LAMPEDUSA
La porta chiusa dell’Europa

di Gianpaolo Visetti (“la Repubblica”, 12 settembre 2008)

 

Quando l’Africa dei poveri si è messa in cammino verso l’Europa dei ricchi, all’Italia è tornato in mente un invisibile scoglio caldo, alla deriva nel canale di Sicilia: Lampedusa. È un’isola lontana, arida, in mezzo al mare. Dalle sue coste si vede la Tunisia e s’intuisce la Libia. L’Occidente, a sud, finisce qui. Nessuno ci crederebbe ma, in una ex caserma in contrada Imbriacole, si è deciso di selezionare e smistare tutti gli africani che scappano su una barca.

Nel centro di soccorso, il più grande del continente, passano oltre ventimila migranti vivi all’anno. Uno su venti scompare prima, tra le onde. I morti in acqua, dall’inizio dell’esodo, sono oltre 22 mila. Il doppio cade durante il viaggio a piedi, che dura mesi e anni, per salpare dalle spiagge dell’Africa.

Quelli che riescono a ripartire per un centro che organizza l’espulsione, spariscono nel fiorente mercato degli schiavi che ci circonda. È la strage, pubblicamente condivisa e documentata, più impressionante dalla fine della seconda guerra mondiale. Eppure, in quindici anni, non ha costruito accoglienza e solidarietà. La vergogna della nostra vita è sommersa da un crescente, redditizio muro di rifiuto e di odio razziale.

Lampedusa, sacrificata all’urto dell’ingiustizia, è il concentrato tragico del vuoto devastante scavato dentro l’identità italiana.

Sui massi del molo riservato agli sbarchi degli africani, subito sottratti alla vista dei turisti, c’è il Paese che si guarda allo specchio. Esso riflette il cinismo dei luoghi comuni che lo travolgono, attraverso le famiglie di pescatori reinventati osti e affitta-tutto. Gli abitanti ormai recitano senza pensarci: in giro non si vedono immigrati e nessuno è xenofobo; nessuno ha qualcosa contro i disperati; tutti, in passato, hanno sfamato e vestito i naufraghi; tutti pensano che vadano aiutati a casa loro. E la penosa verità. Ma tutti, oggi, concludono con un medesimo «però»: l’isola vive di turismo e le notizie degli sbarchi, o dei cadaveri, minacciano gli affari; guardia costiera, Finanza e carabinieri devono smetterla di scaricare nel porto gli africani recuperati in mezzo Mediterraneo; giornali e tivù devono piantarla di parlare di Lampedusa ogni volta che qualcuno annega tra l’Africa e l’Europa. Nella confusione di un minuscolo fronte marino meridionale, dotato di undici caserme e seicento militari, monta il vento anacronistico che soffia fino a Nord, infilandosi nel cuore delle Alpi. Si plasma in questo mare bianco, il profilo nero di una nuova anima nazionale: il razzista accogliente, avido e di buon cuore.

«La prima volta che vidi un turco (africano ndr) — dice la vicesindaco Angela Maraventano, senatrice della Lega fatta eleggere in Emilia Romagna — era il 1993. Ai piedi della madonnina c’era un tappeto scuro. Sembravano cani, o sacchi di immondizia. Poi uno ha alzato una mano». Bossi la chiama "la saracena". Gli isolani hanno affidato a lei, «in sciopero fiscale da sempre», la loro difesa. «Il centro dei clandestini — dice — va trasferito in mare, su una nave militare. Diciotto mesi e poi via, espulsi: vediamo se Gheddafi ce ne manda ancora». Il governo, assicura, in cambio di «un po’ di turchi», le ha promesso un indennizzo di 200 milioni. «Se non arrivano — dice — parte la rivolta: zona franca, o annessione alla provincia di Bergamo, o indipendenza».

Il sindaco, l’autonomista Bernardino De Rubeis, attacca invece Chiesa, Europa, Stato, Regione e carabinieri. Ex seminarista, dietro la scrivania ha appeso la foto di papa Ratzinger. «Non voglio essere razzista— dice — ma la carne dei negri puzza anche quando è lavata. Figuriamoci nel lager a cielo aperto di Lampedusa: in agosto l’ho sentito io il fetore dei clandestini ammassati tra merda e spazzatura. In duemila, sbracati su 800 materassi». Sulla scrivania tiene le offerte per circondare il centro di accoglienza con il filo spinato. «Scappano — dice — tre li ho bloccati per strada. Potevano entrare nelle nostre case». Le sue proteste hanno colpito la gente di qui.

Perché, «proprio in piena stagione turistica», il sindaco ha lanciato il «dannoso allarme» per un’emergenza che non c’è? «Il ministro Maroni — dice De Rubeis — in agosto mi disse: "Sindaco, alza la voce". Ho ubbidito e mi ha mandato 70 avieri per fare le ronde. Quando poi ho visto Berlusconi da Gheddafi, con un folle assegno da 5 miliardi, ho pure capito». È il circolo dello scandalo, denunciato da molti lampedusani. Si esibisce lo straniero e si lancia l’allarme-sbarchi; si semina la paura e si raccoglie la xenofobia; si ottiene l’emergenza e si raccolgono gli appalti. A Lampedusa come a Roma. «Un sistema pazzesco — dice Giusi Nicolini, di Legambiente — che cambia l’africano in euro. Più le istituzioni estremizzano e più aumentano gli interessi sporchi dei comitati d’affari che vivono di appalti senza gara. Nel nome dell’emergenza permanente, in deroga alla legge e senza alcun controllo, l’isola sta diventando un blocco di cemento da rapinare».

Ogni anno «l’operazione Lampedusa», tra Stato e Regione, costa quasi 50 milioni di euro. Dovrebbe regnare l’ordine lussuoso dell’Engadina. Invece l’isola sembra reduce da un bombardamento.

Strade invase da crateri. Case che si sgretolano. Illuminazione da coprifuoco. Muretti che crollano. Non c’è un ospedale, non ci sono edifici per le scuole. L’acqua dolce, nonostante sotto il mare sia abbondante, viene portata con le navi. Il viaggio fino a Porto Empedocle dura nove ore. Campagne e industrie per la conservazione del pesce sono in abbandono. In compenso le vie sono ingombre di fuoristrada militari e nel porto galleggia una flotta da base Nato. Populismo e xenofobia, consenso e affari, si nutrono di questo abbandono blindato. «Dobbiamo chiederci — dice lo scrittore Vincenzo Consolo — perché le gente sostenga un potere che si aggrappa ai migranti per coprire i propri furti. Sfrutta gli stranieri invocando il carcere, mentre spilla fondi pubblici e quattrini privati agli evasori sugli yacht. Assistiamo al ritorno dell’eterno, ipocrita fascismo italiano. L’Europa non si arena sulla Costituzione: fa naufragio sulla sfida mancata dell’accoglienza». La retorica impone di concentrarsi sulla bellezza assoluta della natura. Ma un’isola in rovina e militarizzata, come il Paese, invoca l’autonomia sperando che ciò equivalga a non pagare le tasse. E ha bisogno di un nemico inerme per giustificare la propria, inaccettabile miseria. » Il centro dei clandestini — dice il sindaco — stranamente non si svuota mai. Le presenze seguono le clausole dell’appalto vinto dalle cooperative rosse. E chiaro che c’è un basista a Lampedusa e un puparo a Roma. Ma se è un affare, ora che scade l’appalto, ci metto il naso pure io. In maggio il Comune farà la sua offerta per la gestione della struttura: è meglio se pensiamo noi a tutto, turisti e negri, senza clamori».

Una sorpresa. La posizione ufficiale è: via gli immigrati. Quella sostanziale è invece: se rendono, sfruttiamoli. Sul continente il nuovo razzismo accogliente si trasforma in lavoro nero pagato due euro all’ora. A sud di Agrigento scatena la guerra per il controllo della prima azienda dell’isola. Bilancio: dieci milioni di euro all’anno. «Siamo un esempio mondiale di umanizzazione del soccorso — dice Cono Galipò, amministratore delegato del centro di accoglienza — e ciò è politicamente esplosivo. Gli africani, qui, sono persone libere: naufraghi in attesa di identificazione. Altro che filo spinato. Se mi chiedessero di farsi un giro in paese, sarei tenuto ad aprire i cancelli. L’imminente entrata in vigore del reato di clandestinità, costringe qualcuno a riassumere il controllo dei centri. E capisco che il governo debba svuotare le carceri». L’estate della tensione prelude all’autunno del terrore. I migranti, senza neppure essere identificati, in Italia saranno arrestati.

Sei mesi in cella, prima di essere espulsi. Criminali a priori. I venti centri di accoglienza, nelle regioni, si preparano ad essere riconvertiti in colonie penali. È il prezzo da pagare alla corrente xenofoba di una UE squassata dalle crisi. «La campagna elettorale per le europee del 2009 —  dice Giuseppe Palmeri, capo-gruppo del Pd a Lampedusa — si gioca sulla militarizzazione della società. La politica della paura si è mossa in tempo, alla ricerca di nemici per raccogliere soldi. L’isola è il simbolo drammatico che anticipa l’abisso di una più vasta deriva civile».

Basta fare un giro. Per oltre ventimila migranti morti e dispersi, al cimitero ci sono sei tombe abbandonate con una croce di legno piantata nel cemento. Il centro che accoglie ventimila africani all’anno è nascosto in fondo al vallone dove seppellivano i soldati americani. Solo un relitto osceno è recuperato, custodito ed esibito con calvinista abnegazione: i resti di pescherecci e gommoni usati per le traversate.

Due impressionanti cimiteri di barche distrutte, in contrada Taccio Vecchio. Gli immigrati vivi o morti, vengono smaltiti. I mezzi della loro fuga dall’inferno, sono conservati. Gli scafi, pieni di stracci, escrementi e bottiglie vuote, stagionano sotto il sole. «Sono lì perché rendono — dice 1’ex sindaco Salvatore Martello - un mare di soldi. Recupero, trasporto, trasformazione, smaltimento: l’emergenza cronica produce e stabilizza gli affari fuori controllo, regolati dalle ordinanze». Un africano, a Lampedusa, costa 80 euro al giorno. Il suo barcone vale molto di più. No n è però solo questione di denaro. «A estinguersi — dice padre Vincent, aiuto parroco della Tanzania — è la solidarietà stessa della gente di mare». I dati sono chiari. Da mesi i dispersi nel canale di Sicilia superano le vittime. La grande fuga dell’Africa da sé stessa, finisce inghiottita dal mare. «Se prendi un cadavere — dice Enzo Billeci, leader dei pescatori lampedusani assieme al fratello Pietro — perdi un giorno di lavoro. Non possiamo più permettercelo». Molti, nell’anonimato, confermano: i corpi dei migranti, sempre più spesso, vengono abbandonati. «Si finge— dice Billeci — di non vedere i teschi nelle reti». Si arriva a incendiare e affondare barche e gommoni. I fondali, davanti alle coste, sono una discarica di natanti usati dalle cernie per nascondere il nido. «Lo vediamo dallo strascico che si spezza. Sulla corda resta la vernice degli scafi inabissati».

È la condanna dei poveri contro i miserabili. Dieci anni di schiavista xenofobia nazionale, volta a creare un serbatoio inesauribile di braccianti, manovali, operai, prostitute e badanti in nero, hanno generato una voragine di indifferenza. Nei capannoni del Nordest, o nelle campagne pugliesi, sono gli stessi caporali egiziani a spiegare che non c’è alternativa per reggere la concorrenza della Cina. A Lampedusa la gente si chiede invece perché, già travolta dall’impossibilità di una vita normale,dovrebbe farsi carico del destino di «clandestini, criminali e potenziali terroristi islamici». Non si tratta di un equivoco, ma di una politica che trasforma lucidamente l’odio in un programma.

Le storie reali dei migranti restano così chiuse dentro gli stanzoni del centro d’accoglienza. Mamme in fuga dal Congo con quattro bambini. Padri ridotti in schiavitù e torturati per anni prima di ottenere il permesso di ripartire dalla Libia. Sedicenni stuprate da gruppi di trenta soldati in Darfur. Ragazzi sopravvissuti ai massacri di Mogadiscio. Scafisti di quattordici anni abbandonati con bussola, satellitare e timone in mano. Uomini che, per paura di essere rimpatriati, sperano di rendersi non identificabili amputandosi le falangi. Adolescenti messe incinta nel corso del viaggio nei deserti del Maghreb. «Tre sorelle etiopi sotto i dieci anni — dice Lara Rizzello della Croce Rossa — questa mattina hanno commosso tutti. Imbarcandosi, ad AI Zuwara, avevano perduto il fratellino e un parente adulto. Sono arrivate sole, in cerca della madre già a Palermo da due anni». Ustionati dal cocktail di benzina-urina-acqua salata, anchilosati dalla pressione di duecento corpi stipati in barche da dieci, sfigurati dalla scabbia, infagottati in vecchi eskimo fradici e appiccicati alla pelle a brandelli, sono questi i temuti clandestini di Lampedusa. Sono loro gli spettri da nascondere. «Ogni volta che li recuperiamo vivi — dice il comandante della guardia costiera, Achille Selleri — è un miracolo». Sui barconi, in un anno, donne e bambini sono raddoppiati. La resistenza è più fragile. «Chi invoca filo spinato ed espulsioni— dice Laura Boldrini, portavoce dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati — finge di ignorare che il Mediterraneo è ormai la via dell’asilo politico. II profilo del migrante è cambiato: più che lavoro, cerca di salvarsi la vita da guerre e persecuzioni». Le statistiche confermano. La maggioranza di chi sbarca nelle Pelagie fugge da Nigeria, Somalia, Eritrea, Etiopia, e Sudan. Sette africani su dieci hanno diritto a una forma di protezione. «La catastrofe — dice Boldrini — è che nel frattempo la nostra civiltà è stata distrutta. Fino a qualche anno fa, davanti a profughi africani in fuga da un conflitto, sarebbe esplosa la solidarietà. Oggi parte l’allarme clandestini, scattano gli arresti e si decreta l’emergenza. Una situazione sfuggita di mano, ma pure una storica responsabilità politica».

E’ chiaro che se la gente di Lampedusa rappresenta oggi tanto profondamente la mutazione di un’inconfessata identità di patria, l’elite nazionale deve ammettere la propria sconfitta. «Viene da piangere—dice Sebastiano Maccarrone, direttore del centro d’accoglienza — se si pensa all’incrollabile fiducia che anima i migranti soccorsi attorno all’isola. Contano sull’Europa ricostruita grazie al rispetto dei diritti umani: si imbattono in un’Italia risucchiata verso le persecuzioni del Novecento». La grande porta dello scultore Mimmo Palladino (1), eretta per ricordare gli immigrati dispersi, si trasforma così in un inappellabile atto d’accusa civile. Nascosta dietro il depuratore, non onora un sacrificio straniero. Denuncia l’ultimo fallimento nazionale in un Meridione dove l’abbandono è usato per corrodere anche la pietà.

Per questo, qualcuno ha spostato l’opera che la senatrice Maraventano, compiaciuta del proprio umorismo padano, aveva appoggiato ad uno degli stipiti. Una finestra, per indicare anche ai morti il destino di chi prova ad entrare da una porta: la via d’uscita per l’Africa, pateticamente velleitaria ma così drammaticamente volgare, che si ostina a puntare sui sogni dell’Occidente.

 

(1) http://www.culturaitalia.beniculturali.it/pico/modules/focus/it/focus_0227.html?regione=sicilia&T=1215806251108

 



Mercoledì, 17 settembre 2008