Al di là dell’agitazione diplomatica
Le Monde Diplomatique, marzo 1976

Darfur, cronaca di un genocidio «ambiguo»

di Gérard Prunier*
(traduzione dal francese di José F. Padova)

Sudan, Ciad e Repubblica Centroafricana, destabilizzati dal conflitto in Darfur, al vertice Franco-Africano del 14 febbraio scorso, a Cannes, si sono impieganti a rispettare la sovranità dei loro vicini. Ma l’agitazione diplomatica maschera uno stallo politico internazionale la cui causa sono le poste petrolifere in gioco. I massacri in Darfur avrebbero già fatto quattrocentomila vittime.


* Gérard Prunier, ricercatore del Centro nazionale della Ricerca Scientifica (CNRS, Parigi) e direttore del Centro francese di Studi Etiopici (Addis-Abeba), autore di: Darfur: The Ambigous Genocide, Hurst, Londra.


Circa due milioni di persone sono fuggite dal Darfur (nord-ovest del Sudan) dal 2003, duecentocinquantamila dall’agosto 2006 (1). Il vicino Ciad è destabilizzato dall’afflusso di duecentoventicinquemila rifugiati. In quattro anni il conflitto ha fatto quattrocentomila morti. Le equipe umanitarie delle Nazioni Unite e delle Organizzazione non governative (ONG) hanno dovuto cambiare trentun volte l’installazione dei loro campi per sfuggire alle violenze. Ciò che non ha impedito a numerosi loro membri di essere arrestati dalla polizia sudanese e percossi con il calcio dei fucili, il 19 gennaio scorso a Nyala. Dodici operatori umanitari sono stati uccisi nel corso dei massacri e altri cinque sono scomparsi.
Kartum giustifica i frequenti bombardamenti aerei assimilandone le vittime ai ribelli che il 5 maggio 2006 hanno rifiutato di firmare la «pace» di Abuja (Nigeria) (2). Di fatto, il governo sudanese cerca soprattutto di impedire ai combattenti di tenere un congresso destinato a unificare i loro movimenti e a tentare di riprendere i negoziati con l’appoggio della «comunità internazionale» (3).
Di fronte a questa cronaca di un disastro annunciato l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) e l’Unione Africana adottano essenzialmente misure simboliche e dilatorie. Da due anni una forza interafricana di settemilacinquecento uomini, la Missione dell’Unione Africana in Sudan (MUAS, o in inglese AMIS African Union Mission in Sudan) è dispiegata nel Darfur. Composta da contingenti provenienti da una dozzina di Paesi africani (principalmente da Ruanda e Nigeria) questa forza si è rivelata perfettamente inefficace. Effettivamente i suoi effettivi sono troppo ridotti: sarebbero necessari almeno trentamila uomini per coprire i cinquecentomila chilometri quadrati del Darfur.
Inoltre la MUAS, scarsamente equipaggiata, non dispone altro ce di un mandato ridicolmente restrittivo: i soldati non hanno il diritto di effettuare pattugliamenti offensivi, devono limitarsi a «negoziare» e, di fatto, si accontentano di fare l’elenco dei massacri. Infine, manca alla forza internazionale la risoluta volontà politica di mettere fine a massacri che l’Unione Africana e l’ONU rifiutano sempre ostinatamente di qualificare come «genocidio». Gli stessi soldati africani, desolati, dichiarano in privato: «Non serviamo a niente».
La MUAS è finanziata quasi per intero dall’Unione Europea (gli USA vi contribuiscono marginalmente). Di fronte alla totale assenza di risultati il 31 agosto 2006 le Nazioni Unite hanno deciso lo spiegamento di una forza d’interposizione. Ma questa risoluzione (n° 1706) non ha mai avuto il benché minimo inizio di applicazione, perché il governo sudanese, il cui accordo è necessario, vi si oppone. I diplomatici si alternano a Kartum per fare cambiare atteggiamento al presidente Omar Al Bachir. Questi  oppone loro obiezioni stupefacenti: accusa le Nazioni Unite di «voler ricolonizzare il Sudan», pretende che questa forza sia di fatto nient’altro che una «copertura» perché gli Occidentali possano «impadronirsi del petrolio sudanese» (4), richiama l’Aids che sarebbe «propagato dalle forze internazionali» (5) e minaccia di scatenare contro i soldati della pace «unità speciali che praticheranno attentati suicidi come in Iraq».

Il fantasma di Slobodan Milosevic ossessiona gli incubi degli islamici
Certo, la verità ha ben poco a che fare con queste «giustificazioni» fantasiose. Sul suo blog Jan Pronk, ex rappresentante speciale del Segretario generale dell’ONU in Sudan, espulso in ottobre 2006 da Kartum per aver criticato pubblicamente l’esercito sudanese, svela: «Alti responsabili del governo sudanese mi hanno più di una volta dichiarato di aver valutato i rischi che per loro rappresenta il fatto di ottemperare alle suppliche del Consiglio di Sicurezza con i rischi connessi a un rifiuto. Non obbedire implica lo scontro con la comunità internazionale. Ma obbedire presenta un altro rischio, quello di vedere aumentare l’opposizione interna, col pericolo di perdere il potere. Essi mi hanno detto di aver valutato questi rischi e di aver concluso che quelli derivanti dall’obbedienza erano molto più grandi di quelli che si sarebbero assunti rifiutando». E conclude: «Avevano ragione».
Il regime sudanese teme che i caschi blu possano agire come braccio secolare della Corte penale internazionale, che si sa disporre da due anni di un elenco di nomi di criminali di guerra, messo insieme dalle Nazioni Unite. Benché questo elenco non sia mai stato reso pubblico si ritiene che molti alti dignitari sudanesi, e forse anche lo stesso presidente Al Bachir, vi figurino. Simili procedimenti giudiziari, se fossero messi in atto, darebbero un potente appoggio all’opposizione politica e il fantasma di Slobodan Milosevic ossessiona gli incubi degli islamici.
Tuttavia il regime sudanese, mentre continua col rifiuto di una forza dell’ONU, incoraggia la «comunità internazionale» a continuare con i finanziamenti alla MUAS. Proprio perché questa non serve a nulla! Questo accomodamento è il riflesso di un’ipocrisia negoziata, perché Europei e Americani, che conoscono perfettamente l’inefficacia della forza africana, fingono d’ignorarlo. Questo gran gesticolare è destinato a dare l’impressione di agire. Così Londra il 23 gennaio ha annunciato lo stanziamento di 22 milioni di euro aggiuntivi a favore della MUAS, mentre i diplomatici britannici dichiarano in privato di non aspettarsi dalla forza africana che faccia qualcosa per proteggere i civili dalle violenze dei janjawid in Darfur.
Davanti a una situazione bloccata in tal modo le Nazioni Unite hanno finito col partorire un nuovo criterio: quello dell’ «ibridazione». Poiché Kartum rifiuta una forza dell’ONU ma accetta una forza africana, si potrebbe forse fargli accettare una forza ONU-Africa. Di che cosa si tratterebbe esattamente? Di aggiungere alla MUASD centotre poliziotti e venti impiegati d’ufficio mandati da New York! Nei corridoi dell’ONU e dell’Unione Africana si ostenta di discutere con gravità del dosaggio reale e potenziale di questa «forza ibrida». Il 28 dicembre 2006 il regime islamico ha accettato questa proposta, pur sapendo benissimo che essa costituisce nient’altro che un ennesimo buco nell’acqua e dandosi da fare perché tale rimanga.
Come spiegare un atteggiamento tanto codardo della «comunità internazionale»? Esso deriva innanzitutto dalla posizione americana, miscela di falsa abilità, di linguaggio sfuggente e d’impotenza male dissimulata da vigorose esortazioni. Dopo l’11 settembre 2001 Washington considera che Kartum si è «acquistata un comportamento» di collaborazione alla lotta antiterrorismo. Effettivamente i servizi segreti sudanesi hanno messo a punto una specie di numero da teatro del tipo «poliziotto buono e poliziotto cattivo», nel quale Nafi Ali Nafi, ex ministro dell’Interno e consigliere del presidente Al Bachir, fa la parte del cattivo mentre il suo vice, Salah Abdallah «Gosh» si presenta come il buono. Mentre il sig. Nafi è additato come «estremista», «Gosh» - che pure è uno dei principali artefici della repressione in Darfur – è invitato a scambi di vedute con la CIA e si vede attribuito il ruolo dell’alleato nella «guerra contro il terrorismo».
I risultati pratici di questa compromettente collaborazione si fanno sempre attendere. Le dichiarazioni ufficiali di Washington rimangono energiche, ma nessuna misura concreta le segue, perfino quando gli stessi alleati politici del presidente Gorge W. Bush lo incalzano a farlo. Così il governatore repubblicano Arnold Schwarzenegger ha fatto adottare una legge che obbliga gli organi pubblici californiani a vendere le azioni che essi detengono di società americane o straniere che operano in Sudan. Questa politica di disinvestimenti, che già aveva permesso ai militanti dei diritti della persona umana di forzare la società petrolifera canadese Talisman Energy ad abbandonare le sue operazioni in Sudan nel 2003, non ha ricevuto l’appoggio della Casa Bianca. La prima vittima della duplicità americana è stato lo stesso inviato speciale del presidente Bush, l’ex direttore di Us-aid (6) Andrew Natsios, il quale, esaurite le sue risorse, ha finito col minacciare il presidente Al Bachir di applicare un misterioso «piano B» nel caso il «piano A» (il dispiegamento di forze ONU) si fosse rivelato impossibile ad attuarsi. Ma, messo sotto presione dai giornalisti, Natsios si è dimostrato incapace di fornire il benché minimo dettaglio su questo piano…
La Cina, principale protagonista della geopolitica sudanese, non è per caso fra i responsabili dell’inerzia internazionale in Darfur. Kartum è il suo secondo partner commercial per importanza nel Continente nero: gli scambi bilaterali rappresentano 2,9 miliardi di dollari nel 2006 e Pechino acquista il 65% del petrolio sudanese. La Cina è il primo fornitore di armi del regime di Al Bachir. Sono i suoi fucili che uccidono in Darfur. In visita in Sudan all’inizio di febbraio, il presidente Hu Jintao si è limitato a parlare d’affari e a visitare il luogo della nuova diga idroelettrica di Meroe (1,8 miliardi di dollari) finanziata da Pechino. Se pure ha «raccomandato» al presidente Al Bachir di accettare il dispiegamento della forza ONU, la sa mancanza di convinzione era tale che il suo omologo sudanese ha potuto dichiarare a buon diritto di non essersi «sentito sottoposto ad alcuna pressione». Alle Nazioni Unite Pechino esige stucchevolmente che malgrado la risoluzione 1706 si «rispetti la sovranità nazionale sudanese».
Lontana. Dopo gli USA e la Cina, la Francia si dimena nell’ombra per aiutare i suoi clienti regionali che il regime sudanese minaccia. A lungo Parigi ha protetto Kartum dall’ostilità «anglosassone», ma ciò non le è valso nemmeno un po’ di gratitudine da parte del regime islamico. I permessi di prospezione petrolifera di Total nel sud del Sudan rimangono sempre bloccati da cavilli giuridici e i miliziani del regime si danno da fare per destabilizzare, partendo dal Darfur, gli alleati della Francia: il presidente del Ciad Idriss Déby Itno e il suo omologo della Repubblica Centroafricana François Bozizé.
Intensificazione delle violenze alle frontiere, sullo sfondo di interessi petroliferi divergenti
Nei fatti, malgrado le sue ricusazioni, Déby sostiene la guerriglia in Darfur, che comprende numerosi combattenti zaghawa, della sua propria etnia. Le forze francesi apportano un sostegno logistico all’esercito del Ciad che lotta contro i ribelli sostenuti da Kartum e si sono impegnate nel nord della Rep. Centroafricana, nel dicembre 2006, con bombardamenti e combattimenti sul terreno per scacciare altri ribelli, anch’essi sostenuti da Kartum. Il presidente ciadiano intrattiene rapporti tesi con le compagnie americane che sfruttano l’oro nero del suo Paese e che ha minacciato di espulsione (7). Nell’aprile 2006 i ribelli che erano arrivati fino ai sobborghi di N’Djamena erano equipaggiati con armi cinesi. Pechino cercherebbe forse di rovesciare i regimi al potere in Africa Centrale (8)?
Le Nazioni Unite evocano una «pulizia etnica» in Darfur, ma, sull’esempio dell’Unione Africana, non usano il termine «genocidio». Numerosi argomenti sono proposti per giustificare questa riserva, in particolare il mito secondo il quale si tratterebbe di «scontri tribali» legati al degrado delle condizioni climatiche del Sahel, che porterebbe i pastori nomadi arabi a battersi con i contadini sedentari per il controllo dei pascoli. Come tutti i cliché anche questo potrebbe contenere una parte di verità. Tuttavia esso non resiste a un certo numero di obbiezioni.
In primo luogo i bombardamenti aerei difficilmente possono essere attribuiti a tradizionali pastori nomadi. In secondo luogo le milizie janjawid sono armate, alloggiate ed equipaggiate dall’esercito regolare, che spesso combatte al loro fianco. In terzo luogo a partire da metà dicembre la principale etnia araba del Darfur, i Bagara Rezeigat, ha creato i suoi propri guerriglieri, invocando la miseria del popolo e la negligenza delle autorità di Kartum, che pure sono «arabe» (9). Infine le milizie che attaccano sistematicamente le tribù africane nere sono lontane dall’essere l’espressione armata dei pastori nomadi arabi. Vi si trovano delinquenti recidivi dalle diverse origini etniche, liberati dal carcere con la promessa di un arruolamento miliziano, disertori dell’esercito governativo che se ne stanno nel Sud e che sono senza lavoro dopo l’accordo di Nairobi del 2005 (10), membri di piccole tribù di cammellieri dell’estremo nord del Darfur, come i Jalloul (che sono, essi soli, le vere vittime del cambiamento climatico) e perfino membri di certe piccole etnie africane nere come i Gimr che sperano, unendosi alla causa dei genocidari, di essere cooptati nella grande famiglia «araba», la cui importanza pare loro promettere prestigio sociale e vantaggi economici.


Modificazione dei confini interni in funzione del petrolio Ma perché Kartum spererebbe di sterminare, o per lo meno sottomettere obbligandole a pentirsi, le popolazioni africane nere della sua provincia occidentale? La causa non può essere religiosa dal momento che tutti in Darfur, gli assassini come le vittime, sono musulmani e sanniti.
In realtà la ragione è razziale-culturale. In Sudan gli arabi sono minoranza e gli islamici non sono altro che l’ultima incarnazione storica del loro dominio etnico-regionale. Ora la pace fra Nord e Sud sta disgregandosi rapidamente. Il 9 gennaio 2007 il vice presidente del Sud, Salva Kiir Mayardit, ha sparato un vero e proprio tiro d’interdizione nel secondo anniversario dell’accordo di Nairobi, avvertendo il presidente Al Bachir che, se le cose continuassero così, fra quattro anni la secessione sarebbe inevitabile.
Per l’elite araba di Kartum c’è urgenza. Occorre quindi manipolare il tracciato delle frontiere Nord-Sud, che pone la maggior parte del petrolio nei territori del Sud (lo si sta facendo), prepararsi all’eventuale ripresa delle ostilità (si acquistano armi), allacciare solide alleanze internazionali (la Cina è acquisita e l’Iran è sottoposto a seduzioni) e conservare il dominio del territorio creando un cordone sanitario etnico-regionale: i monti Nuba nel Kordofan e il Darfur ne farebbero parte (11). Ora, se le tribù Nuba sono state schiacciate militarmente fra il 1992 e il 2002, il Darfur pare essere molto più minaccioso. Le gerarchie arabe di Kartum vogliono evitare a tutti i costi una breccia attraverso la quale i Neri dell’Ovest si alleerebbero domani con un Sud africano nero indipendente… e petrolifero!
Coloro che ancora osano dire «mai più questo» danno prova d’ipocrisia o d’incoscienza
Di conseguenza diventa strategicamente essenziale domare il Darfur rivoltoso con ogni mezzo possibile. L’esercito regolare, che nei suoi ranghi conta numerosi rappresentanti delle etnie africane nere di questa regione, non è sufficientemente affidabile per eseguire questo ingrato lavoro. Da qui l’arruolamento delle milizie janjawid «arabe», di fatto largamente composte da gruppi minoritari o da emarginati sociali. Inoltre ciò dà la possibilità di evitare a ogni costo che i «veri arabi» del Darfur, vale a dire le diverse tribù Bagara (fra le quali i Rezeigat), che rappresentano fra il 22 e il 30 % della popolazione della regione, passino a loro volta nelle fila dell’insurrezione. Altrettanto vittime della discriminazione sociale regionale dei loro concittadini neri, i Bagara si trovano a fianco delle elite massacratrici di Kartum soltanto per la falsa consapevolezza di una “arabità” più fantasticata che reale.
In definitiva, la protezione dei benefici petrolieri si effettua al prezzo di un sistema mortifero. E questo prezzo sta per essere pagato. Contrariamente al Ruanda, dove ottocentomila persone erano state annientate in un centinaio di giorni, la pulizia etnica in Darfur dura da quattro anni. E quelli che osano ancora dire «che questo non succeda mai più» dimostrano incoscienza o mostruosa ipocrisia. Una volta di più l’importanza dei cadaveri dipende dal colore della loro pelle…
Gérard Prunier

I protagonisti del conflitto [ndt.: ho riassunto qui il minuzioso inventario di G. Prunier, visibile nel testo originale)
1. LA RIBELLIONE
L’accordo di pace epr il Darfur, firmato il 5 maggio 2006 ad Abuja (Nigeria), ha provocato l’esplosione dei movimenti ribelli del Darfur:
Movimento di liberazione del Sudan – Frazione Abdel Wahid An-Nour (MLS-AWN)
Movimento di liberazione del Sudan – Frazione Minni-Minnawi (MLS-MM)
Movimento di liberazione del Sudan – Al-Ikhtyar AI-Hur (MLS – Libera scelta).
Gruppo dei 19 (G 19).
Forze di combattimento popolari (FCP)
Movimento per la giustizia e l’eguaglianza (MJE).
Forze per la redenzione nazionale (FRN).

2. I «JANJAWID»
I janjawid sono milizie provenienti dalle tribù «arabe». Il loro nome significa approssimativamente «cavalieri armati di kalashnikov». Non hanno «movimenti» o «unità organizzate». Si tratta di bande o di ausiliari collegati a unità dell’esercito regolare sudanese.

3. IL PRESIDENTE DEL CIAD IDRISS DEBY ITNO
Paese confinate col Sudan, il Ciad si è visto arrivare più di duecentomila rifugiati dal Darfur dall’inizio del conflitto in poi. N’Djamena accusa Kartum di sostenere la ribellione armata contro la quale il Ciad si trova impegnato da più di un anno. Reciprocamente Kartum accusa N’Djamena di aiutare gli oppositori sudanesi. Queste tensioni sono nuove, perché il presidente del Caid, di etnia zaghawa, nel 2003 era servito al presidente sudanese Al Bachir come intermediario allo scopo di ottenere il cessate il fuoco con l’ALS che non ha mai avuto applicazione. Nel 1990 il capo militare del PALS Abdallah Abakkar aveva contribuito nel portare Déby al potere in Ciad.

Un Sudan straziato
Gennaio 1956 Indipendenza del Sudan. Proclamazione della Repubblica, seguita a un’insurrezione di truppe sudiste, sei mesi prima.
Novembre 1958 L’esercito si impadronisce del potere.
Ottobre 1964 Fine della dittatura militare in seguito a un’insurrezione popolare. Nuova esperienza parlamentare.
1969 Colpo di Stato di Gaafar Al Nimeyri.
1972 Accordi di Addis Abeba, che mettono fine alla guerra civile nel Sud.
1983 Instaurazione della svaria [legge islamica], ripresa della ribellione al Sud e creazione dell’Esercito popolare di liberazione del Sudan (ALS).
Marzo-aprile 1985 Un’insurrezione popolare e un colpo di Stato mettono fine alla dittatura di Al Nimayri.
30 giugno 1989 Colpo di Stato del generale Omar Al Bachir, sostenuto dagli islamici.
Novembre 1997 Gli USA decretano un embargo contro il Sudan.
Febbraio-marzo 2003 Violenti combattimenti in Darfur fra le milizie governative e i ribelli.
Settembre 2004 Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU minaccia il governo sudanese di sanzioni petrolifere.
9 gennaio 2005 Firma di un accordo di pace fra l’APLS e il governo sudanese.
1 agosto 2005 Morte accidentale di John Garang, leader dell’APLS, diventato in luglio il vice-presidente del Sudan.
5 maggio 2006 Kartum e il Movimento di liberazione del Sudan (MLS) firmano un accordo, rifiutato dalle due altre frazioni minoritarie del Darfur. I combattimenti proseguono.
28 dicembre 2006 il Sudan accetta, obtorto collo, il dispiegamento di una forza d’interposizione ONU-Unione Africana in Darfur.
14 febbraio 2007 Al vertice Francia-Africa di Cannes il Sudan si oppone all’arrivo dei caschi blu.

Testo originale:

Au-delà de l’agitation diplomatique
Le Monde Diplomatique, mars 2007
Darfur, la chronique d’un «génocide ambigu»
Le Soudan, le Tchad et la Centrafrique, déstabilisés par le conflit au Darfour, se sont engagés à respecter la souveraineté de leurs voisins, au sommet France-Afrique de Cannes, le 14 février. Mais l’agitation diplomatique masque un blocage politique international sous-tendu par des enjeux pétroliers. Les massacres au Darfour auraient déjà fait quatre cent mille victimes.
par Gérard Prunier (Chercheur au Centre national de la recherche scientifique (CNRS, Paris) et directeur du Centre français d’études éthiopiennes (Addis-Abeba), auteur de Darfur : TheAmbignous Genocide, Hurst, Londres)
Environ deux millions de personnes ont fui le Darfour (nord-ouest du Soudan) depuis 2003, deux cent cinquante mille depuis août 2006 (1). Le Tchad voisin est déstabilisé par l’afflux de deux cent vingt-cinq mille réfugiés. En quatre ans, le conflit aurait fait quatre cent mille morts. Les équipes humanitaires des Nations unies et des organisations non gouvernementales (ONG) ont dû changer trente et une fois l’implantation de leurs camps afin d’échapper aux violences. Ce qui n’a pas empêché plusieurs de leurs agents d’être arrêtés par la police soudanaise et battus à coups de crosse, le 19 janvier, à Nyala. Douze travailleurs humanitaires ont été tués au cours de massacres, et cinq autres ont disparu.
Khartoum justifie les fréquents bombardements aériens en assimilant les victimes aux rebelles qui ont refusé de signer la « paix » d’Abuja (Nigeria), le 5 mai 2006 (2). En fait, le gouvernement soudanais cherche surtout à empêcher les combattants de tenir un congrès destiné à unifier leur mouvement et à tenter de reprendre les négociations avec l’appui de la « communauté internationale » (3).
Face à cette chronique d’un désastre annoncé, l’Organisation des Nations unies (ONU) et l’Union africaine adoptent essentiellement des mesures symboliques et dilatoires. Depuis deux ans, une force interafricaine de sept mille cinq cents hommes, la Mission de l’Union africaine au Soudan (MUAS, en anglais African Union Mission in Sudan ou AMIS) est déployée au Darfour. Composée de contingents venant d’une dizaine de pays africains (Rwanda et Nigeria, principalement), cette force s’est révélée parfaitement inefficace. En effet, ses effectifs sont trop faibles : il faudrait au moins trente mille hommes pour couvrir les cinq cent mille kilomètres carrés du Darfour.
En outre, la MUAS, sous-équipée, ne dispose que d’un mandat ridiculement restrictif : les soldats n’ont pas le droit d’effectuer des patrouilles offensives, ils doivent se limiter à « négocier» et se contentent, en fait, de recenser les tueries. Enfin, il manque à la force internationale la volonté politique résolue de mettre fin à des massacres que l’Union africaine et l’ONU se refusent toujours obstinément à qualifier de «génocide ». Les soldats africains, désolés, déclarent eux-mêmes en privé : « Nous ne servons à rien. »
La MUAS est presque entièrement financée par l’Union européenne (les Etats-Unis y contribuant marginalement). Devant l’absence totale de résultats, les Nations unies ont décidé, le 31 août 2006, le déploiement d’une force d’interposition. Mais cette résolution (n° 1706) n’a jamais reçu le moindre début d’application car le gouvernement soudanais, dont l’accord est nécessaire, s’y oppose. Les diplomates se succèdent à Khartoum pour faire changer d’avis le président Omar Al-Bachir. Ce dernier leur oppose d’étonnantes objections : il accuse les Nations unies de « vouloir recoloniser le Soudan », prétend que cette force n’est en fait qu’une «couverture» pour que les Occidentaux «s’emparent du pétrole soudanais (4) », évoque le sida « colporté par les forces internationales (5) » et menace de déchaîner contre les soldats de la paix « des unités spéciales qui pratiqueront des attentats-suicides comme en Irak ».
Le fantôme de Slobodan Milosevic hante les cauchemars des islamistes
Bien sûr, la vérité n’a que peu à voir avec ces « justifications » fantaisistes. Sur son blog, M. Jan Pronk, ancien représentant spécial du secrétaire général de l’ONU au Soudan, expulsé en octobre 2006 par Khartoum pour avoir publiquement critiqué l’armée soudanaise, lève le voile :« De hauts responsables du gouvernement soudanais m’ont plus d’une fois déclaré avoir comparé les risques que présentait pour eux le fait d’obtempérer aux adjurations du Conseil de sécurité avec les risques que présentait le fait de refuser. Ne pas obéir impliquait de risquer la confrontation avec la communauté internationale. Mais obéir représentait un autre risque, celui de voir monter en puissance l’opposition intérieure, avec le danger de perdre le pouvoir. Ils m’ont dit avoir examiné ces risques et en avoir conclu que ceux qu’ils auraient courus du fait d’obtempérer étaient beaucoup plus grands que ceux qu’ils prenaient en refusant.» Et M. Pronk de conclure : « Ils avaient raison. »
Le régime soudanais craint que les casques bleus n’agissent comme bras séculier de la Cour pénale internationale, dont on sait qu’elle dispose, depuis deux ans, d’une liste de noms de criminels de guerre établie par les Nations unies. Bien que cette liste n’ait jamais été rendue publique, on estime que plusieurs hauts dignitaires soudanais, et peut-être le président Al-Bachir lui-même, y figurent. De telles poursuites, si elles étaient engagées, donneraient un puissant appui à l’opposition politique, et le fantôme de Slobodan Milosevic hante les cauchemars des islamistes.
Pourtant, alors que le régime continue à refuser le déploiement d’une force de l’ONU, il encourage la « communauté internationale » à continuer à financer la MUAS. Justement parce qu’elle ne sert à rien ! Cet «arrangement» est le reflet d’une hypocrisie négociée, car les Européens et les Américains, qui connaissent parfaitement l’inefficacité de la force africaine, feignent de l’ignorer. Cette gesticulation est destinée à donner l’impression d’agir. Londres a ainsi annoncé, le 23 janvier, l’attribution de 22 millions d’euros supplémentaires  à la MUAS, alors que les diplomates britanniques déclarent en privé de rien attendre de la force africaine pour protéger les civils des exactions des janjawids au Darfur.
Devant une situation aussi bloquée, les Nations unies ont fini par accoucher d’un nouveau concept : l’« hybridation ». Puisque Khartoum refuse une force onusienne mais accepte une force africaine, on pourrait peut-être lui faire accepter une force afro-onusienne. De quoi s’agirait-il au juste ? De l’adjonction à la MUAS de cent trois officiers de police et de vingt employés de bureau envoyés par New York ! Dans les couloirs de l’ONU et de l’Union africaine, on affecte de discuter gravement du dosage réel et potentiel de cette «force hybride ». Le 28 décembre 2006, le régime islamiste a accepté cette proposition, tout en sachant fort bien qu’elle ne constitue qu’un nouveau coup d’épée dans le sable et en s’arrangeant pour qu’elle le reste.
Comment expliquer une attitude aussi lâche de la « communauté internationale » ? Elle résulte tout d’abord de la position américaine, mélange de fausse habileté, de double langage et d’impuissance mal dissimulée par de fermes objurgations. Depuis le 11 septembre 2001, Washington considère que Khartoum s’est «acheté une conduite» en collaborant à la lutte antiterroriste. En effet, les services secrets soudanais ont mis au point une sorte de numéro «gentil flic, méchant flic» dans lequel M. Nafi Ali Nafi, ancien ministre de l’intérieur et conseiller du président AIBachir, joue le méchant alors que son adjoint, M. Salah Abdallah «Gosh », se présente comme le gentil. Tandis que M. Nafi est dénoncé comme un « extrémiste », « Gosh » — qui est pourtant l’un des principaux artisans de la répression au Darfour — est invité à des échanges de vues avec la Central Intelligence Agency (CIA) et se voit attribuer le rôle d’allié dans la « guerre contre le terrorisme ».
Les résultats pratiques de cette collaboration compromettante se font toujours attendre. Les déclarations officielles de Washington restent fermes, mais aucune mesure concrète ne les suit, même lorsque les propres alliés politiques du président George W. Bush l’y incitent. Ainsi le gouverneur républicain Arnold Schwarzenegger a-t-il fait adopter une loi obligeant les organismes publics californiens à vendre les actions qu’ils détiennent dans des sociétés américaines ou étrangères travaillant au Soudan. Cette politique de désinvestissement, qui avait déjà permis aux militants des droits de la personne de forcer la société pétrolière canadienne Talisman Energy à abandonner ses opérations au Soudan en 2003, n’a pas reçu l’appui de la Maison Blanche. La première victime de la duplicité américaine a été le propre envoyé spécial du président Bush, l’ancien directeur d’Usaid (6) Andrew Natsios, qui, à bout de ressources, a fini par menacer le président Al-Bachir d’appliquer un mystérieux «plan B» au cas où le « plan A » (le déploiement onusien) se révélerait impossible. Mais, pressé par les journalistes, M. Natsios s’est montré incapable de fournir la moindre précision sur ce plan...
La Chine, acteur majeur de la géopolitique soudanaise, n’est pas pour rien dans l’inertie internationale au Darfour. Khartoum est son deuxième partenaire commercial sur le continent noir : les échanges bilatéraux représentent 2,9 milliards de dollars en 2006, et Pékin achète 65 % du pétrole soudanais. La Chine est le premier fournisseur d’armes du régime de M. Al-Bachir. Ce sont ses fusils qui tuent au Darfour. En visite au Soudan, début février, le président Hu Jintao s’est contenté de parler affaires et de visiter le site du nouveau barrage hydroélectrique de Méroé (1,8 milliard de dollars) financé par Pékin. S’il a bien « recommandé » au président Al-Bachir d’accepter le déploiement onusien, son manque de conviction était tel que son homologue soudanais a pu déclarer à bon droit ne s’être «senti soumis à aucune pression ». Aux Nations unies, Pékin exige benoîtement qu’en dépit de la résolution 1706 on « respecte la souveraineté nationale soudanaise ».
Loin derrière les Etats-Unis et la Chine, la France se démène dans l’ombre pour aider ses clients régionaux que le régime soudanais menace. Paris a longtemps protégé Khartoum de l’hostilité « anglo-saxonne », mais cela ne lui a guère valu de gratitude de la part du régime islamiste. Les permis pétroliers de Total dans le sud du Soudan demeurent toujours bloqués par des arguties juridiques, et les miliciens du régime s’emploient à déstabiliser, à partir du Darfour, les alliés de la France : le président tchadien Idriss Déby Itno et son homologue centrafricain François Bozizé.
Renforcement des violences frontalières, sur fond d’intérêts pétroliers divergents
De fait, malgré ses dénégations, M. Déby soutient la guérilla au Darfour, qui comprend de nombreux combattants zaghawas (lire l’en-cadré ci-dessous), sa propre ethnie. Les forces françaises apportent un soutien logistique à l’armée tchadienne qui lutte contre les rebelles soutenus par Khartoum, et elles se sont engagées dans le nord de la République centrafricaine, en décembre 2006, dans des bombardements et des combats au sol pour chasser d’autres rebelles, eux aussi soutenus par Khartoum. Mais, au-delà de cette violence frontalière, les enjeux pétroliers sont réels. Le président tchadien entretient des rapports tendus avec les compagnies américaines qui exploitent l’or noir de son pays et qu’il a menacées d’expulsion (7). En avril 2006, les rebelles qui sont parvenus jusque dans les faubourgs de N’Djamena étaient équipés d’armes chinoises. Pékin chercherait-il à renverser les régimes en place en Afrique centrale (8) ?
Les Nations unies évoquent un « nettoyage ethnique» au Darfour, mais, à l’instar de l’Union africaine, n’emploient pas le terme «génocide ». Plusieurs arguments sont avancés pour justifier cette réserve, en particulier le mythe selon lequel il s’agirait d’« affrontements tribaux» liés à la dégradation des conditions climatiques du Sahel, laquelle amènerait les pasteurs nomades arabes à se battre avec les paysans sédentaires noirs pour le contrôle des pâturages. Comme tous les clichés, celui-là contient une part de vérité. Cependant, il ne résiste pas à un certain nombre de faits.
En premier lieu, les bombardements aériens peuvent difficilement être dus à des pasteurs nomades traditionnels. En deuxième lieu, les milices janjawids sont armées, logées et équipées par l’armée régulière, qui combat souvent à leurs côtés. En troisième lieu, depuis la mi-décembre, la principale ethnie arabe du Darfour, les Bagaras Rezeigats, a créé sa propre guérilla, invoquant la misère du peuple et la négligence des autorités pourtant «arabes» de Khartoum (9). Enfin, les milices qui s’attaquent systématiquement aux tribus négro-africaines sont loin d’être la simple expression armée des pasteurs nomades arabes. On y trouve des repris de justice de diverses origines ethniques libérés contre promesse d’un engagement milicien, des déserteurs de l’armée gouvernementale stationnée dans le Sud et sans emploi depuis l’accord de Nairobi en 2005 (10), des membres de petites tribus chamelières de l’extrême nord du Darfour comme les Jallouls (qui sont, eux, les seules vraies victimes du changement climatique) et même des membres de certaines petites ethnies négro-africaines comme les Gimr qui espèrent, en rejoignant la cause des génocidaires, être cooptés dans la grande famille « arabe » dont l’importance leur paraît promettre prestige social et avantages économiques.
Mais pourquoi Khartoum souhaiterait-il exterminer, ou du moins soumettre en les obligeant à se repentir, les populations négro-africaines de sa province occidentale ? La cause ne peut pas être religieuse puisque tout le monde au Darfour, les tueurs comme les victimes, est musulman et sunnite.
En réalité, la raison est racioculturelle. Les Arabes sont minoritaires au Soudan. Et les islamistes ne sont que l’ultime incarnation historique de leur domination ethnorégionale. Or la paix entre le Nord et le Sud est en train de se déliter rapidement. Le 9 janvier, le vice-président sudiste Salva Kiir Mayardit a tiré un véritable coup de semonce lors du second anniversaire de l’accord de Nairobi en avertissant le président Al Bachir que, si les choses continuaient ainsi, la sécession était inévitable d’ici quatre ans.
Pour l’élite arabe de Khartoum, il y a urgence. Il faut donc manipuler le tracé frontalier Nord-Sud qui place la plus grande part du pétrole au Sud (c’est en cours), se préparer à la reprise éventuelle des hostilités (on achète des armes), ancrer de solides alliances internationales (la Chine est acquise et l’Iran en cours de séduction) et conserver la maîtrise du territoire en créant un cordon sanitaire ethnorégional : les monts Nouba au Kordofan et le Darfour en feraient partie (11). Or si les tribus noubas ont été écrasées militairement entre 1992 et 2002, le Darfour paraît beaucoup plus menaçant. Les hiérarques arabes de Khartoum veulent éviter à tout prix une brèche par laquelle les Noirs de l’Ouest s’allieraient demain avec un Sud négro-africain indépendant... et pétrolier !
Ceux qui osent encore dire « plus jamais ça » font preuve d’hypocrisie ou d’inconscience
Par conséquent, il devient stratégique de mater le Darfour révolté par n’importe quel moyen. Or l’armée régulière, qui compte dans ses rangs nombre de représentants des ethnies négro-africaines de cette région, n’est pas suffisamment fiable pour exécuter cette besogne. D’où le recrutement des milices janjawids « arabes », en fait largement composées de groupes minoritaires ou de déclassés sociaux. Cela permet en outre d’éviter à tout prix que les « vrais Arabes » du Darfour, c’est-à-dire les diverses tribus bagaras (dont les Rezeigats), qui représentent entre 22 et 30 % de la population de la région, ne versent à leur tour dans l’insurrection. Tout autant victimes de la discrimination sociorégionale que leurs concitoyens noirs, les Bagaras ne se trouvent du côté des élites tueuses de Khartoum que par le jeu de la fausse conscience d’une arabité plus fantasmée que réelle.
Au total, la protection des bénéfices pétroliers s’effectue au prix d’un système mortifère. Et ce prix est en train d’être payé. Contrairement au Rwanda, où huit cent mille personnes avaient été annihilées en une centaine de jours, le nettoyage ethnique du Darfour dure depuis quatre ans. Et ceux qui osent encore dire «plus jamais ça» font preuve soit d’inconscience, soit d’une hypocrisie monstrueuse. Une fois de plus, l’importance des cadavres dépend de la couleur de leur peau...
GÉRARD PRUNIER.
Les protagonistes du conflit
1. LA RÉBELLION
L’accord de paix pour le Darfour, signé le 5 mai 2006 à Abuja (Nigeria), a provoqué l’éclatement des mouvements rebelles au Darfour :
Mouvement de libération du Soudan - Fraction Abdel Wahid An-Nour (MLS
AWN). Dirigée par M. An-Nour, fondateur « historique » du Mouvement de libéra
tion du Soudan (MLS) aujourd’hui divisé en trois groupes, cette fraction est la plus importante numériquement. Elle est principalement composée de Fours et opère sur-tout sur les pentes du djebel Marra, le massif volcanique situé au centre du Darfour. Le MLS-AWN est aussi connu sous le nom d’armée de libération du Soudan (ALS).
Mouvement de libération du Soudan - Fraction Minni Minnawi (MLS-MM). Dirigée par M. Minnawi, cette fraction s’est séparée du MLS originaire en novembre 2005 lors du congrès d’Haskanita. Presque entièrement composée de Zaghawas (l’ethnie de M. Minnawi), c’est la seule qui ait accepté de signer l’accord de paix d’Abuja. A la suite de cet accord et de l’accession de son chef au poste de conseiller présidentiel sur le Darfour, le MLS-MM est devenu un auxiliaire politique et même militaire du gouvernement de Khartoum. Cette volte-face a entraîné la désertion d’une grande partie de ses combattants. Le MLS-MM est aussi connu sous le nom d’armée de libération du Soudan (ALS)-MM.
Mouvement de libération du Soudan Al-Ikhtyar AI-Hur (MLS - Libre choix). Essentiellement composée de représentants de petites tribus noires du Darfour (Tunjurs, Dajjus) cette fraction est dirigée par M. Abderrahmane Moussa, ancien porte-parole du MLS-AWN aux négociations d’Abuja. Cette toute petite fraction s’est ralliée à l’accord de paix, non pas parce qu’elle y croyait, mais parce que les populations des petites ethnies, très touchées par la guerre, n’ont pas eu accès aux camps de personnes déplacées et que les leaders tunjurs espéraient bénéficier des « corridors sécurisés pour l’aide humanitaire » prévus par l’accord. M. Moussa a été nommé ministre d’Etat, mais les tribus n’ont pas bénéficié de l’aide espérée.
Groupe des 19 (G 19). Ce groupe est formé par dix-neuf commandants et leurs hommes qui ont choisi de se tenir hors de toutes les fractions. Mais le G 19 a en fait apporté son soutien au FRN (voir ci-contre).
Forces de combat populaires (FCP). Ce mouvement apparu en novembre 2006 est le premier qui ne soit pas « africain ». Formé de membres de la tribu arabe des Rezeigats, il opère dans le sud du Darfour, dans la région comprise entre Kutum et Nyala.
 Mouvement pour la justice et l’égalité (MJE). Il s’agit d’un mouvement très ambigu, car il est étroitement lié à la branche tourabie des Frères musulmans. Dirigé par M. Khalil Ibrahim, il est exclusivement zaghawa. Son jeu est complexe, notamment par rapport au régime tchadien du président Idriss Déby Itno (le MJE s’est battu contre et pour M. Déby selon les circonstances). Riche de l’argent des Frères musulmans, il exerce une influence sans commune mesure avec ses forces militaires réelles sur l’ensemble de la guérilla, et a notamment réussi à phagocyter financièrement le FRN (voir ci-dessous).
                Forces pour la rédemption nationale (FRN). Dirigé par l’ancien gouverneur Ahmed Ibrahim Diraige (ethnie four) et par l’intellectuel Sharif Harir (zaghawa), le FNR est une «organisation ombrelle» qui fédère tous les combattants des diverses fractions refusant la «paix» d’Abuja, y compris de nombreux combattants du MLS
AWN irrités par les atermoiements de leur chef et ralliés au commandant Ahmed Abdel-Chafiq. En juillet 2006, les FRN ont attaqué les positions gouvernementales dans le Kordofan Nord (voisin du Darfour), offrant au régime soudanais le prétexte à l’envoi de plusieurs milliers de soldats en renfort.
2. LES «JANJAWIDS»
Les janjawids sont des milices issues des tribus « arabes ». Leur nom signifie approximativement « cavaliers armés de kalachnikovs ». Elles n’ont pas de « mouvement» ou d’unités organisées. Ce sont soit des bandes, soit des auxiliaires rattachés à des unités de l’armée régulière soudanaise.
3. LE PRÉSIDENT TCHADIEN IDRISS DÉBY ITNO
Pays frontalier du Soudan, le Tchad a vu arriver plus de deux cent mille réfugiés du Darfour depuis le début du conflit. N’Djamena accuse Khartoum de soutenir la rébellion armée à laquelle il est confronté depuis plus d’un an. Réciproquement, Khartoum accuse N’Djamena d’aider les opposants soudanais. Ces tensions sont nouvelles, car le président tchadien, lui-même zaghawa, avait servi d’intermédiaire au président Omar Al-Bachir en 2003 afin d’obtenir un cessez-le-feu avec l’ALS. Ce cessez-le-feu sera sans lendemain. En 1990, le chef militaire de PALS Abdallah Abakkar avait contribué à porter M. Déby à la tête du Tchad.

Un Soudan déchiré
Janvier 1956. Indépendance du Soudan. Proclamation de la république. Cinq mois auparavant, une insurrection de troupes sudistes a eu lieu.
Novembre 1958. L’armée s’empare du pouvoir.
Octobre 1964. Fin de la dictature militaire, à la suite d’une insurrection populaire. Nouvelle expérience parlementaire.
1969. Coup d’Etat de M. Gaafar Al-Nemeiry.
1972. Accords d’Addis-Abeba (Ethiopie), mettant fin à la guerre civile dans le Sud.
1983. Instauration de la charia ; reprise de la rébellion sudiste et création de l’Armée populaire de libération du Soudan (APLS).
Mars-avril 1985. Une insurrection populaire et un coup d’Etat mettent fin à la dictature de M. Al-Nemeiry.
30 juin 1989. Coup d’Etat du général Omar Al-Bachir, soutenu par les islamistes.
Novembre 1997. Les Etats-Unis décrètent un embargo contre le Soudan.
Février-mars 2003. Violents combats dans le Darfour entre les milices gouvernementales et les rebelles.
Septembre 2004. Le Conseil de sécurité de l’Organisation des Nations unies (ONU) menace le gouvernement soudanais de sanctions pétrolières.
9 janvier 2005. Signature d’un accord de paix entre I’APLS et le gouvernement soudanais.
1 août 2005. Mort accidentelle de John Garang, leader de l’APLS, devenu vice-président du Sou-dan en juillet.
5 mai 2006. Khartoum et le Mouvement de libération du Soudan (MLS) signent un accord, rejeté par deux autres fractions minoritaires du Darfour. Les combats continuent.
28 décembre 2006. Le Soudan accepte, du bout des lèvres, le déploiement d’une force d’interposition ONU - Union africaine au Darfour.
14 février 2007. Au sommet France-Afrique de Cannes, le Soudan s’oppose au déploiement de casques bleus.






Lunedì, 26 marzo 2007