Indipendenza del Kosovo, una bomba a scoppio ritardato

di Jean-Arnault Dérens (traduzione dal francese di José F. Padova)

Le Monde Diplomatique, marzo 2007

L’ultima riunione per i negoziati sul futuro statuto del Kosovo si è aperta a Vienna il 21 febbraio 2007. il capo della delegazione kosovara Vetton Surroi ha preteso l’indipendenza, che il Parlamento serbo ha formalmente escluso con il suo voto del 15 febbraio. L’inviato speciale delle Nazioni Unite Martti Ahtisaari avrà grandi difficoltà nell’ottenere un consenso sulla base del suo documento che prevede una «sovranità sotto sorveglianza internazionale». In mancanza di accordo la decisione finale spetterà al Consiglio di Sicurezza.

Dal nostro inviato speciale Jean-Arnault Dérens, redattore capo del sito “Le Courrier des Balcans”, autore di “Kosovo, anno zero” Paris-Méditerranée, Paris, 2006.

Le proposte dell’emissario speciale delle Nazioni Unite (ONU), Martti Ahtisaari, preesentate il 2 febbraio 2007, servono come base per una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e impegneranno il Kosovo su una via che conduce senza equivoci all’indipendenza. Il Kosovo redigerà la sua Costituzione, sceglierà il suo inno e la sua bandiera e soprattutto potrà aderire a tutte le organizzazioni internazionali, in particolar modo alle Nazioni Unite. Certo, la parola «indipendenza» non figura in nessun passaggio del testo del sig. Ahtisaari, ma non spetta al Consiglio di Sicurezza decretarla: ciò contrasterebbe con la Carta dell’ONU. L’accesso all’indipendenza risulta da due azioni: la sua proclamazione e il suo riconoscimento da parte di altri Paesi. Infine il documento Ahtisaari non contiene alcun riferimento alla sovranità della Serbia: poiché il diritto internazionale non tollera il vuoto, questo vale a dire che il Kosovo è destinato a diventare Stato sovrano.

I dirigenti albanesi hanno accolto favorevolmente il documento presentato dall’emissario dell’ONU, che costituisce un passo importante nella direzione della loro principale rivendicazione. Al contrario, le proposte sono inaccettabili per Belgrado e non ci si potrebbe meravigliare per la reazione categorica di rifiuto espressa da tutti i responsabili serbi, cominciando dal presidente della Repubblica Boris Tadic. Anche se molti dirigenti di Belgrado hanno mediocre interesse per il Kosovo e in privato spiegano che il loro Paese avrebbe ogni interesse a sbarazzarsi da quella «palla al piede» (in cambio della promessa di un ravvicinamento accelerato con l’Unione Europea), un responsabile politico serbo che ammettesse la sovranità del Kosovo firmerebbe la propria condanna alla morte politica.

La posizione di Belgrado è stata ricordata in varie riprese: sì alla più ampia autonomia possibile, ma senza proclamazione formale d’indipendenza. Recentemente Vladeta Jankovic, consigliere del Primo ministro Vojislav Kostunica, ha persino parlato di «un solo Stato e due società distinte, il che escluderebbe qualsiasi possibilità d’intervento della Serbia nella vita politica interna del Kosovo (1)

Né negoziato né compromesso

Si può considerare che gli argomenti serbi ostili all’indipendenza rivendicata da Pristina siano illegittimi o non meritino di essere presi in considerazione. Si può pensare che al volontà degli albanesi – che rappresentano la schiacciante maggioranza della popolazione del Kosovo – debba avere la prevalenza. D’altro canto l’onestà intellettuale costringe a riconoscere che il testo del sig. Ahtisaari non è per niente un «compromesso», perché non tiene alcun conto del ragionamento di Belgrado.

Il principio di un negoziato che si concluda in un compromesso suppone che le due parti rinuncino a certe loro pretese per trovare un terreno d’intesa accettabile. Nel caso del Kosovo non vi è stato compromesso fra Belgrado e Pristina . essendo forse impossibile trovarne uno. Non vi è neppure stato un vero e proprio negoziato. In occasione dell’unico incontro ad alto livello, organizzato a Vienna il 24 luglio 2006 (2) le due parti si sono limitate a esprimere le loro rispettive posizioni, che il sig. Ahtisaari ha ascoltato. Questi in seguito ha elaborato, da solo, il documento che dovrebbe essere sottoposto al Consiglio di Sicurezza in una data che resta ignota e la cui presa in conto dipenderà dalla grande partita di poker diplomatico avviata con la Russia.

Probabilmente il Kosovo giungerà all’indipendenza, che tuttavia sarà subito limitata dal dispiegamento di una pesante tutela internazionale, senza limiti di durata, almeno altrettanto pesante di quella che si svolge in Bosnia Erzegovina dalla fine della guerra, con i deludenti risultati che si conoscono. Nel documento Ahtisaari i poteri conferiti al rappresentante civile internazionale, che rappresenta anche l’Unione Europea, sarebbero della stessa natura dei poteri speciali detti «poteri di Bonn» (3). Accordati all’Alto rappresentante internazionale in Bosnia-Erzegovina essi includono in particolare la possibilità di imporre o annullare leggi votate dal Parlamento o destituire responsabili politici. Il mandato dell’ICR avrà fine soltanto quando il gruppo di indirizzo internazionale, su mandato del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, deciderà che il Kosovo potrà fare a meno di questa tutela.

Tuttavia gli effetti contro produttivi della tutela internazionale in Bosnia-Erzegovina sono ben noti. Essa confina i responsabili politici locali nell’irresponsabilità, permettendo loro di darsi alle soddisfazioni dell’escalation e genera anche una gestione del denaro opaca, permettendo di acquistare la «saggezza» e la «moderazione» dei politici locali (4). Strutturalmente produce corruzione. Le stesse cause non mancheranno di produrre i medesimi effetti in Kosovo.

La nuova tutela che sarà esercitata dall’Unione europea interviene dopo otto anni di un protettorato internazionale dell’ONU il cui bilancio è esiguo. L’obiettivo di una società «multietnica» resta un pio desiderio, il fallimento della giustizia è totale,la situazione economica e sociale rimane catastrofica. Anche se nel documento del sig. Ahtisaari non è fissato alcun termine, la tutela internazionale conserva carattere transitorio. Tuttavia, perché si dovrebbe credere che il Kosovo sarà «più adatto» ad autogovernarsi senza tutela entro uno, due o cinque anni piuttosto che oggi stesso? Si può ugualmente pensare che i cittadini e i politici albanesi accetteranno di buon animo questa tutela di lunga durata? Durante la conferenza stampa del 2 febbraio i membri della delegazione unitaria albanese ai negoziati sorridevano amaro, perché avevano capito bene che la prospettiva di un’indipendenza «piena» restava ancora lontana.

Più radicale, Albin Kurti, il dirigente del movimento Vetëvendosje («Autodeterminazione»), sottolinea il carattere antidemocratico della tutela internazionale. Il 10 febbraio i suoi militanti hanno manifestato nelle strade di Pristina contro le proposte di Ahtisaari (5). In effetti, quando la volontà dei cittadini del Kosovo e dei loro legittimi eletti non andrà nel senso dei desiderata della «comunità internazionale», questa avrà l’ultima parola in ogni circostanza. I conflitti, si dubita, non tarderanno a moltiplicarsi e il Vetëvendosje avrà certamente la possibilità di organizzare molte altre manifestazioni…

Il Kosovo soffre di una evidente carenza di esperienza democratica. Ora, non v’è democrazia senza la responsabilità che i rappresentanti politici devono pienamente assumersi dei loro propri atti e delle relative conseguenze. Un numero crescente di albanesi sopporta sempre meno l’arroganza della «gang delle 4x4 bianche», soprannome che il movimento Vetëvendosje dà ai funzionari dell’ONU e degli altri uffici internazionali. Una volta passato l’eventuale momento di grazia della proclamazione d’indipendenza, questo risentimento non può che aumentare, perché nulla lascia supporre che la situazione economica e sociale del Kosovo migliorerà. Nello stesso tempo, le proposte dell’emissario dell’ONU condurranno a una nuova prova di forza con Belgrado, dagli sbocchi e con le conseguenze più imprevedibili.

Il documento presentato da Ahtisaari insiste sul carattere «multietnico» della società che ormai si deve costruire in Kosovo. Questa ingiunzione sembra poco credibile, dopo che serbi e rom hanno vissuto un esodo massiccio dopo l’entrata delle truppe NATO nella provincia, nel giugno 1999.

Nel nome della «multi-etnicità»

Nel 2003 l’amministratore dell’ONU Michael Steiner aveva fissato otto «standard» che il Kosovo avrebbe dovuto raggiungere prima che si potessero iniziare le discussioni sul suo statuto finale. I più importanti prevedevano il diritto al ritorno per i profughi e i rifugiati, come anche la libertà di circolazione per tutti gli abitanti del Kosovo. Non sono stati per nulla raggiunti, ma la sommossa del 17 marzo 2004 e il timore di nuovi atti di violenza degli «estremisti» albanesi hanno spinto l’ONU a precipitare l’apertura del processo di definizione dello statuto. La «comunità internazionale» quindi ha rinunciato a rispettare i principi che  essa stessa aveva fissati.

Il documento Ahtisaari prevede diritti specifici per i membri di tutte le comunità nazionali e confessionali. I futuri emblemi del Kosovo dovranno comprendere i diversi «simboli nazionali». La prospettiva di una bandiera che includa i simboli albanese, serbo, rom, bosniaco, turco, ashkalli, egiziano, ecc. è una vera e propria sfida alla «vessillologia» (6).

Se pure ci si deve rallegrare perché i «piccoli popoli» del Kosovo, per una volta, non sono stati dimenticati (7), questa attenzione arriva molto tardi. Per di più il «sistema» messo in piedi dalla «comunità internazionale» non manca di produrre effetti perversi. Turchi e bosniaci devono accettare di sottomettersi a una brutale «albanizzazione» per garantirsi il loro posto nello spazio sociale del Kosovo, ma l’amministrazione dell’ONU continua a promuovere la lingua bosniaca, mentre i bosniaci del Kosovo naturalmente parlano serbo, e per di più con l’accento serbo del Kosovo. Nello stesso modo il sistema amministrativo messo in opera dal 1999 ha favorito l’esplosione della comunità rom e lo sviluppo di nuovi gruppi etnici, gli ashkalli e gli egiziani. Nel Kosovo «multietnico» di domani certi dirigenti di comunità, largamente autoproclamati, potranno continuare ad approfittare delle prebende del sistema, per poco che accettino di servire da alibi etnico.

Come tutte le società dei Balcani quella del Kosovo non è stata mai «multietnica», almeno nel senso in cui l’intendono gli spiriti fini internazionali. Al contrario, comunità nazionali, linguistiche o confessionali diverse fra loro hanno saputo vivere su questo territorio per secoli, con intesa reciproca relativamente buona. I loro rapporti non hanno cessato mai di evolversi e di ridefinirsi a seconda delle logiche degli interessi, dei conflitti o della cooperazione. L’esperienza storica degli ultimi vent’anni – la violenza del regime di Slobodan Milosevic, lo sviluppo del nazionalismo albanese, la guerra, il triste dopoguerra nel quale si avvita il Kosovo dopo quasi otto anni – ha tagliato un gran numero di rapporti fra comunità (8). Il discorso internazionale di circostanza sulla «multi-etnicità» ha ben poche chance di ripararli.

La decentralizzazione d’altra parte costituisce uno dei punti più importanti delle proposte del sig. Ahtisaari. Nel burocratese delle  Nazioni Unite il termine «decentralizzazione» è diventato il modo convenzionale per richiamare i vantaggi e i privilegi accordati ai serbi del Kosovo allo scopo di convincerli a non abbandonare il territorio o a non fare secessioni. Così i vantaggi proposti dal documento Ahtisaari ai comuni serbi del Kosovo sono nettamente più sostanziosi dell’autonomia accordata alla Republika Srpska di Bosnia-Erzegovina. In particolare i serbi del Kosovo avranno il diritto alla doppia cittadinanza, mentre i comuni autonomi serbi potranno stabilire relazioni fra loro e con la Serbia. Si crea quindi una «Republika Srpska del Kosovo-Metohija», ma senza pronunciarne il nome, questo è certo in questa operazione l’ipocrisia cede il passo soltanto all’ingenuità.

Effettivamente è perfettamente illusorio immaginare che gli albanesi accetteranno senza recalcitrare questa amputazione di una parte importante del territorio del Kosovo, che di fatto sfuggirebbe all’autorità di Pristina. Ma è ancora più assurdo pensare che i vantaggi che si promettono loro convinceranno i serbi ad accettare di buon grado di diventare cittadini di un Kosovo indipendente. Nella sua cronaca settimanale sul quotidiano serbo Danas l’ex ambasciatore americano a Belgrado William Montgomery ha riconosciuto che «i serbi del Kosovo non hanno alcun motivo di avere fiducia nella comunità internazionale» e che le garanzie promesse alle minoranze nazionali non sono altro che «parole sulla carta (9)».

Secondo la nuova carta delle municipalità proposta dal rapporto Ahtisaari i problemi potrebbero concentrarsi in tre settori.

La regione di Gnjilane/Gjilan, la grande città del Kosovo orientale, vicina alla frontiera serba, è la più toccata dalla decentralizzazione. La maggioranza dei villaggi che circondano la città sono serbi e costituirebbero nuovi comuni autonomi oppure collegati alla città di Novo Brdo. In tal modo Gnjilane/Gjilan sarebbe «accerchiata» da comuni serbi. Il movimento Vetëvendosje concentra la sua campagna contro la decentralizzazione in questa zona, facendo leva sul sentimento di paura degli albanesi. Per questi militanti radicali la decentralizzazione conduce inevitabilmente alla spartizione del Kosovo.

La zona serba del Kosovo settentrionale costituisce un altro punto nero. Le proposte Ahtisaari consistono nel congelamento della situazione così com’è sul terreno. Il fiume Ibar segna una frontiera che separa il nord del Kosovo, contiguo alla Serbia, dal resto del territorio. Allo stato attuale delle cose la posizione dei dirigenti serbi locali lascia tuttavia pensare che in caso d’indipendenza del Kosovo questa zona decreterebbe la propria secessione e potrebbe diventare un focolaio più grande di tensioni.

Se nei prossimi mesi dovessero scoppiare vioenze provocate da elementi radicali albanesi o serbi, i serbi delle enclave situate a sud del fiume Ibar si troverebbero nella situazione più incresciosa. Per alcune di queste enclave non è prevista alcuna forma di autonomia, come per i villaggi di Gorazdevac e di Velika Hoca o il ghetto serbo di Orahovac/Rahovec.

Pure nel sud del Kosovo si trovano i più prestigiosi monasteri serbi, come Visoki Decani e la sede patriarcale della Chiesa ortodossa, a Pec/Peja. Per le chiese e i monasteri è previsto uno statuto d’eccezione, abbinato ad ampie «zone di sicurezza», cosa che scontenta molto gli albanesi.

Come un prodotto di laboratorio

Le esperienze di giugno 1999 e di marzo 2004 hanno mostrato la fiducia che si può accordare alle truppe della NATO per la protezione dei santuari medievali o delle popolazioni civili… Nuove distruzioni e un esodo supplementare dei serbi delle enclave costituiscono scenari che non si potrebbe escludere. D’altra parte l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) elabora con discrezione, da mesi, dei piani per fare fronte all’afflusso di nuovi profughi in Serbia.

Sembra che il sig. Ahtisaari abbia tenuto conto di due principi errati e controproducenti seguiti dalla «comunità internazionale» nella sua gestione delle guerre jugoslave degli anni ’90: separare i problemi l’uno dall’altro e prendere tempo rinviando la ricerca di soluzioni.

Pertanto nessuna soluzione accettabile sarà trovata in Kosovo prescindendo dall’ambiente della regione e in particolare dall’esistenza di una questione nazionale albanese su entrambi i lati del confine. Al contrario, il fai da te istituzionale che Ahtisaari propone per il Kosovo, che egli ha «isolato» dal suo contesto regionale come un prodotto di laboratorio, rischia assai di scatenare un nuovo incendio regionale, perché provocherà innumerevoli frustrazioni sia nei serbi che negli albanesi.

Mentre il 60% della popolazione del Kosovo ha meno di 25 anni e la disoccupazione colpisce ufficialmente più della metà della popolazione attiva, drammi sociali e sogni nazionalistici potrebbero formare un cocktail esplosivo. Nel sistema di tutela che dovrebbe essere messo in piedi spetterà all’Unione Europea continuare a pagare i costi di pesanti missioni civili e militari, di vasti e inoperanti programmi di ricostruzione, senza dimenticare i succosi onorari d’innumerevoli legioni di esperti. Questa amministrazione neocoloniale non tarderà ad attirarsi il risentimento delle popolazioni.

In effetti manca l’essenziale, vale a dire una vera e propria strategia di sviluppo economico del Kosovo, ciò che presuppone un’organizzazione regionale legata a una prospettiva credibile d’integrazione europea. In mancanza della quale il Kosovo rischia fortemente di rimanere ancora a lungo un barile di polvere.

(1) Dichiarazioni riprese dal sito della radio serba B92, 10 febbraio 2007, www.b92.net/info/ vesti/index.php’?yyyy=2007&mm=02&dd=10&nav_ id=231828

(2) Vedi: « Statut du Kosovo : une valse pour rien à Vienne?», sul sito Le Courrier des Balkans, 24 juillet 2006, http://balkans.courriers.info/article 6909.html

(3) Il testo proposto dal sig. Ahtisaari può essere consultato sul sito dell’United Nations Office of the Special Envoy for Kosovo (Unosek) : www.unosek.org

(4) Vedi: Christophe Solioz, L’Après-Guerre dans les Balkans. L’appropriation des processus de transition et de démocratisation pour enjeu, Karthala, Paris, 2003.

(5) La polizia delle Nazioni Unite e quella del Kosovo (KPS) hanno violentemente represso questa manifestazione. Bialncio: due morti e ottanta feriti.

(6) Vedi: Jeton Musliu, « Hymne, drapeau : quels symboles pour le Kosovo ? », 4 février 2007, http:fibalkans.courriers.info/article7654.htmI

(7) Vedi:« Les "petits peuples" oubliés des Balkans », Le Monde diplomatique, juillet 2003

(8) Vedi: « Le mythe d’un Kosovo multiethnique », Etudes, Paris, janvier 2007, p. 21-3I

(9) Vedi: « Kosovski Srbi nemaju razioga da veruju medjunarodnoj zajednici », Danas, Belgrade, 10 février 2007.

Testo originale :

 

Indépendance du Kosovo, une bombe à retardement

La dernière réunion de négociation sur le futur statut du Kosovo s’est ouverte à Vienne le 21 février 2007. Le chef de la délégation kosovare Vetton Surroi a exigé l’indépendance, que le Parlement serbe a formellement exclue par son vote du 15 février. L’envoyé spécial des Nations unies Martti Ahtisaari aura le plus grand mal à obtenir un consensus à partir de son document, qui prévoit une «souveraineté sous surveillance internationale ». Faute d’accord, la décision finale devra revenir au Conseil de sécurité.

par notre envoyé special Jean-Arnault Dérens ** Rédacteur en chef du site Le Courrier des Balkans, auteur de Kosovo, année zéro, Paris-Méditerranée, Paris, 2006.

 Le monde Diplomatique, novembre 2007

Les propositions de l’émissaire spécial de l’Organisation des Nations unies (ONU), M. Martti Ahtisaari, présentées le 2 février 2007, servent de base à une résolution du Conseil de sécurité de l’ONU, elles engageront le Kosovo dans une voie conduisant sans équivoque à l’indépendance. Le Kosovo rédigera sa Constitution, disposera de son hymne et de son drapeau, et surtout pourra adhérer à toutes les organisations internationales, notamment aux Nations unies. Certes, le mot « indépendance » ne figure nulle part dans le texte de M. Ahtisaari, mais il n’appartient pas au Conseil de sécurité de la décréter : cela serait contraire à la Charte de l’ONU. L’accession à l’indépendance résulte de deux actions : sa proclamation, et sa reconnaissance par d’autres pays. Enfin, le document de M. Ahtisaari ne contient aucune référence à la souveraineté de la Serbie : le droit international ne supportent pas le vide, autant dire que le Kosovo est appelé à devenir souverain.

Les dirigeants albanais ont salué le document remis par l’émissaire de l’ONU, qui constitue un pas important dans le sens de leur principale revendication. En revanche, les propositions sont inacceptables pour Belgrade, et l’on ne saurait s’étonner de la réaction catégorique de rejet exprimée par tous les responsables serbes, à commencer par le président de la République Boris Tadic. Même si beaucoup de dirigeants de Belgrade ne portent qu’un intérêt médiocre au Kosovo, et expliquent, en privé, que le pays aurait tout intérêt à se débarrasser de ce « boulet» (en échange de la promesse d’un rapprochement accéléré avec l’Union européenne), un responsable politique serbe qui admettrait la souveraineté du Kosovo signerait sa mort politique.

La position de Belgrade a été rappelée à maintes reprises : oui à la plus large autonomie possible, mais sans proclamation formelle d’indépendance. Récemment, M. Vladeta Jankovic, conseiller du premier ministre Vojislav Kostunica, a méme évoqué « un seul Etat, deux sociétés distinctes », ce qui exclurait toute possibilité d’intervention de la Serbie dans la vie politique intérieure du Kosovo (1).

Ni négociation ni compromis

On peut estimer que les arguments serbes hostiles à l’indépendance revendiquée par Pristina sont illégitimes ou ne méritent pas d’être retenus. On peut penser que la volonté des Albanais — qui représentent l’écrasante majorité de la population du Kosovo — doit primer. En revanche, l’honnêteté intellectuelle oblige à reconnaitre que le texte de M. Ahtisaari n’est en rien un « compromis » : il ne tient nul compte du raisonnement de Belgrade.

Le principe d’une négociation aboutissant à un compromis suppose que les deux parties renoncent à certaines de leurs prétentions pour trouver un terrain d’entente acceptable. Dans le cas du Kosovo, il n’y a pas eu de compromis entre Belgrade et Pristina — peutétre était-il impossible d’en trouver un. Il n’y a pas eu non plus de véritable négociation. Lors de la seule rencontre de haut niveau, organisée à Vienne le 24 juillet 2006 (2), les deux parties se sont bornées à exprimer leurs positions respectives, que M. Ahtisaari a écoutées. Il a ensuite élaboré, seul, le document qui devrait être soumis au Conseil de sécurité à une date qui demeure inconnue, et dont la prise en compte dépendra de la grande partie de poker diplomatique engagée avec la Russie.

Le Kosovo accédera probablement à l’indépendance. Laquelle sera cependant aussitôt limitée par la mise en place d’une lourde tutelle internationale, sans limitation de durée, au moins aussi pesante que celle qui prévaut depuis la fin de la guerre en Bosnie-Herzégovine, avec les résultats décevants que l’on sait. Dans le document remis par M. Ahtisaari, les pouvoirs conférés au représentant civil international (ICR), également représentant de l’Union européenne, seraient de méme nature que les pouvoirs spéciaux, dits «pouvoirs de Bonn » (3). Accordés au haut représentant international en Bosnie-Herzégovine, ceux-ci incluent notamment la possibilité d’imposer ou de casser des lois votées par le Parlement, ou de destituer des responsables politiques. Le mandat de l’ICR ne prendra fin que lorsque le groupe de pilotage international (ISG), mandaté par le Conseil de sécurité de l’ONU, décidera que le Kosovo peut se passer de cette tutelle.

Les effets contre-productifs de la tutelle internationale en Bosnie-Herzégovine sont pourtant bien connus. Elle confine les responsables politiques locaux dans l’irresponsabilité, en leur permettant de s’abandonner aux joies de la surenchère. Elle est également génératrice d’une gestion opaque de l’argent, permettant d’acheter la « sagesse » et la « modération » des politiciens locaux (4). Elle est donc structurellement productrice de corruption. Les mêmes causes ne manqueront pas de produire les mêmes effets au Kosovo

La nouvelle tutelle qui sera exercée par l’Union européenne intervient après huit années d’un protectorat international de l’ONU dont le bilan est maigre. Uobjectif d’une société «multiethnique » demeure un vceu pieux, la faillite de la justice est totale, la situation économique et sociale reste catastrophique. Méme si aucun terme n’est fixé dans le document de M. Ahtisaari, la tutelle internationale conserve un caractère transitoire. Cependant, pourquoi devrait-on croire que le Kosovo sera « plus apte » à s’autogouverner sans tutelle dans un, deux ou cinq ansteront de bon ceeur cette tutelle de longue durée ? Lors de leur conférence de presse du 2 février, les membres de l’équipe unitaire albanaise de négociation affichaient des sourires crispés, car ils avaient bien compris que la perspective d’une « pleine » indépendance demeurait encore lointaine.

Plus radical, M. Albin Kurti, le dirigeant du mouvement Vetévendosje (« Autodétermination »), souligne le caractère antidémocratique de la tutelle internationale. Le 10 février, ses militante ont manifesté dans les rues de Pristina, dénonçant les propositions de M. Ahtisaari (5). En effet, lorsque la volonté des citoyens du Kosovo et de leurs élus légitimes n’ira pas dans le sens des desiderata de la « communauté internationale », celle-ci aura, en toutes circonstances, le dernier mot. Les conflits, on s’en doute, ne tarderont pas à se multiplier, et le Vetévendosje aura assurément le loisir d’organiser bien d’autres manifestations...

Le Kosovo souffre d’une évidente carence d’expérience démocratique. Or il n’y a pas de démocratie sans responsabilité des représentants politiques, qui doivent assumer pleinement leurs actes et leurs conséquences. Un nombre croissant d’Albanais supportent de plus en plus mal l’arrogante du « gang des 4 x 4 blanches », comme le mouvement Vetévendosje surnomme les fonctionnaires de l’ONU et des autres officines internationales. Passé l’éventuel moment de gràce de la proclamation d’indépendance, ce ressentiment ne peut que grandir, rien ne permettant de supposer que la situation économique et sociale du Kosovo s’améliorera. Dans le méme temps, les propositions de l’émissaire de l’ONU vont conduire à une nouvelle épreuve de force avec Belgrade, à l’issue et aux conséquences imprévisibles.

Le document remis par M. Ahtisaari insiste sur le caractère « multiethnique » de la société qu’il faut désormais bâtir au Kosovo. Cette injonction semble bien peu crédible, quand Serbes et Roms ont vécu un exode massif depuis que les troupes de l’Organisation du traité de l’Atlantique nord (OTAN) sont entrées dans la province en juin 1999.

Au nom de la « multiethnicité »

EN 2003, 1’administrateur de l’ONU Michael Steiner avait fixé huit « standards » que le Kosovo devait atteindre avant que des discussions sur son statut final puissent s’engager. Les plus importants prévoyaient le droit au retour des déplacés et des réfugiés, ainsi que la liberté de circulation pour tous les habitants du Kosovo. Ils n’ont absolument pas été atteints, mais les émeutes du 17 mars 2004 et la crainte de nouvelles actions violentes des « extrémistes » albanais ont poussé l’ONU à précipiter l’ouverture du processus de définition du statut. La «communauté internationale » a donc renoncé elle-méme à respecter les principes qu’elle avait fixés.

Le document de M. Ahtisaari prévoit des droits spécifiques pour les membres de toutes les communautés nationales et confessionnelles. Les futurs emblèmes du Kosovo devront comporter les différents « symboles nationaux ». La perspective d’un drapeau incluant des symboles albanais, serbe, rom, bosniaque, turc, ashkalli, égyptien, etc., est un véritable défi à la vexillologie (6).

Si on doit se réjouir que les «petits peuples » du Kosovo, pour une fois, n’aient pas été oubliés (7), cette attention arrive bien tard. De surcroit, le « système »mis en piace par la « communauté internationale » ne manque pas de produire des effets pervers. Turcs et Bosniaques doivent accepter de se soumettre à une brutale « albanisation » pour garantir leur piace dans l’espace social du Kosovo, mais 1’administration onusienne continue de promouvoir la langue bosniaque, alors que les Bosniaques du Kosovo parlent naturellement serbe, et avec l’accent serbe du Kosovo. De méme, le système administratif mis en piace depuis 1999 a favorisé l’éclatement de la communauté rom et le développement de nouveaux groupes ethniques, les Ashkalli et les Egyptiens. Dans le Kosovo « multiethnique » de demain, certains dirigeants communautaires largement autoproclamés pourront continuer à profiter des prébendes du système, pour peu qu’ils acceptent de servir d’alibi ethnique.

Comme toutes les sociétés des Balkans, celle du Kosovo n’a jamais été «multiethnique », du moins dans le sens où l’entendent les bons esprits internationaux. Différentes communautés nationales, linguistiques ou confessionnelles ont en revanche su vivre sur ce territoire durant des siècles, en relativement bonne intelligence. Leurs rapports n’ont cessé d’évoluer et de se redéfinir au gré des logiques d’intéréts, de conflit ou de coopération. L’expérience historique des vingt dernières années – la violence du régime de Slobodan Milosevic, le développement du nationalisme albanais, la guerre, le triste après-guerre dans lequel se morfond le Kosovo depuis bientòt huit ans – a coupé un grand nombre des relations intercommunautaires (8). Le discours international convenu sur la « multiethnicité » a bien peu de chances de les restaurer.

La décentralisation constitue par ailleurs un des points majeurs des propositions de M. Ahtisaari. Dans la langue de bois des Nations unies, le mot « décentralisation » est devenu la manièreconvenue d’évoquer les avantages et privilèges accordés aux Serbes du Kosovo pour essayer de les convaincre de ne pas fuir le territoire ou de ne pas faire sécession. Ainsi, les avantages proposés par le document Ahtisaari aux communes serbes du Kosovo sont-ils nettement plus substantiels que l’autonomie accordée à la Republika Srpska de Bosnie-Herzégovine. Les Serbes du Kosovo auront notamment le droit à la double citoyenneté, tandis que les communes autonomes serbes pourront établir des relations entre elles et avec la Serbie. On crée donc une « Republika Srpska du Kosovo et Metohija », mais sans bien sùr en prononcer le nom. Dans cette opération, l’hypocrisie ne le cède qu’à la naîveté.

En effet, il est parfaitement illusoire d’imaginer que les Albanais accepteront sans rechigner cette amputation d’une part importante du territoire du Kosovo, qui échapperait de facto à l’autorité de Pristina. Il est encore plus absurde de penser que les avantages qu’on leur promet convaincront les Serbes d’accepter de bon gré de devenir des citoyens d’un Kosovo indépendant. Dans sa chronique hebdomadaire au quotidien serbe Danas,l’ancien ambassadeur américain à Belgrade William Montgomery a lui-méme reconnu que « les Serbes du Kosovo n ’ont aucune raison de faire confiance à la communauté internationale », et que les garanties promises aux minorités nationales ne sont que « des mots sur du papier (9) ».

D’après la nouvelle carte des municipalités proposée par le rapport de M. Ahtisaari, les problèmes pourraient se concentrer dans trois secteurs.

La région de Gnjilane/Gjilan, la grande ville de l’est du Kosovo, proche de la frontière serbe, est la plus affectée par la décentralisation. La majorité des villages qui entourent la ville sont serbes, et seraient constitués en nouvelles communes autonomes ou bien rattachés à celle, existante, de Novo Brdo. De la sorte, Gnjilane/Gjilan serait « encerclée » par des communes serbes. Le mouvement Vetévendosje concentre sa campagne contre la décentralisation dans cette zone, en jouant sur le sentiment de peur des Albanais. Pour ces militants radicaux, la décentralisation mène immanquablement à la partition du Kosovo.

La zone serbe du nord du Kosovo forme un autre point noir. Les propositions de M. Ahtisaari consistent à geler la situation qui règne sur le terrain. La rivière Ibar marque une frontière séparant le nord du Kosovo, contigu à la Serbie, du reste du territoire. En l’état actuel des choses, les positions des dirigeants serbes locaux laissent cependant penser qu’en cas d’indépendance du Kosovo cette zone proclamerait sa propre sécession du Kosovo, et pourrait redevenir un foyer majeur de tensions.

Si des violences, provoquées par des éléments radicaux albanais ou serbes, devaient éclater dans les prochains mois,les Serbes des enclaves situées au sud de la rivière Ibar se trouveraient dans la situation la plus fàcheuse. Aucune forme d’autonomie n’est prévue pour certaines de ces enclaves, comme les villages de Gorazdevac et Velika Hoca ou le ghetto serbe d’Orahovac/Rahovec.

C’est également dans le sud du Kosovo que se trouvent les plus prestigieux monastères serbes, comme Visoki Decani et le siège patriarcal de l’Eglise orthodoxe, à Pec/Peja. Un statut d’exception est prévu pour les églises et les monastères, assorti de larges « zones de sécurité », ce qui mécontente beaucoup d’Albanais.

Comme un produit de laboratoire

Les expériences de juin 1999 et de mars 2004 (lire la chronologie ci-dessous) ont montré la confiance que l’on pouvait accorder aux troupes de 1’OTAN pour protéger les sanctuaires médiévaux ou les populations civiles... De nouvelles destructions ainsi qu’un exode supplémentaire des Serbes des enclaves constituent des scénarios que l’on ne saurait exclure. Le Haut-Commissariat des Nations unies pour les réfugiés (UNHCR) élabore d’ailleurs depuis des mois, dans la discrétion, des dispositifs pour faire face à l’afflux de nouveaux déplacés en Serbie.

M. Ahtisaari semble reprendre à son compte deux principes erronés et contreproductifs suivis par la « communauté internationale » dans sa gestion des guerres yougoslaves des années 1990: séparer les problèmes les uns des autres, et gagner du temps en différant la recherche de solutions.

Aucune solution acceptable ne sera pourtant trouvée au Kosovo en faisant abstraction de l’environnement régional, et notamment de l’existence d’une question nationale albanaise transfrontalière. Tout au contraire, le bricolage institutionnel que propose M. Ahtisaari pour le Kosovo, qu’il a « isolé » de son contexte régional comme un produit de laboratoire, risque bien de déclencher un nouvel incendie régional, car il provoquera d’innombrables frustrations tant chez les Serbes que chez les Albanais.

Alors que 60 % de la population du Kosovo a moins de 25 ans, et que le chómage touche officiellement plus de la moitié de la population active, drames sociaux et réves nationaux pourraient former un cocktail explosif. Dans le système de tutelle qui devrait étre mis en place, il reviendra à l’Union européenne de continuer à payer les frais de lourdes missions civiles et militaires, de vastes et inopérants programmes de reconstruction, sans oublier les juteux honoraires d’innombrables légions d’experts. Cette administration néocoloniale ne tardera pas à s’attirer le ressentiment des populations.

L’essentiel fait en effet défaut, à savoir une véritable stratégie de développement économique du Kosovo, qui suppose une organisation régionale liée à une perspective crédible d’intégration européenne. Faute de quoi, le Kosovo risque fort de rester longtemps encore un bari] de poudre.

Jean-Arnault Dérens.

(1) Déclarations reprises sur le site de la radio serbe B92, 10 février 2007, www.b92.net/info/ vesti/index.php’?yyyy=2007&mm=02&dd=10&nav_ id=231828

(2) Lire « Statut du Kosovo : une valse pour rien à Vienne?», sur le site Le Courrier des Balkans, 24 juillet 2006, http://balkans.courriers.info/article 6909.html

(3) Le texte remis par M. Ahtisaari peut étre consulté sur le site de l’United Nations Office of the Special Envoy for Kosovo (Unosek) : www.unosek.org

(4) Lire Christophe Solioz, L’Après-Guerre dans les Balkans. L’appropriation des processus de transition et de démocratisation pour enjeu, Karthala, Paris, 2003.

(5) La police des Nations unies et celle du Kosovo (KPS) ont violemment réprimé cette manifestation. Bilan : deux morts et quatre-vingts blessés.

(6) Lire Jeton Musliu, « Hymne, drapeau : quels symboles pour le Kosovo ? », 4 février 2007, http:fibalkans.courriers.info/article7654.htmI

(7) Lire « Les "petits peuples" oubliés des Balkans », Le Monde diplomatique, juillet 2003.

(8) Lire « Le mythe d’un Kosovo multiethnique », Etudes, Paris, janvier 2007, p. 21-3I .

(9) Lire « Kosovski Srbi nemaju razioga da veruju medjunarodnoj zajednici », Danas, Belgrade, 10 février 2007.

 

Un vieil enjeu

1389. Bataille du Champ-des-Merles : défaite des Serbes devant les Turcs. L’Empire ottoman conquiert le Kosovo.

1918. Le Kosovo fait partie du nouvel Etat yougoslave, le royaume des Serbes, Croates et Slovènes.

31 janvier 1946. Naissance de la République populaire fédérative, dans laquelle le Kosovo est une «région autonome », mais très subordonnée à Belgrade.

1974. Nouvelle Constitution yougoslave, qui renforce l’autonomie du Kosovo, doté d’institutions politiques propres.

1981. Au printemps, des dizaines de milliers d’Albanais du Kosovo réclament le statut de république fédérée. Sanglante répression.

23 mars 1989. Une réforme de la Constitution serbe limite le statut d’autonomie du Kosovo et de la Voivodine.

Juillet 1990. La Serbie dissout les institutions politiques du Kosovo.

Février-mars 1998. Apparition de l’Armée de libération du Kosovo (UCK) et début des affrontements avec les Serbes, qui feront près de deux mille victimes parmi les Kosovars albanais et en pousseront deux cent cinquante mille à l’exode.

Mars-juin 1999. Guerre aérienne de l’OTAN contre la République fédérale de Yougoslavie. Huit cent mille Albanais se réfugient dans les pays voisins.

Juin 1999. Retrait des troupes serbes du Kosovo. Deux cent cinquante mille Serbes et Roms fuient le Kosovo. Placement de la région sous administration provisoire des Nations unies (Minuk) et déploiement de la Kosovo Force (KFOR) de l’OTAN.

Février 2002. Ibrahim Rugova est élu, cette fois officiellement, président du Kosovo.

Février 2004. Violences interethniques : dix-neuf morts, vingt églises orthodoxes détruites.

Janvier 2006. Décès du président Rugova.

Octobre 2006. Approuvée par référendum, la nouvelle Constitution serbe considère le Kosovo comme partie intégrante du pays.

Février 2007. Propositions de l’envoyé spécial de l’ONU, M. Martti Ahtisaari, sur le statut du Kosovo.

La dernière pièce du puzzle balkanique

Cette formule a été trop souvent répétée : « L’éclatement de la Yougoslavie a commencé au Kosovo et se terminera au Kosovo. » II est vrai que Slobodan Milosevic a largement manipulé le sort de cette province pour son ascension politique, dans les années 1980. Selon une métaphore très en vogue dans certains milieux diplomatiques, l’indépendance du Kosovo représenterait la « mise en piace de la dernière pièce du puzzle balkanique ». Cette indépendance devrait donc clore l’ère des fractures et des divisions. Rien n’est pourtant moins certain.

L’indépendance du Kosovo romprait avec la logique suivie lors de la dissolution de l’URSS et de laYougoslavie, prévoyant la possibilité d’une accession à l’indépendance pour les républiques fédérées (ce qui était, par exemple, le cas du Monténégro), mais pas pour les pro-vinces, républiques ou autres entités simplement autonomes (comme le Kosovo, mais aussi, dans le Caucase, la Tchétchénie ou I’Abkhazie). Cette indépendance créerait donc un incontestable précédent.

La diplomatie russe explique depuis des mois que la résolution de la question du Kosovo doit reposer sur des principes « universels »: Si l’indépendance du Kosovo est reconnue, pourquoi celle de la Transnistrie (en Moldavie) ne le serait-elle pas ? Les partisans de l’indépendance soutiennent au contraire que le Kosovo représente un « cas spécifique », mais ils n’ont pas véritablement réussi à convaincre de la pertinente de leur argument.

Plusieurs pays redoutent l’effet d’entrainement que pourrait avoir l’indépendance du Kosovo. Au sein de I’Union européenne, I’Espagne est ainsi totalement opposée à l’indépendance, car elle pense au Pays basque et à la Catalogne. Il en va de méme pour la Roumanie, qui songe, elle, à sa minorité hongroise de Transylvanie.

Constaté depuis quelques mois par tous les diplomates, le durcissement de la position russe s’explique probablement par la volonté du Kremlin de manifester sa nouvelle force sur la scène internationale. Moscou refuse toute solution qui ne serait pas « acceptable » par les deux parties, Belgrade et Pristina. Le mythe de la «fraternité slavo-orthodoxe» entre la Russie et la Serbie comete beaucoup moins que la volonté de M.Vladimir Poutine de montrer sa capacité à engager un bras de fer avec les pays occidentaux – on l’a vérifié avec son discours de Munich contre l’« hégémonie américaine », le 10 février.

Au plan régional, l’accession du Kosovo à l’indépendance aurait des conséquences en Bosnie-Herzégovine. Les dirigeants de la Republika Srpska, l’« entité serbe» de ce pays toujours divisé, ne manquent pas de souligner que 1’accession du Kosovo ferait jurisprudence, justifiant leurs aspirations à la sécession. Belgrade ne renonce pas non plus à brandir cette carte, méme si l’hypothèse d’un «troc» du Kosovo contre la Republika Srpska, qui serait rattachée à la Serbie, semble difficilement envisageable.

UNE SITUATION d’autant plus périlleuse que la Bosnie-Herzégovine se trouve toujours dans l’impasse politique. Toutes les tentatives de réforme de la Constitution issue des accords de paix de Dayton ont échoué. Alors que les partis bosniaques et croates sont toujours divisés, le premier ministre de la Republika Srpska Milorad Dodik a réussi à réunifier le camp serbe. Son Parti des sociauxdémocrates indépendants (SNSD) a obtenu plus de 50 % des voix serbes et domine absolument tous les centres de pouvoir à Banja Luka. Le SNSD est également le plus puissant parti politique à l’échelle de toute la Bosnie. Il avait mené campagne en revendiquant le droit de la Republika Srpska à organiser un référendum d’autodétermination. Rappelons que la carrière politique de

M. Dodik, commencée après la fin de la guerre, est largement due au soutien américain. Le chef des sociauxdémocrates serbes était alors naturellement présenté comme un « modéré ».

L’ÉVOLUTION DU STATUT DU KOSOVO aura également d’inéluctables conséquences sur l’ensemble du monde albanais. Déjà, certains commentateurs albanais considèrent la possibilité d’une accession du Kosovo à l’indépendance comme une « revanche sur I’histoire » : les divisione infligées à la nation albanaise par les grandes puissances, notamment lors du dépecage de l’Empire ottoman, seraient sur le point d’ètre dépassées. Malgré les garanties formelles posées par le document de M. Martti Ahtisaari, qui interdisent au Kosovo d’avoir des prétentions territoriales ou de pouvoir s’unir avec l’un de ses voisins, la question nationale albanaise est indubitablement ouverte.

Les autorités macédoniennes estiment qu’il vaut mieux que l’avenir du Kosovo soit scellé au plus vite, par crainte d’éventuelles répercussions sur le pays, toujours fragile, six ans après la conclusion des accords de paix d’Ohrid avec la guérilla albanaise. Cependant, quelle serait la force d’attraction d’un Kosovo indépendant sur les Albanais de Macédoine, qui représentent un quart de la population du pays ?

Délibérément, le document de M. Ahtisaari ne fait nulle mention de la vallée de Presevo, dans le sud de la Serbie, où vivent quelque cent mille Albanais. Ceux-ci désignent cette région comme le « Kosovo orientai » et révent toujours d’un rattachement à un Kosovo indépendant. En 2001, une guérilla s’était développée dans la région. Croire qu’un problème disparaîtra si l’on s’abstient de le mentionner relève d’une politique bien connue, celle de l’autruche.

J.-A. D.



Sabato, 05 gennaio 2008