La propaganda sono gli altri
In quale modo la struttura rituale del Telegiornale «formatta» le nostre menti

di Pierre Mellet

(traduzione dal francese di José F. Padova)


Voltairenet.org


Il telespettatore, se da un lato è sempre più attento alla manipolazione di informazioni particolari da parte dei telegiornali, dall’altro s’interroga raramente sulla struttura propria di questi programmi. Ora, per Pierre Mellet la forma qui è il fondamento, il contenuto: concepito come un rito, lo svolgimento del giornale televisivo è una pedagogia in sé stesso, una propaganda a pieno titolo che ci insegna la sottomissione al mondo che ci viene mostrato e spiegato, ma che si auspica possa impedirci di comprendere e di pensare.

 

18 settembre 2007 – Parigi (Francia)

 

Il telegiornale è il cuore dell’informazione contemporanea. Principale fonte d’informazione per una gran parte dei francesi, ai suoi inizi però, nel 1949 in Francia, non era altro che il sottoprodotto di ciò che nei cinema non avevano voluto diffondere la Gaumont e le Actualités Françaises (le principali Case cinematografiche). Si trattava di una sfilata d’immagini alle quali si sovrapponeva un commento, perché l’ «annunciatore» si è installato nella sua poltrona soltanto nel 1954, quando il TG è stato fissato per le 20.00. d’allora in poi la messa in scena non ha fatto altro che accrescersi e l’informazione ne è stata scartata – se pur fosse stata mai presente agli inizi – per fare di questo teatro non più un giornale, ma uno spettacolo rituale, una cerimonia liturgica. Il «TG delle otto» [da noi delle 20.30 o delle 21] non ha la funzione d’informare, nel senso di aprire la strada a un tentativo di comprensione del mondo, ma quella di divertire i telespettatori, ricordando pur sempre loro quello che essi devono sapere.

L’analisi che segue si basa sui due telegiornali principali delle 20.00, quello di TF1 e quello di France2, ma sotto parecchi aspetti può trovare corrispondenze nei telegiornali di altri paesi, principalmente in «Occidente».

Il contesto

Fissato per le otto di sera, il telegiornale è diventato, come a suo tempo la messa, l’appuntamento dove (ognuno a casa sua) si ritrova tutta la società. È un luogo di socializzazione essenziale, paradossalmente. Ognuno scopre ogni sera il mondo nel quale vive e da quel momento può raccontarne, discutere i temi del momento con la sicurezza della loro importanza, perché sono stati mostrati al«TG». Tutto è sistemato come in un rituale religioso: l’orario fisso, la durata (una quarantina di minuti), con l’annunciatore-sacerdote inamovibile, o quasi, che così entra ancor meglio nel quotidiano di ciascuno, con tono sicuro, serio distante, quasi obiettivo, ma mai veramente neutrale, con le immagini selezionato. Come ogni altro rituale, si ripete in permanenza e si addensa attorno a una parvenza di evoluzione quotidiana. Le stesse ore annunciano le stesse storie, raccontate con gli stessi resoconti, lanciate e commentate dalla stesse parole, con la messa in scena degli stessi personaggi, illustrate dalle stesse immagini. È un circolo senza fine e senza fondo.

In apertura, il titolo di testa lancia una musica astratta nella quale si ascolta il miscuglio del tempo che passa, la precipitazione degli avvenimenti e una specie di atemporalità necessaria a ogni cerimonia mistica. Sull’onda della musica un globo precede la comparsa dell’annunciatore, o una luce sfumata lo fa passare dall’ombra alla vista. Tutto accade come se il mondo stesse per esserci rivelato.

L’annunciatore vi ha il ruolo di traghettatore e di autenticante. Personaggio principale e trascendente, si trova nel cuore del dispositivo di credibilità delle ore 20. l’informazione arriva suo tramite, da lui è legittimata, resa importante e data come «vera». Sempre da lui il telespettatore può essere rassicurato: se il mondo va male e sembra essere totalmente incomprensibile, c’è ancora qualcuno che «sa» e che può spiegarcelo.

(in altri casi è una coppia che presenta il telegiornale. Il rapporto con il telespettatore è certo molto meno professorale e paternalistico, ma piuttosto del tipo di una conversazione, e può sembrare più frivolo. Molto evidentemente non si troveranno mai due presentatori, o due presentatrici, ma sempre una coppia eterosessuale. Si tratta infatti di non urtare la rappresentazione della famiglia borghese cristiana. Questo genere di messa in scena è raro in Francia e quindi non ne tratteremo oltre).

Credibilità e informazione

«Signore, Signori, buonasera, ecco i titoli dell’attualità di questo lunedì 6 agosto», ci dice l’annunciatore all’inizio di ogni telegiornale. Non si tratta quindi di un sommario, di una selezione delle informazioni attuali da parte della redazione, bensì di «titoli dell’attualità», vale a dire precisamente di ciò che è necessario sapere del mondo oggi. Non vi è nulla da comprendere, il «giornalismo» non si applica ormai più se non a insegnarci il mondo. L’annunciatore non fornisce chiavi, non decifra, dice ciò che è. Non è una «visione» dell’attualità quella che ci viene presentata, bensì l’Attualità.
Da quel momento in poi ciò che importa, per lui, è di «avere l’aria». La sua credibilità non è basata sulla sua qualità di giornalista, ma sul suo carisma, sull’empatia che è in grado di creare, sul suo modo di essere rassicurante e sulla sua apparenza di uomo onesto e intelligente. David Poujadas può ben annunciare il ritiro di Alain Juppé dalla vita politica e Patrick Poivre d’Arvor mostrare una falsa intervista di Fidel Castro [ndt.: celebri gaffe televisive], eppure sono mantenuti al loro posto con l’appoggio della loro direzione e ciononostante non perdono il loro status di «giornalista» (1) e la loro credibilità presso il grande pubblico. Tutto avviene come se l’informazione diffusa alla fin fine non avesse importanza alcuna. Essa c’è per giustificare il rituale, come la lettura dei Vangeli durante la messa, ma in nessun caso è il motivo centrale, il cuore, che si trovano sempre altrove, nel costante richiamo delle parole d’ordine morali, politiche ed economiche dell’epoca. «Ecco il Bene, ecco il Male», ci dice l’annunciatore.

La gerarchia dell’informazione è quindi inesistente. Mentre uno dei primi lavori svolti in ogni «giornale» è quello di cogliere i fatti che sembrano più essenziali per tentare di trarne una rassegna (propria di ogni redazione) delle informazioni in ordine decrescente, dall’importante all’insignificante, qui niente. Si passa dalle esequie del cardinale Lustiger all’incidente della Fête des Loges, poi viene l’epilogo del rapimento del piccolo Alessandro sull’isola della Réunion, seguiti dal suicidio di un agricoltore di fronte alle mene degli anti-OGM, seguono poi i sussidi per la riapertura delle scuole, i bambini che non fanno vacanze, l’aumento dei prezzi dell’elettricità, lo speleologo belga bloccato in una grotta, la campagna elettorale dei democratici americani, l’intervento di Reporter sans frontière per denunciare l’assenza di libertà d’espressione in Cina, la Cina come meta turistica, il licenziamento di Laure Manaudou, un incidente durante una corsa negli USA, il festival Fiesta di Sète, la morte del giornalista Henri Amouroux e infine quella del barone Elie de Rotschild (2). Non vi alcuna coerenza, in nessun momento. I soggetti sembrano essere stati scelti soltanto per la loro irrilevanza quasi generale, o per la loro parvenza d’irrilevanza. Tutto vi è mischiato, l’amore e l’odio, il riso e il pianto, l’empatia si mescola col pathos, le immagini spettacolari o farsesche ai drammi patetici e l’onnipresenza della fatalità ci rammenta sempre il predominio della morte sulla vita.

Il reportage

Una volta annunciati i «titoli», l’annunciatore passa al lancio del servizio. Il reportage è la dimostrazione esemplare di ciò che ci dice l’annunciatore. Effettivamente tutto quello che verrà detto e mostrato nel servizio si trova già nel suo lancio. L’annunciatore riassume sempre invece di presentare con precisione. Questo crea ridondanza. Ciò che ci viene detto una prima volta a mo’ d’introduzione è ripetuto sistematicamente in seguito nel servizio. Sono sempre le stesse informazioni che sono esposte, la prima volta riassunte, la seconda volta estese per elaborare la storia che si racconta. Il servizio aggiunge ben poche cose a quello che l’annunciatore ha già detto, sviluppa soltanto i dettagli anodini che controbilanciano l’«obiettività» dell’annunciatore creando «prossimità». Agli elementi di partenza, visti nel lancio, si aggiungono poi alla storia i piccoli dettagli romanzeschi necessari alla sua formazione ludica.

Il reportage è costituito da due cose: l’immagine e il suo commento. Ora, se si taglia il suono, l’immagine non significa più nulla. Proprio quando tutto dovrebbe basarsi su di essa, alla televisione accade precisamente il contrario: il commento racconta ciò che l’immagine non fa che illustrare. Quest’ultima c’è solamente per fare da spalla. Si tratta di una successione di paesaggi che si somigliano, di volti e gesti interscambiabili, incollati gli uni agli altri senza rapporti fra loro. Alla TV l’immagine serve soltanto a giustificare il commento, ad autenticarlo; gli permette di apparire come «vero». E glielo permette proprio perché essa non dice nulla di per sé e il commento può trasformarla allora in ciò che vuole: qui sta il pericolo più grande dei media. Poiché l’immagine possiede una forza di convinzione molto importante, il consenso è molto più facile da ottenere una volta che abbiate spogliato l’immagine di tutto il suo significato e l’avete trasformata in prova che autentica il vostro discorso. Tutto si fonda ormai sul commento e sulla verosimiglianza della storia che sta per esserci raccontata.

«Nel reportage», nota l’antropologo Stéphane Breton, il commento è “soffiato” da dietro le quinte, questo retroterra vietato al telespettatore (…) da cui scaturisce, nel movimento di una rivelazione, un significato imposto all’immagine. Il significato non deve essere trovato nella scena ma fuori di essa, enunciato da qualcuno che sa» (3). Molto raramente il giornalista fa la sua comparsa alla fine del servizio. Noi ascoltiamo quindi una voce senza annunciatore. È una parola divina che s’impone a noi per spiegarci ciò che non potremmo capire limitandoci a guardare le immagini. Non v’è interlocutore, dunque non c’è contraddizione. Il reportage è un filo che si svolge seguendo una logica propria, quella che il giornalista vuole darci da apprendere, nella quale i «testimoni» si succedono solamente per dare credito alla parola che in ogni modo ha già detto ciò che essi ci stanno spiegando. Come nel lancio, anche nel servizio la ridondanza è onnipresente. Ogni «testimonio» è presentato non già secondo la sua funzione né allo scopo di giustificare la sua presenza in questo servizio e adesso, ma secondo quello che avrà da dirci. E la parola del «testimone» dà credito al commento fornendo un punto di vista che è necessariamente «vero». «Poiché lui lo dice è proprio così». E molto sovente il «testimone» non ha assolutamente nulla da dire, ma lo dice lo stesso, perché il giornalista deve dare prova della sua obiettività e dell’autenticità del suo reportage, della sua inchiesta, dimostrando che si è recato sul posto e che quindi può farci vedere come stanno le cose.

Il reportage, nel giornale televisivo, non è la realizzazione di un’inchiesta che esplora piste differenti, ma il racconto di un fatto qualsiasi presentato come fondamentale. Si tratta di una visione del mondo senza alternative, che tenta di apparire puramente obiettiva. Se l’annunciatore dice quello che è successo, il reportage televisivo, da parte sua, lo mostra. E precisamente qui l’immagine pecca per la sua insignificanza e il commento sembra diventare parola divina. «Ecco il mondo», ci dice quello, «ed ecco la prova», continua il servizio. E come contestare la prova quando ci viene presentata lì, sotto i nostri occhi stupiti? La realtà si costruisce sull’aneddoto e non più su un insieme di fatti più o meno contraddittori che permettono di guardare una situazione in un tentativo di visione globale, per poterne in seguito esprimere un’analisi.

Le parole d’ordine

Tutto questo si riferisce alla logica della diffusione della morale. Il telegiornale, come la quasi totalità dei media, è un organo di diffusione delle parole d’ordine dell’epoca. Non mette mai in discussione il sistema, la cui esperienza sembra d’altronde nemmeno conoscere, ma diffonde in tempo reale gli ordini che la classe dominante emana. Il telegiornale fa parte di quel «servizio pubblico» di cui parla Guy Debord nei Commentari sulla società dello spettacolo, la quale «[gestisce] con imparziale “professionismo” la nuova ricchezza della comunicazione di tutti mediante i mass media, comunicazione finalmente giunta alla purezza unilaterale, nella quale si fa tranquillamente ammirare la decisione già presa. Ciò che viene comunicato sono ordini e, molto armoniosamente, coloro che li hanno dati sono gli stessi che diranno quello che ne pensano» (4).

Il TG delle 20.00, uscito da una società nella quale la memoria è stata distrutta, trasmette parole d’ordine, come per un qualsiasi condizionamento, mediante la ripetizione permanente e quotidiana. Le storie raccontate sembrano tutte diverse, mentre al contrario e alla fine sono tutte simili. Tutto vi è ripetuto, sera dopo sera, costantemente e a tutti i livelli. Soltanto i nomi e le facce cambiano, ma il film, in sé, resta sempre identico. Un perpetuo presente è ciò che viene mostrato e che permette di occultare tutti i movimenti del potere. Le evoluzioni non sono ormai più messe in luce, quindi nemmeno avvengono. Il telegiornale quindi diffonde la morale borghese (cristiana e capitalista) in un blocco compatto. Un vomito lungo e lento defluisce, diluito e disseminato lungo tutto il TG delle 20. si conoscono diverse modalità di diffusione:

- L’accusa. È costante e generalmente pronunciata dai «testimoni», cosa che permette di far credere al giornalista di aver dato un «parere» e quindi un resoconto obiettivo della situazione. Un incendio devasta una casa e sono i pompieri che sarebbero dovuti arrivare prima. Un violentatore è uscito di prigione perché aveva diritto a una riduzione della pena ed è la giustizia che non funziona. Un governo rifiuta di piegarsi alle ingiunzioni occidentali ed è una dittatura, un Paese sottosviluppato nel quale la stupidità si mescola alla barbarie e, meglio ancora, dove la censura imbavaglia tutti gli oppositori, che sono necessariamente d’accordo col punto di vista degli occidentali ma non lo possono dire. Si tratta sempre di trovare qualcuno da mettere alla gogna per ricordare ciò che è «bene» e ciò che è «male», ritrovando tutta la semantica cristiana del «perdono», del «decadimento», ecc.

- L’evidenza. Particolarmente utilizzata per definire senza discussioni le questioni economiche, consiste nel diffondere i dogmi o le decisioni del governo senza mai rimetterle in questione. Per esempio, è il caso della «crescita», che è sempre il mezzo necessario alla sopravvivenza, mai rimesso in causa, del quale l’annunciatore ci comunica le cifre con un’aria catastrofica: «Quest’anno, secondo gli esperti, la crescita non sarà che dell’1,2%...».

- L’agiografia come a messa, il TG ha i suoi santi da mettere in primo piano. È il ritratto di qualcuno che è «riuscito», sia appena morto, sia che abbia«vinto tutto», sia «fattosi da solo», ecc. è il prisma dell’eccezione che decreta quale modello seguire per suscitare ammirazione e rispetto. «Ecco ciò che non siete, che dovreste essere ma non potrete mai diventare e che quindi dovete adorare», ci ripete in permanenza il TG.

 -Il vicinato. Particolarmente efficace: si tratta di dire che «la Francia è l’ultimo Paese in Europa che abborda questo problema». Questo meccanismo regola la socialità di base, l’appartenenza al gruppo attraverso l’imitazione, la riproduzione di quello che sebra fare o essere. L’annunciatore ci dice allora «essi fanno così, perché noi facciamo diversamente?», presupponendo che il nostro modo di fare è necessariamente meno buono. «Lavorare dopo i 65 anni negli USA non è un problema». Non viene data mai alcuna analisi dei punti positivi e negativi del sistema vicino, soltanto uno sguardo «obiettivo», che dica: «Ecco quello che avviene lì e perché è meglio che da noi».

- Il folclore. Qui sono presentate, con il sorriso sulle labbra e l’indulgenza per l’artista un po’ folle ma che alla fine non fa nulla di male, persone che vivono in maniera un poco diversa. Allora, e soltanto per questo genere di soggetti, l’annunciatore sottolinea il carattere «eccezionale» delle persone appena presentate, per dissuadere chiunque dal seguire il loro esempio.

E questi sono solamente alcuni esempi.

Aneddoto e fatalità

Principalmente due modi di rappresentare il mondo cullano il telegiornale e sono i due preminenti movimenti di diffusione delle parole d’ordine: l’aneddoto e la fatalità.

L’aneddoto si trova al principio di ogni soggetto. Tutto parte dal fatto particolare, dal fatto diverso del giorno, e si estende verso il problema più ampio che sembra contenere in sé stesso o che i giornalisti fanno finta di credere che contenga. Si tratta di una retorica particolare che si trova oggi alla base di tutti i discorsi politici o giornalistici, un rovesciamento della logica, dello svolgimento effettivo della dimostrazione e dell’analisi del mondo: ormai è l’eccezione che spiega la regola, che la costruisce. Tutto parte dal caso particolare per prolungarsi poi, come se questo contenesse in sé tutte le cause e tutte le conseguenze che sono il fondamento della situazione più generale che si presume esso dimostri. Il TG non si preoccupa mai di descrivere fenomeni endemici oppure li estrae sempre dalla catena di eventi che li ha portati alla presente situazione. È una necessità dialettica logica per chi vuole trasmettere gli ordini senza farsi un dovere di spiegarli, in mancanza di che si troverebbe obbligato a complicare la sua dimostrazione e si renderebbe conto che le cose sono meno semplici di come avrebbe voluto farle apparire. Perché le parole d’ordine siano diffuse efficacemente non bisogna dare la possibilità di venir contraddetti, quindi è meglio non spiegare. In ogni modo, l’abbiamo detto, non si tratta mai di fare comprendere ma sempre di insegnare.

La fatalità, da parte sua, culla l’insieme del telegiornale. Gli avvenimenti arrivano attraverso una disgrazia contingente, un imprevisto distratto che malauguratamente colpisce sempre gli stessi (persone, Paesi…). È un lamento costante: «Se i pompieri fossero arrivati prima», «Se lo stupratore non fosse uscito dalla prigione», «Se l’Africa non fosse un continente povero e corrotto», ecc. essa è la base di qualsiasi religione, perché permette di non dover giustificare mai nulla e richiama il dovere di sottomettersi alla trascendenza, perché noi siamo tutti «sopraffatti». La fatalità ritorna a risuonare in permanenza come una condanna e aggiunge con dispetto (ma non sempre): «Le cose stanno così». Il sistema si regola da solo ed è «il migliore dei sistemi possibili», l’uomo è un essere«cattivo» e passa il suo tempo a «cadere» e a «ricadere» malgrado tutti i tentativi di «perdonargli», il poveretto è responsabile della sua situazione perché è troppo fannullone per cercare soluzioni e applicarle persino se gliele si dà, ecc. è un sospiro costante, un richiamo permanente all’impotenza e alla sottomissione di fronte alla sofferenza. Il mondo va avanti e noi non ci possiamo fare niente…

Una volta trasmesse le parole d’ordine, il messaggio divino può congedarci, concludendo il sermone del giorno senza dimenticare mai di darci appuntamento domani alla stessa ora, poi scompare, raccattando le carte che fanno fede della sua serietà, mentre la videocamera si allontana, l’ombra s’ingrandisce e si fonde progressivamente in quella specie di musica che già apriva la cerimonia.

Pierre Mellet

[1] Patrick Poivre d’Arvor, riconosciuto come la star del giornalismo francese, non ha il tesserino di giornalista, perché i suoi guadagni principali non provengono dal giornalismo ma dalle sue attività di consulente e di scrittore.

[2] TG delle 20.00 di France 2, lunedì 6 agosto 2007.
[3] Stéphane Breton, Télévision, Hachette Littérature, 2005.
[
4] Guy Debord, Commentaires sur la société du spectacle, Gallimard, Folio, 1996.

Testo originale :

 

La propagande, c’est les autres
Comment la structure rituelle du Journal télévisé formate nos esprits
par Pierre Mellet
Voltairenet.org
http://www.voltairenet.org/article150773.html

Si le téléspectateur est de plus en plus attentif au traitement d’informations particulières par les journaux télévisés, il s’interroge rarement sur la structure même de cette émission. Or, pour Pierre Mellet, la forme est ici le fond : conçu comme un rite, le déroulement du journal télévisé est une pédagogie en soi, une propagande à part entière qui nous enseigne la soumission au monde que l’on nous montre et que l’on nous apprend, mais que l’on souhaite nous empêcher de comprendre et de penser.
18 septembre 2007

Depuis Paris (France)

Le journal télévisé est le cœur de l’information contemporaine. Principale source d’information d’une grande partie des Français, il n’était pourtant, à ses débuts, en 1949 en France, que le sous-produit de ce que n’avaient pas voulu diffuser au cinéma la Gaumont et les Actualités Françaises. Défilé d’images sur lesquels était posé un commentaire, le « présentateur » ne s’est installé dans son fauteuil qu’en 1954, quand le journal a été fixé à 20h. Depuis lors, la mise en scène n’a fait qu’aller en s’accroissant, et l’information en a été écartée —si jamais elle était présente au départ— pour faire de ce théâtre non plus un journal, mais un spectacle ritualisé, une cérémonie liturgique. Le « 20h » n’a pas pour fonction d’informer, au sens de dégager une tentative de compréhension du monde, mais bien de divertir les téléspectateurs, tout en leur rappelant toujours ce qu’ils doivent savoir.
L’analyse qui suit se base sur les deux principaux journaux télévisés de 20h français, celui de TF1 et celui de France 2, mais peut, à bien des égards, trouver des correspondances avec les journaux télévisés d’autres pays, principalement en « Occident ».
Le contexte
Fixé à 20h, le journal télévisé est devenu, comme la messe à son époque, le rendez-vous où se retrouve (chacun chez soi) toute la société. C’est un lieu de socialisation essentiel, paradoxalement. Chacun découvre chaque soir le monde dans lequel il vit, et peut dès lors en faire le récit autour de lui, en discuter les thèmes du moment avec l’assurance de leur importance, puisqu’ils ont été montré au « jt ». Tout est mis en place comme dans un rituel religieux : l’horaire fixe, la durée (une quarantaine de minutes), le présentateur-prêtre inamovible, ou presque, qui entre ainsi d’autant mieux dans le quotidien de chacun, le ton emprunté, sérieux, distant, presque objectif, mais jamais véritablement neutre, les images choisies, la hiérarchie de l’information. Comme dans tout rituel, le même revient en permanence, et s’agrège autour d’un semblant d’évolution quotidienne. Les mêmes heures annoncent les mêmes histoires, racontées par les mêmes reportages, lancées et commentées par les mêmes mots, mettant en scène les mêmes personnages, illustrées par les mêmes images. C’est une boucle sans fin et sans fond.
En ouverture, le générique lance une musique abstraite où s’entend le mélange du temps qui passe, la précipitation des événements, et une façon d’intemporel nécessaire à toute cérémonie mystique. Sur la musique, un globe précède l’apparition du présentateur, ou un travelling vers ce dernier le fait passer de l’ombre à la lumière. Tout se passe comme si le monde allait nous être révélé.
Le présentateur y tient rôle de passeur et d’authentifiant. Personnage principale et transcendantal, il se trouve au cœur du dispositif de crédibilité du 20h. C’est par lui que l’information arrive, par lui qu’elle est légitimée, rendue importante et donnée comme « vraie ». Par lui également que le téléspectateur peut être rassuré : si le monde va mal et semble totalement inintelligible, il y a encore quelqu’un qui « sait » et qui peut nous l’expliquer.
(Dans d’autre cas, c’est un duo qui présente le journal télévisé. La relation avec le téléspectateur est du coup beaucoup moins professorale et paternaliste, mais plus de l’ordre de la conversation, et peut sembler plus frivole. Bien évidemment, on ne trouvera jamais deux présentateur, ou deux présentatrices, mais toujours un duo hétérosexuel. C’est qu’il s’agit de ne pas choquer la représentation de la famille bourgeoise chrétienne. Ce type de mise en scène étant rare en France, nous ne développerons pas ce point plus avant).
Crédibilité et information
« Madame, Monsieur, bonsoir, voici les titres de l’actualité de ce lundi 6 août », nous dit le présentateur au début de chaque journal. Il ne s’agit donc pas d’un sommaire, d’un tri de la rédaction dans l’information du jour, mais bien des « titres de l’actualité », c’est-à-dire précisément de ce qu’il faut savoir du monde du jour. Il n’y a rien à comprendre, le « journalisme » ne s’applique désormais plus qu’a nous apprendre le monde. Le présentateur ne donne pas de clé, il ne déchiffre rien, il dit ce qui est. Ce n’est pas une « vision » de l’actualité qui nous est présentée, mais bien l’Actualité.
Ce qui importe, dès lors, pour lui, c’est « d’avoir l’air ». Sa crédibilité n’est pas basé sur sa qualité de journaliste, mais sur son charisme, sur l’empathie qu’il sait créer, sa manière d’être rassurant, et sur son apparence d’homme honnête et intelligent. David Pujadas peut bien annoncer le retrait d’Alain Juppé de la vie politique, et Patrick Poivre d’Arvor montrer une fausse interview de Fidel Castro, ils sont tout de même maintenus à leur poste avec l’appui de leur direction, et n’en perdent pas pour autant leur statut de « journaliste » [
1] et leur crédibilité auprès du public. Tout se passe comme si l’information délivrée n’avait finalement pas d’importance. Elle n’est là que pour justifier le rituel, comme la lecture des Évangiles à la messe, mais elle n’en est en aucun cas la raison centrale, le cœur, qui se trouve toujours ailleurs, dans le rappel constant des mots d’ordres moraux, politiques et économiques de l’époque. « Voici le Bien, voici le Mal », nous dit le présentateur.
La hiérarchie de l’information est donc inexistante. Alors que l’un des premiers travail effectués dans tout « journal » est de dégager les sujets qui semblent les plus essentiels pour tenter d’en ressortir un déroulé (propre à chaque rédaction) de l’information en ordre décroissant, de l’important vers l’insignifiant, ici, point. On passe de la dépouille du cardinal Lustiger à l’accident de la Fête des Loges, puis vient le dénouement dans l’affaire de l’enlèvement du petit Alexandre à la Réunion, suivit du suicide d’un agriculteur face aux menées des anti-OGM, à quoi font suite l’allocation de rentrée scolaire, les enfants qui ne partent pas en vacances, la hausse du prix de l’électricité, la spéléologue belge coincée dans une grotte, la campagne électorale états-unienne chez les démocrates, l’intervention de Reporters sans frontière pour dénoncer l’absence de liberté d’expression en Chine, la Chine comme destination touristique, le licenciement de Laure Manaudou, un accident lors d’une course aux États-Unis, le festival Fiesta de Sète, le décès du journaliste Henri Amouroux et enfin celui du baron Elie de Rothschild [
2]. Il n’y a aucune cohérence, à aucun moment. Les sujets ne semblent choisis que pour leur insignifiance quasi-générale, ou leur semblant d’insignifiance. Tout y est mélangé, l’amour et la haine, les rires et les pleurs, l’empathie se mêle au pathos, les images spectaculaires ou risibles aux drames pathétiques, et l’omniprésence de la fatalité nous rappelle toujours la prédominance de la mort sur la vie.
Le reportage
Une fois les « titres » annoncés, le présentateur en vient au lancement du reportage. Le reportage est la démonstration par l’exemple de ce que nous dit le présentateur. En effet, tout ce qui va être dit et montré dans le reportage se trouve déjà dans son lancement. Le présentateur résume toujours au lieu précisément de présenter. Cela crée de la redondance. Ce qui est dit une fois en guise d’introduction est systématiquement répété ensuite dans le reportage. Ce sont les mêmes informations qui sont énoncées, la première fois résumées, et la seconde fois étendues pour l’élaboration de l’histoire contée. Le reportage ajoute très peu de chose à ce qu’à déjà dit le présentateur, tout juste développe-t-il les détails anodins qui contrebalancent « l’objectivité » du présentateur en créant de la « proximité ». Aux éléments de départ, trouvé dans le lancement, s’ajoute ensuite à l’histoire les petits détails romanesques nécessaire à son instruction ludique.
Le reportage est constitué de deux choses : l’image et son commentaire. Or, si l’on coupe le son, l’image ne signifie plus rien. Alors même que tout devrait reposer sur elle, c’est l’inverse précisément qui se produit à la télévision : le commentaire raconte ce que l’image ne fait qu’illustrer. Cette dernière n’est là que comme faire-valoir. C’est une succession de paysages semblables, de visages et de gestes interchangeables, collés les uns à côté des autres, et sans lien entre eux. À la télévision, l’image ne sert qu’à justifier le commentaire, à l’authentifier. Elle lui permet d’apparaître comme « vrai ». Et elle le lui permet précisément parce que ne disant rien par elle-même, le commentaire peut alors la transformer en ce qu’il veut, et c’est là le principal danger de ce media. L’image possédant une force de conviction très importante, le consentement est d’autant plus simple à obtenir une fois que vous avez dépouillée l’image de tout son sens et l’avez transformée en preuve authentifiant votre discours. Tout repose donc désormais sur le commentaire, et sur la vraisemblance de l’histoire qui va nous être racontée.
« Dans le reportage, note l’anthropologue Stéphane Breton, le commentaire est soufflé depuis les coulisses, cet arrière-monde interdit au téléspectateur (…) et d’où jaillit, dans le mouvement d’une révélation, un sens imposé à l’image. La signification n’est pas à trouver dans la scène mais hors d’elle, prononcée par quelqu’un qui sait » [
3]. Le journaliste n’apparaît que très rarement à la fin de son reportage. Nous entendons donc une voix sans énonciateur. C’est une parole divine qui s’impose à nous pour nous expliquer ce que nous ne pourrions comprendre en ne regardant que les images. Il n’y a pas d’interlocuteur, donc pas de contradiction. Le reportage est un fil qui se déroule suivant une logique propre, celle que le journaliste veut nous donner à apprendre, où les « témoins » ne se succèdent que pour accréditer la parole qui a de toute manière déjà dit ce qu’ils vont nous expliquer. Comme avec le lancement, la redondance est omniprésente dans le reportage. Tout « témoin » est présenté non pas selon sa fonction, ni dans le but de justifier sa place dans ce reportage à ce moment là, mais suivant ce qu’il va nous dire. Et la parole du « témoin » accrédite le commentaire en donnant un point de vue nécessairement « vrai ». « Puisqu’il le dit, c’est que c’est comme ça ». Et bien souvent, le « témoin » n’a strictement rien à dire, mais va le dire tout de même, le journaliste devant faire la preuve de son objectivité et de l’authenticité de son reportage, de son enquête, en démontrant qu’il s’est bien rendu sur place et qu’il peut donc nous donner à voir ce qui est.
Le reportage, au journal télévisé, n’est pas la réalisation d’une enquête qui explore différentes pistes, mais le récit d’un fait quelconque montré comme fondamental. C’est une vision du monde sans alternative, qui tente d’apparaître comme purement objective. Si le présentateur dit ce qui est, le reportage, lui, le montre. Et c’est précisément là que l’image pêche par son non-sens, et que le commentaire semble devenir parole divine. « Voici le monde », nous dit l’un, « et voilà la preuve », poursuit le reportage. Et comment contester la preuve alors qu’elle nous est présentée, là, sous nos yeux ébahis ? La réalité se construit sur l’anecdote, et non plus sur un ensemble de faits plus ou moins contradictoires qui permettent de regarder une situation dans une tentative de vision globale pour pouvoir ensuite en donner une analyse.
Les mots d’ordre
Tout cela se rapporte à la logique de diffusion de la morale. Le journal télévisé, comme la quasi-totalité des médias, est un organe de diffusion des mots d’ordre de l’époque. Il ne discute jamais le système, il ne semble d’ailleurs même pas connaître son existence, mais diffuse à flux tendus les ordres que la classe dominante édicte. Le journal télévisé fait partie de ce « service public », dont parle Guy Debord dans les Commentaires sur la société du spectacle, « qui [gère] avec un impartial "professionnalisme" la nouvelle richesse de la communication de tous par mass media, communication enfin parvenue à la pureté unilatérale, où se fait paisiblement admirer la décision déjà prise. Ce qui est communiqué, ce sont des ordres  ; et, fort harmonieusement, ceux qui les ont donnés sont également ceux qui diront ce qu’ils en pensent » [4] .
Le 20h, issu d’une société où la mémoire a été détruite, transmet les mots d’ordre, comme pour tout conditionnement, par la répétition permanente et quotidienne. Les histoires racontées semblent toutes différentes, quand bien même elles sont finalement toutes semblables. Tout y est répété, soir après soir, constamment, et à tous les niveaux. Seuls les noms et les visages changent, mais le film, lui, reste toujours identique. C’est un perpétuel présent qui est montré et qui permet d’occulter tous les mouvements du pouvoir. Les évolutions n’étant plus jamais mises en lumière, c’est bien qu’elles n’ont plus cours. Le journal télévisé diffuse donc la morale bourgeoise (chrétienne et capitaliste) en bloc compact. C’est un vomi long et lent qui s’écoule, dilué et disséminé tout au long du 20h. Ils connaissent plusieurs modes de diffusions :
- L’accusation. Elle est constante, et généralement dite par les « témoins », ce qui permet de faire croire au journaliste qu’il a donné à voir un « avis », et qu’il a donc rendu un regard objectif de la situation. Un incendie ravage une maison, et ce sont les pompiers qui auraient dû arriver plus tôt. Un violeur est sorti de prison parce qu’il avait droit à une remise de peine, et c’est la justice qui dysfonctionne. Un gouvernement refuse de se plier aux injonctions occidentales, et c’est une dictature, un pays sous-développé où la stupidité se mêle à la barbarie, et mieux encore, où la censure bâillonne tous les opposants, qui sont eux nécessairement d’accord avec le point de vue des occidentaux mais ne peuvent pas le dire. Il s’agit toujours de trouver quelqu’un à vouer aux gémonies pour rappeler ce qui est « bien » et ce qui est « mal », et où l’on retrouve toute la sémantique chrétienne du « pardon », de la « déchéance », etc.
- L’évidence. Particulièrement utilisée pour régler sans discussions les questions économiques, elle consiste à diffuser les dogmes ou les décisions gouvernementales sans jamais les remettre en question. C’est par exemple le cas de la « croissance », qui est toujours la voie nécessaire à la survie jamais remise en cause et dont le présentateur nous annonce les chiffres avec un air catastrophé : « la croissance ne sera que de 1,2 % cette année selon les experts »...
- L’hagiographie. Commme à la messe, le journal télévisé a ses saints à mettre en avant. C’est le portrait de quelqu’un qui a « réussi », soit qu’il vienne de mourir, soit qu’il ait « tout gagné », soit qu’il se soit « fait tout seul », etc. C’est le prisme de l’exception qui édicte le modèle à suivre en suscitant admiration et respect. « Voilà ce que vous n’êtes pas, que vous devriez être, mais ne pourrez jamais devenir, et que vous devez donc adorer », nous répète le journal télévisé en permanence.
- Le voisinage. Particulièrement efficace, il s’agit de dire que « la France est le dernier pays en Europe à aborder cette question ». C’est le mécanisme qui régit la sociabilité de base, l’appartenance au groupe par l’imitation, par la reproduction de ce qu’il semble faire ou être. Le présentateur nous dit alors « eux font comme cela, pourquoi faisons nous autrement ? », présupposant que notre manière de faire est nécessairement moins bonne. « Travailler après 65 ans, aux États-Unis ça n’est pas un problème ». Aucune analyse n’est jamais donnée des points positifs et négatifs du système voisin, seulement un regard « objectif », qui dit : « voilà comment ça se passe là, et pourquoi c’est mieux que chez nous ».
- Le folklore. Ici sont présentés, avec le sourire aux lèvres et l’indulgence pour l’artiste un peu fou mais qui ne fait finalement pas de mal, des gens qui vivent un peu autrement. C’est alors, et seulement dans ce genre de sujet, que le présentateur souligne le caractère « exceptionnel » des personnes qui vont nous être présentées, pour dissuader quiconque de suivre leur exemple.
Ce ne sont là que quelques exemples.
Anecdote et fatalité
Deux modes de représentation du monde bercent principalement le journal télévisé, et sont les deux principaux mouvements de diffusion des mots d’ordre : l’anecdote et la fatalité.
L’anecdote se trouve au début de chaque sujet. Tout part du fait particulier, du fait divers du jour, et s’étend vers le problème plus vaste qu’il semble contenir en lui-même, ou que les journalistes font mine de croire qu’il contient. C’est une rhétorique particulière qui se retrouve aujourd’hui à la base de tous les discours politiques ou journalistiques, un renversement de la logique, du déroulement effectif de la démonstration et de l’analyse du monde : c’est l’exception qui explique désormais la règle, qui la construit. Tout part du fait particulier pour se prolonger, comme si ce dernier détenait en lui toutes les causes et toutes les conséquences qui ont fondé la situation plus générale qu’il est censé démontrer. Le 20h ne se préoccupe jamais de décrire des phénomènes endémiques, ou les sort toujours de la chaîne d’événements qui les a amené à la situation présente. C’est une nécessité dialectique logique pour qui veut transmettre les consignes sans se mettre en devoir de les expliquer, sans quoi il se trouve obligé d’apporter de la complication à sa démonstration et se rend compte que les choses sont moins simples qu’il ne voulait les faire paraître. Pour que les mots d’ordre soient diffusés efficacement, il ne faut pas donner la possibilité d’être contredit, donc il vaut mieux ne rien expliquer. De toute manière, nous l’avons dit, il ne s’agit jamais de donner à comprendre, mais toujours à apprendre.
La fatalité, elle, berce l’ensemble du journal télévisé. Les événements arrivent par un malheurs contingent, un hasard distrait qui touche malencontreusement toujours les mêmes (personnes, pays…). C’est une lamentation constante : « si les pompiers étaient arrivés plus tôt », « si le violeurs n’était pas sorti de prison », « si l’Afrique n’était pas un continent pauvre et corrompu », etc. Elle est la base de toute religion puisqu’elle permet de ne rien avoir jamais à justifier, et rappel le devoir de soumission face à la transcendance, puisque nous sommes toujours « dépassés ». La fatalité revient sonner en permanence comme une condamnation, et ajoute avec dépit (mais pas toujours) : « c’est comme ça ». Le système se régule tout seul et est « le meilleur des systèmes possibles », l’homme est un être « mauvais » et passe son temps à « chuter » et à « rechuter » malgré toutes les tentatives de lui « pardonner », le pauvre est responsable de sa situation parce qu’il est trop fainéant pour chercher des solutions et les mettre en application alors même qu’on les lui donne, etc. C’est un soupir constant, un appel permanent à l’impuissance et à la soumission face à la souffrance. Le monde va et nous n’y pouvons rien…
Une fois les mots d’ordre transmis, le messager divin peut nous donner congé, concluant le sermon du jour en n’omettant jamais de nous donner rendez-vous le lendemain à la même heure, puis disparaît, rangeant les papiers qui font foi de son sérieux, la caméra s’éloignant, l’ombre grandissant, et se fondant progressivement dans cette sorte de musique qui ouvrait déjà la cérémonie.

Pierre Mellet


[1] Patrick Poivre d’Arvor, reconnnu comme la star du journalisme français, n’a pas de carte de presse car ses revenus principaux ne proviennent pas du journalisme, mais de ses activités de conseil et d’écriture.
[
2] 20h de France 2, lundi 6 août 2007.
[
3] Stéphane Breton, Télévision, Hachette Littérature, 2005.
[
4] Guy Debord, Commentaires sur la société du spectacle, Gallimard, Folio, 1996.




Martedì, 23 ottobre 2007