto XVI con i rappresentanti delle comunità musulmane è finito in modo drammatico. Il 20 agosto 2005 il papa dichiarava: Il dialogo fra cristiani e musulmani non dovrebbe ridursi a una conclusione di stagione, ma è molto più una “necessità vitale, dalla quale dipende in gran parte il nostro futuro”. Le irritazioni dopo la lezione tenuta da Benedetto XVI a Regensburg hanno confermato le valutazioni. Se le due più grandi religioni non trovano un linguaggio comune, col quale intendano parlarsi, il mondo scivolerà ancor più velocemente verso il conflitto.

Per questo in margine alla Giornata mondiale della gioventù e prima e dopo in una serie di iniziative Benedetto XVI si è rivolto ai musulmani diversamente da quanto aveva fatto a Regensburg. Fino ad allora in primo piano stava la dimensione politica e di condotta pratica. Egli chiamò i “cari amici musulmani” a rafforzare insieme ai cristiani “i valori della reciproca attenzione, della solidarietà e della pace”, della libertà religiosa e della non violenza – così si potrebbe “neutralizzare la forza esplosiva delle ideologie”.

L’erudito sul trono papale chiede il coraggio per la controversia
Nel momento di massima tensione per la questione delle caricature antimusulmane il papa dichiarò che pace e fratellanza si ottengono soltanto se tutte le persone rispettano “le convinzioni e le pratiche religiose degli altri”. Al contrario all’Università di Regensburg egli voleva estendere il dialogo interreligioso al suo centro teologico: la questione della verità. Con ciò si tocca il nocciolo duro del pensiero di Joseph Ratzinger. E con ciò è iniziato anche un distacco dalla comprensione più pragmatica del dialogo da parte di Giovanni Paolo II.
Sia alla Giornata mondiale della gioventù l’anno scorso sia nella dichiarazione del Cardinale segretario Bertone di sabato scorso è citato il documento conciliare “Nostra Aetate” del 1965: “Con grande attenzione la Chiesa considera anche i musulmani, che pregano l’unico Dio, vivente ed ente in sé stesso, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini”. Con questo Benedetto XVI fa capire di sentirsi obbligato dal Concilio e dal relativo cambiamento dei paradigmi interreligiosi.

Tuttavia ben diversamente si presenta in rapporto col suo predecessore. Giovanni Paolo II nel 1985 in Marocco, quando primo papa visitò un Paese islamico, dichiarò: “Il vostro Dio e il nostro sono il medesimo e noi siamo fratelli e sorelle nella fede di Abramo”. Benedetto XVI non avrebbe mai formulato una dichiarazione tanto apodittica.

L’acclamazione per lui non è il metodo preferito per il dialogo religioso. Il dotto sul trono papale chiede il coraggio per la discussione polemica. Un dialogo dissenziente tal quale avevano tenuto l’Imperatore Manuele II e un persiano ignoto, che Benedetto XVI aveva citato a Regensburg in modo tanto rilevante.

Patologie delle religioni
Sono diventate leggendarie le ore di Assisi. Nell’ottobre 1986 Giovanni Paolo II vi aveva invitato circa 200 capi religiosi. Sciamani, buddisti, indù, musulmani, ebrei, cristiani pregarono ognuno il proprio Dio, gli animalisti africani qualcosa come il “Grande Pollice” e il “Tuono Rimbombante”. In comune si implorò per la pace. Tuttavia più tardi Ratzinger dichiarò che Assisi non è un modello per il futuro. Non si può oltrepassare con tale leggerezza il problema della verità e intonacare tutto con la generale fraternizzazione.

«La religione può ammalarsi e diventare un fenomeno distruttivo» (Joseph Ratzinger)

La verità di una religione può dimostrarsi nella discussione, nello scambio delle argomentazioni, nel pensiero e non in un fare che corre in avanti. Per riprendere uno degli antagonismi preferiti di Joseph Ratzinger: la ortoprassi, il fare per ciò che si intuisce giusto, non deve sostituire l’ortodossia, “il modo giusto dell’adorazione di Dio”. Nel 1996 egli formulò il suo pensiero mettendo in evidenza che “La nuda prassi non è la luce”. Per questo anche il rilievo che dà alla riflessione su di sé, al pensiero e quindi, come ora a Regensburg, sulla ragione [raziocinio] indirizzata cristianamente.

Questa riflessione deve dirigersi in primo luogo sul proprio [io]. Nel vespro ecumenico egli indica una “tentazione, nel tempo dei movimenti multireligiosi”, di indebolire la “professione di fede centrale” dei cristiani. “ma con ciò noi non serviamo il movimento e neppure il dialogo. Con questo facciamo soltanto diventare Dio più inaccessibile, per gli altri e per noi stessi. È importante che noi portiamo il discorso sulla nostra immagine di Dio intera e non frammentata”.

In concreto ciò significa: all’inizio del dialogo non deve esserci la professione di fede in un obiettivo possibilmente comune, ma l’autoaffermazione della propria fede. L’appellativo di una politica dei simboli non è affar suo.

Il cristiano come [deve essere] definito è posto nella professione di fede, che ha ricevuto la propria immagine [lett. Viso, faccia] in Gesù: “Oggi, mentre vediamo le patologie, le malattie mortali della religione e della ragione (…) è importante (…) soffermarsi su questo sembiante umano di Dio”. Non è un caso che egli lavori con forza a una teologia del viso e che il 1 settembre abbia visitato il “Viso di Cristo” sul panno di Manoppello. Il rivolgersi all’essere figlio di Dio di Gesù serve al tentativo di delineare più nettamente il carattere esclusivo cristiano.

Il sogno di Cusano
Con tutto questo da parte della Chiesa è pronunciata una verità non negoziabile. Che cosa ne consegue quindi per il programmato colloquio conflittuale con i musulmani, che ritengono Gesù un semplice profeta e il concetto della trinità di Dio come un politeismo nascosto? La parola decisiva è la metafora della patologia della ragione e della religione, della minaccio da una parte di un naturalismo divenuto dogmatico e dall’altra di una fede diventata fanatismo.

La religione, scriveva Ratzinger nel 1997, “può ammalarsi e diventare un fenomeno distruttivo. (…). La religione concreta, nella quale si vive la fede, deve essere sempre e nuovamente ripulita dalla verità”. Questa verità – secondo l’effetto finale interreligioso – si mostrerebbe nel dialogo. La propria fede potrebbe guarire accostandosi a ciò che per l’altro è santo.

Allora, così il Ratzinger del 1999, si possono evitare le “forme malate del cristianesimo”, come i “bagni di sangue di musulmani ed ebrei” scatenati dai crociati. Allora però anche “l’Islam in tutta l’entità che rappresenta” potrebbe essere difeso “dal perdere l’equilibrio, dal dare spazio alla violenza e dal far scivolare la religione in qualcosa di esteriore”

La scienza e l’annuncio sono si contraddicono a vicenda
Per quanto riguarda invece la fermezza, i cristiani potrebbero imparare dall’Islam: “La fede ferma dei musulmani in Dio è una sfida positiva lanciata a noi”, ha spiegato Ratzinger nel 2004. “La consapevolezza di sottostare al giudizio finale di Dio (…) l’abbiamo un poco perduta”. Al contrario all’Islam farebbe del bene quell’esperienza nella quale sfociava la prolusione di Regensburg: che la teologia deve avere parte nel discorso universitario, che deve aprirsi alla metodologia storica e alle questioni ermeneutiche, che scienza e annuncio [evangelico] non si contraddicono.

Benedetto XVI , quando ripartisce il Corano in settori diversi, quando separa le disposizioni del periodo di Medina circa la Guerra Santa dal precedente divieto di costrizioni di carattere religioso emanato alla Mecca – dove “Maometto stesso era impotente e minacciato” -, presenta una maniera di leggere la storia.
Per il 25esimo anniversario della “Nostra Aetate” il Vaticano aveva dichiarato: I credenti delle religioni non cristiane hanno parte inconsapevolmente al “segreto della salvezza [eterna]” di Gesù in quanto “mettano in atto in modo onesto il bene contenuto nelle loro tradizioni religiose e seguano i dettami della loro coscienza”.

È dubbio se Joseph Ratzinger, che non accetta il concetto di cristianesimo anonimo, sottoscriverebbe questa espressione. In ogni caso con Benedetto XVI si è introdotto nelo Palazzo Apostolico un nuovo realismo della differenziazione – e una nuova cultura conflittuale. Dopotutto egli conosce il sogno di Nikolaus von Kues e su questa linea condusse le sue considerazioni del 1997 sull’interreligiosità: Nikolaus immaginava un concilio celeste, nell’enno 1454, quando l’Islam dopo la conquista di Costantinopoli “si era spinto nel campo visivo anche della cristianità occidentale”. Il concilio celeste riuniva 17 diverse nazioni e religioni. Esse erano “guidate alla conoscenza dal logos divino”. Fino ad allora però, così prosegue, gli umani devono lottare per la giusta Parola e dibattere per la migliore visione.

Testo originale:
18.03.2008    10:33 Uhr
Trennlinie

Nimmt das Urteil der Jury gefasst entgegen: Papst Benedikt XVI.Foto: dpa vergrößern
Umfrage: Papst wird unbeliebter
Im roten Bereich
http://www.sueddeutsche.de/kultur/artikel/239/86153/1/
Laut einer Umfrage ist nur noch jeder zweite Deutsche zufrieden mit Papst Benedikt XVI. Das sind 20 Prozentpunkte weniger als vor einem Jahr. Dafür sind die Katholiken richtig glücklich.
http://www.sueddeutsche.de/kultur/artikel/239/86153/1/



 
Nur noch jeder zweite Bundesbürger (51 Prozent) ist mit Papst Benedikt XVI. zufrieden. Zehn Prozent der Deutschen beurteilen nach einer Umfrage für das Hamburger Magazin stern die Arbeit des knapp drei Jahre amtierenden Oberhaupts der katholischen Kirche als "sehr gut", 41 Prozent geben ihr die Note "gut". Vor einem Jahr hatten sich noch 70 Prozent mit Benedikts Arbeit zufrieden geäußert (20 Prozent "sehr gut", 50 Prozent "gut"). Unzufrieden sind der aktuellen Umfrage zufolge 16 Prozent (10 Prozent "weniger gut", sechs Prozent "schlecht").
Mit überwältigender Mehrheit (76 Prozent) zufrieden mit der Arbeit von Benedikt XVI. sind die deutschen Katholiken: 20 Prozent finden, er übe sein Amt "sehr gut" aus, 56 Prozent meinen, er mache es "gut". Acht Prozent beurteilen seine Arbeit als "weniger gut", vier Prozent als "schlecht".
Nicht ganz so gut kommt der Papst bei den Mitgliedern der Evangelischen Kirche an: Nur sieben Prozent von ihnen bescheinigen ihm ein "sehr gut", 43 Prozent ein "gut". Elf Prozent gaben ihm ein "weniger gut", sechs Prozent der Protestanten bezeichnen seine Arbeit als "schlecht".


(sueddeutsche.de/korc)
18.09.2006   18:00 Uhr


Abkehr vom Vorgänger
Benedikts neue Streitkultur
Debatten um das rechte Wort waren schon lange Joseph Ratzingers Steckenpferd. Nun ist der Papst übers Ziel hinausgeschossen und erntet Zorn für seinen neuen Stil.
Dem Vorgänger wäre das nicht passiert
Von Alexander Kissler

Dramatisch endete das Treffen Benedikts XVI. mit Vertretern muslimischer Gemeinschaften. Am 20. August 2005 erklärte der Papst: Der Dialog zwischen Christen und Muslimen dürfe nicht auf eine Saisonentscheidung reduziert werden. Er sei vielmehr eine "vitale Notwendigkeit, von der zum großen Teil unsere Zukunft abhängt." Die Irritationen nach Benedikts Regensburger Vorlesung haben die Einschätzung bestätigt. Wenn die beiden größten Weltreligionen keine gemeinsame Sprache finden, in der sie miteinander zu reden verstehen, dann taumelt die Welt noch schneller dem Unfrieden entgegen.


 

Papst Benedikt XVI. hat in einer ersten persönlichen Reaktion bedauert, dass seine Islam-Äußerungen missverstanden worden seien und damit die Empörung in der islamischen Welt zumindest teilweise besänftigen können.
Foto: dpa
 


Darum wandte sich Benedikt am Rande des Weltjugendtags und bei eine Reihe von Anlässen davor und danach in anderer Weise an die Muslime, als er dies nun in Regensburg tat. Bisher stand die politische und handlungspraktische Dimension im Vordergrund. Er rief die "lieben muslimischen Freunde" auf, zusammen mit den Christen "die Werte der gegenseitigen Achtung, der Solidarität und des Friedens", der Religionsfreiheit und der Gewaltlosigkeit zu bekräftigen - so könne man "die explosive Kraft der Ideologien neutralisieren."
Der Gelehrte auf dem Papstthron fordert den Mut zum Streitgespräch
Auf dem Höhepunkt des Karikaturenstreits erklärte er, Frieden und Geschwisterlichkeit entstünden nur, wenn alle Menschen "die religiösen Überzeugungen und Praktiken des anderen" respektierten. In der Regensburger Universität hingegen wollte er den interreligiösen Dialog um dessen theologische Mitte erweitern: die Wahrheitsfrage. Damit ist der harte Kern des Denkens Joseph Ratzingers berührt. Und damit hat auch eine Abkehr begonnen vom eher pragmatischen Dialogverständnis Johannes Pauls II.

Sowohl beim Weltjugendtag letztes Jahr als auch in der Erklärung des Kardinalstaatssekretärs Bertone vom vergangenen Samstag wurde das Konzilsdokument "Nostra Aetate" von 1965 zitiert: "Mit Hochachtung betrachtet die Kirche auch die Muslime, die den alleinigen Gott anbeten, den lebendigen und in sich seienden, barmherzigen und allmächtigen, den Schöpfer des Himmels und der Erde, der zu den Menschen gesprochen hat." Insofern gibt Benedikt zu verstehen, dass er sich dem Konzil und dessen interreligiösem Paradigmenwechsel verpflichtet fühlt.

Doch anders stellt sich das Verhältnis zu seinem Vorgänger dar. Johannes Paul II. hatte 1985 in Marokko, als er als erster Papst ein islamisches Land besuchte, erklärt: "Euer Gott und der unsere ist derselbe, und wir sind Brüder und Schwestern im Glauben Abrahams." Derart apodiktisch würde es Benedikt XVI. kaum formulieren.

Nicht die Akklamation ist ihm der bevorzugte Modus des Religionsgesprächs. Der Gelehrte auf dem Papstthron fordert den Mut zum Streitgespräch. Einen solchen im Dissens argumentierenden Dialog hatten Kaiser Manuel II. und ein namenloser Perser geführt, die Benedikt in Regensburg so prominent zitierte.
Pathologien der Religionen
Legendär geworden sind die Stunden von Assisi. Johannes Paul II. hatte im. Oktober 1986 rund 200 Religionsführer eingeladen. Schamanen, Buddhisten, Hindus, Moslems, Juden, Christen beteten zu ihrem jeweiligen Gott, afrikanische Animisten etwa zum "Großen Daumen" und "Krachenden Donner". Gemeinsam flehte man um Frieden. Doch Ratzinger erklärte später, Assisi sei kein Zukunftsmodell. So leicht könne man die Wahrheitsfrage nicht übergehen und mit einer Allverbrüderung übertünchen.



» Religion kann erkranken und kann zu einem zerstörerischen Phänomen werden.
«

Joseph Ratzinger
Im Disput, im Austausch der Argumente, im Denken, nicht im vorauseilenden Tun soll sich die Wahrheit einer Religion erweisen. Um einen der beliebtesten Antagonismen Joseph Ratzingers aufzugreifen: Die Orthopraxie, das für recht erachtete Tun, dürfe nicht die Orthodoxie ersetzen, "die rechte Weise der Anbetung Gottes". Pointiert formulierte er 1996: "Die bloße Praxis ist kein Licht." Darum auch sein Nachdruck auf die Selbstbesinnung, auf den Gedanken und eben, wie jetzt in Regensburg, auf die christlich gewendete Vernunft.

Diese Besinnung müsse sich zunächst auf das Eigene richten. In der ökumenischen Vesper nannte er es eine Versuchung "in der Zeit der multireligiösen Begegnungen", das "zentrale Bekenntnis" der Christen abzuschwächen. "Aber damit dienen wir der Begegnung nicht und nicht dem Dialog. Damit machen wir Gott nur unzugänglicher, für die anderen und für uns selbst. Es ist wichtig, dass wir unser Gottesbild ganz und nicht nur fragmentiert zur Sprache bringen."

Konkret heißt das: Am Anfang des Dialogs sollte nicht das Bekenntnis zum möglicherweise gemeinsamen Ziel stehen, sondern die Selbstbehauptung des eigenen Glaubens.
Appellative Symbolpolitik ist seine Sache nicht.
Das definierend Christliche sei im Glaubensbekenntnis niedergelegt, das in Jesus sein Gesicht erhalten habe: "Heute, wo wir die Pathologien, die lebensgefährlichen Erkrankungen der Religion und der Vernunft sehen (...), ist es wichtig, (...) zu diesem menschlichen Antlitz Gottes zu stehen." Kein Zufall, dass er verstärkt an einer Theologie des Gesichts arbeitet und am 1. September das "Antlitz Christi" auf dem Tuch von Manoppello besuchte. Die Hinwendung zur Gottessohnschaft Jesu dient dem Versuch, das christliche Alleinstellungsmerkmal schärfer zu profilieren.
Der Traum des Cusanus
Damit ist eine von Seiten der Kirche nicht verhandelbare Wahrheit ausgesprochen. Wie aber folgt daraus für das beabsichtigte Streitgespräch mit den Muslimen, die Jesus für einen bloßen Propheten und den trinitarischen Gottesbegriff für einen versteckten Polytheismus halten? Das entscheidende Wort ist die Metapher von den Pathologien der Vernunft und der Religion, von den Gefährdungen also durch einen dogmatisch gewordenen Naturalismus einerseits und einen fanatisierten Glauben andererseits.

Religion, schrieb Ratzinger 1997, "kann erkranken und kann zu einem zerstörerischen Phänomen werden. (...) Die konkrete Religion, in der der Glaube gelebt wird, muss immer wieder von der Wahrheit her gereinigt werden." Diese Wahrheit - so die interreligiöse Pointe - zeige sich im Dialog. An dem, was dem anderen heilig ist, kann der eigene Glaube gesunden.

Dann, so Ratzinger 1999, ließen sich die "Erkrankungsformen des Christlichen", etwa das "Blutbad unter Moslems und Juden", das die Kreuzritter anrichteten, vermeiden. Dann könnte aber auch der "Islam mit allem Großen, das er darstellt", davor bewahrt werden, "die Balance zu verlieren, der Gewalt Raum zu geben und die Religion ins Äußerliche abgleiten zu lassen."
Wissenschaft und Verkündigung widersprechen einander nicht
Was aber die Entschiedenheit des Islam betrifft, da könnten Christen vom Islam lernen: "Der feste Glaube der Muslime an Gott ist eine positive Herausforderung an uns", erklärte er 2004. "Das Bewusstsein, dass wir unter dem letzten Gericht Gottes stehen (...), haben wir ein wenig verloren." Umgekehrt täte dem Islam jene Erfahrung gut, in die die Regensburger Vorlesung mündete: dass die Theologie teilhaben muss am universitären Diskurs, dass sie sich öffnen muss für historische Methoden und hermeneutische Fragen, dass Wissenschaft und Verkündigung einander nicht widersprechen.

Indem Benedikt den Koran in unterschiedliche Schichten teilte, indem er die Bestimmungen der medinischen Zeit über den Heiligen Krieg von dem zuvor in Mekka - wo "Muhammad selbst noch machtlos und bedroht war" - ergangenen Verbot religiösen Zwangs schied, führt er eine historische Lesart vor.

Zum 25. Jahrestag von "Nostra Aetate" hatte der Vatikan erklärt: Die Gläubigen nichtchristlicher Religionen hätten unbewusst Anteil am "Heilsgeheimnis" Jesu, sofern sie "in ehrlicher Weise das in ihren religiösen Traditionen enthaltene Gute in die Tat umsetzen und dem Spruch ihres Gewissens folgen."

Es ist fraglich, ob Joseph Ratzinger, der das Konzept vom anonymen Christentum ablehnt, den Satz unterschriebe. Auf jeden Fall ist mit Benedikt XVI. ein neuer Realismus der Differenz in den Apostolischen Palast eingezogen - und eine neue Streitkultur. Er kennt schließlich den Traum des Nikolaus von Kues. Damit leitete er seine Überlegungen zur Interreligiosität von 1997 ein: Nikolaus imaginierte ein himmlisches Konzil, anno 1454, als der Islam nach der Eroberung Konstantinopels "ins Blickfeld auch der abendländischen Christenheit gerückt war." Das himmlische Konzil vereinte 17 verschiedene Nationen und Religionen. Sie wurden "durch den göttlichen Logos zur Erkenntnis geführt". Bis dahin aber, lässt sich folgern, müssen die Menschen ringen um das rechte Wort und streiten um die bessere Einsicht.



Mercoledì, 26 marzo 2008