FMI – FAME

di Serge Halimi (Le Monde Diplomatique, maggio 2008)

(traduzione dal francese di José F. Padova)



http://www.monde-diplomatique.fr/2008/05/HALIMI/15859

Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) avevano promesso che l’aumento dei flussi di merci  avrebbe contribuito a sradicare la povertà e la fame. Colture per uso alimentare? autonomia alimentare? Si era trovato qualcosa di ancor più intelligente: l’agricoltura locale sarebbe stata abbandonata od orientata all’esportazione. In questo modo si sarebbe tratto il maggiore vantaggio non già dalle condizioni naturali locali – più favorevoli, per esempio, al pomodoro messicano o all’ananas delle Filippine -, bensì dai costi di sfruttamento inferiori in questi due Paesi a quelli della Florida o della California.
L’agricoltore del Mali affiderebbe la sua alimentazione alle aziende cerealicole della Beauce o del Midwest [ndt.: regioni di Francia e USA coltivate in prevalenza a cereali], più meccanizzate, più produttive. Abbandonando la sua terra il contadino andrebbe a ingrossare la popolazione delle città per diventare operaio in una azienda occidentale che ha delocalizzato le sue attività per approfittare di una manodopera più conveniente. Gli Stati della costa africana nello stesso tempo alleggerirebbero il peso del loro debito estero vendendo i loro diritti di pesca alle navi-officina dei paesi più ricchi. In seguito a ciò ai Guineani non resterebbe altro se non acquistare pesce in scatola danese o portoghese (1). Malgrado un inquinamento supplementare causato dai trasporti il paradiso sarebbe stato assicurato. E altrettanto il profitto degli intermediari (distributori, spedizionieri, assicuratori, pubblicitari)…
Improvvisamente la Banca Mondiale, che ha prescritto questo modello di “sviluppo”, dichiara che trentatre Paesi stanno per conoscere tumulti da fame. E il WTO (OMC) si inquieta per un ritorno al protezionismo, osservando che molti Paesi esportatori di derrate alimentari (India, Vietnam, Egitto, Kazakistan…) hanno deciso di ridurre le loro vendite all’estero allo scopo – ma che impudenza! – di garantire l’alimentazione delle loro popolazioni. Il Nord si irrita in fretta per l’egoismo degli altri. Gli egiziani mancano di frumento perché i cinesi mangiano troppa carne…
Gli Stati che hanno seguito i “consigli” della Banca Mondiale e del FMI hanno sacrificato la loro agricoltura alimentare. Quindi non possono più riservare a sé stessi i loro raccolti. Beh, pagheranno, è la legge del mercato. L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) ha già calcolato il rincaro dei loro costi per l’importazione di cereali: il 56% in un anno. Ovviamente il Programma alimentare mondiale (PAM), che ogni anno nutre settantatre milioni di persone in settantotto Paesi, richiede 500 milioni di dollari in più.
Le sue pretese devono essere state giudicate stravaganti, perché non ne ha ottenuto altro che la metà. Eppure elemosinava solamente il costo di qualche ora di guerra in Irak e un millesimo di quanto costerà al settore bancario la crisi dei subprime, che, questa sì, vede il generoso soccorso degli USA. Le cose possono essere calcolate diversamente: il PAM per conto dei suoi milioni di affamati implorava… il 13,5% dei soldi guadagnati l’anno scorso dal solo sig. John Paulson, dirigente di un fondo speculativo, abbastanza avveduto da prevedere che centinaia di migliaia di americani sarebbero stati ridotti al fallimento immobiliare. Si ignora quanto renderà, e a chi, la carestia che è cominciata, ma in un’economia moderna nulla mai si perde.

Poiché tutto si ricicla, una speculazione scaccia l’altra. Dopo aver alimentato la bolla Internet, la politica monetaria della Federal Reserve (Fed) ha incoraggiato gli americani a indebitarsi. E gonfiato la bolla immobiliare. Nel 2006 il FMI stimava ancora: «Tutto indica che i meccanismi di allocazione del credito sul mercato immobiliare USA sono rimasti relativamente efficienti». Mercato efficiente: non si dovrebbe saldare assieme queste due parola una volta per tutte? La bolla immobiliare è scoppiata. Gli speculatori riabilitano allora un vecchio eldorado: i mercati dei cereali. Comperando contratti di fornitura di grano o di riso per una data futura essi si aspettano di rivenderli a prezzo molto più alto. Cosa questa che incrementa il rialzo dei prezzi, la carestia…
E che fa allora il FMI, dotato, secondo il suo direttore generale, della «migliore equipe di economisti del mondo»? Così lo spiega: «Uno dei modi per risolvere le questioni di carestia è di aumentare il commercio internazionale». Il poeta Leo Ferré un giorno scrisse: «Perché la disperazione si possa vendere non resta che trovarne la formula».
Sembrerebbe che la si sia trovata.

(1) Vedi Jean Ziegler, «Réfugiés de la faim»,

Profughi della fame
di Jean Ziegler (traduzione dal francese di José F. Padova)
Articolo inedito – Marzo 2008, Le Monde Diplomatique
www.monde-diplomatique.fr/2008/03/ZIEGLER/15658

La notte era nera, senza luna. Il vento soffiava a più di 100 km all’ora e sollevava onde di più di 10 metri che, con un fracasso spaventoso, si abbattevano sulla fragile imbarcazione di legno. Questa era partita da una cala sulla costa della Mauritania, dieci giorni prima, con a bordo 101 profughi africani dalla fame. Per un miracolo insperato la tempesta gettò la barca su uno scoglio della spiaggia di El Medano, in una piccola isola dell’arcipelago delle Canarie [ndt.: Tenerife]. Sul fondo della barca le guardie civili spagnole trovarono i cadaveri di tre adolescenti e di una donna, morti di fame e di sete.
La stessa notte, qualche chilometro più lontano, sulla spiaggia di El Hierro, si arenò un’altra bagnarola: a bordo 60 uomini, 17 bambini e 7 donne, spettri titubanti al limite dell’agonia (1).
Nello stesso periodo, ma questa volta in Mediterraneo, si svolge un altro dramma: a 150 km a sud di Malta un aereo d’osservazione dell’organizzazione Frontex individua un gommone sovraccarico di 53 passeggeri che – probabilmente in seguito a un guasto del motore – va alla deriva sui flutti agitati. A bordo le telecamere dell’aereo identificano bambini di tenera età e donne. Ritornato alla sua base, a La Valletta, il pilota informa le autorità maltesi le quali rifiutano d’agire, col pretesto che i naufraghi vanno alla deriva nella «zona di ricerche e soccorso libica». Il delegato dell’Alto Commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite , Laura Boldini, interviene chiedendo ai maltesi di fare partire un battello di soccorso. Non se ne fa nulla. L’Europa non si muove. Si perde qualsiasi traccia dei naufraghi.
Qualche settimana prima un’imbarcazione nella quale si pigiavano un centinaio di profughi dalla fame africani e che tentava di raggiungere le Canarie era affondata nei flutti al largo del Senegal. Vi furono due sopravvissuti (2).

Migliaia di africani, compresi donne e bambini, sono accampati davanti alle recinzioni delle enclave spagnole di Melilla e di Ceuta, nel Rif privo d’acqua. Su ingiunzione dei commissari di Bruxelles i poliziotti marocchini ricacciano gli africani nel Sahara (3). Privi di provviste e di acqua. Centinaia, forse migliaia di essi muoiono sulle rocce e le sabbie del deserto (4).
Quanti giovani africani lasciano il loro Paese mettendo a repentaglio la vita per tentare di raggiungere l’Europa? Si stima che ogni anno circa 2 milioni di persone provino a entrare illegalmente nel territorio dell’Unione Europea e che di essi circa 2.000 periscano nel Mediterraneo e altrettanti nelle acque dell’Atlantico. Il loro obiettivo sono le Canarie, partendo dalla Mauritania o dal Senegal, oppure lo stretto di Gibilterra partendo dal Marocco.
(Vedi mappa in Monde Diplomatique)
Secondo il governo spagnolo 47.685 emigranti africani sono arrivati sulle coste nel 2006. Occorre aggiungervi i 23.151 profughi che sono sbarcati sulle isole italiane o a Malta, partendo dalla Jamahiriya libica o dalla Tunisia. Altri tentano di raggiungere la Grecia passando dalla Turchia o dall’Egitto. Il Segretario generale della Federazione internazionale delle Società della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa, il sig. Markku Niskala, commenta: «Questa crisi è passata completamente sotto silenzio. Non soltanto nessuno viene in aiuto a questa gente senza scampo, ma non vi è neppure un’organizzazione che tenga almeno una statistica che renda conto di questa tragedia quotidiana (5)».

Per difendere l’Europa da queste emigrazioni l’Unione Europea ha messo in piedi una organizzazione militare semiclandestina che porta il nome di Frontex. Questa agenzia gestisce le «frontiere esterne dell’Europa»
[ndt.: vedi http://europa.eu/agencies/community_agencies/frontex/index_it.htm].
Dispone di navi veloci (e armate) per l’intercettazione in alto mare, di elicotteri da combattimento, di una flotta di aerei per la sorveglianza muniti di telecamere ultrasensibili e di visori notturni, di radar, satellitari e sofisticati strumenti per la sorveglianza elettronica a lunga distanza.

Frontex mantiene anche sul suolo africano «campi di accoglienza», dove sono stipati i profughi della fame che vengono dall’Africa centrale, orientale o australe, dal Ciad, dalla Repubblica democratica del Congo, dal Burundi, dal Camerun, dall’eritrea, dal Malati, dallo Zimbabwe… Sovente essi camminano attraverso il continente per uno o due anni, vivendo di espedienti, attraversando le frontiere e tentando di avvicinarsi progressivamente a una costa. Allora sono intercettati dagli agenti di Frontex o dai loro ausiliari locali che impediscono loro di raggiungere i porti del Mediterraneo o dell’Atlantico. Dati i cospicui versamenti in contanti effettuati da Frontex nelle mani dei dirigenti africani, pochi di questi rifiutano l’installazione di questi campi. L’Algeria salva l’onore. Il presidente Abdelaziz Bouteflika dice: «Noi rifiutiamo questi campi. Non saremo i carcerieri dei nostri fratelli».



Organizzare la carestia e criminalizzare coloro che la fuggono
La fuga per mare degli africani è favorita da una circostanza particolare: la rapida distruzione delle comunità di pescatori sulle coste atlantiche e mediterranee del Continente. Qualche cifra.
Nel mondo, 35 milioni di persone vivono direttamente ed esclusivamente di pesca, di cui 9 milioni in Africa (6). Il pesce costituisce il 23,1% dell’apporto totale di proteine animali in Asia, il 19% in Africa; il 66% di tutto il pesce consumato è pescato in alto mare, il 44% nelle acque interne; l’allevamento in acquicoltura di pesci rappresenta il 27% della produzione mondiale. La gestione degli stock di pesce, i cui trasferimenti si effettuano tanto all’interno quanto all’esterno delle zone economiche nazionali, riveste quindi un’importanza vitale per l’utilizzazione e la sicurezza alimentari delle popolazioni coinvolte.
La maggior parte degli Stati dell’Africa subsahariana sono indebitati in eccesso. Essi vendono i loro diritti di pesca a imprese industriali del Giappone, dell’Europa e del Canada. Le navi-officina di queste aziende saccheggiano la ricchezza biologica acquatica delle comunità di pescatori fin dentro alle acque territoriali. Utilizzando reti a maglie strette (vietate di norma) operano frequentemente al di fuori dei periodi nei quali la pesca è autorizzata. La maggior parte dei governi africani firmatari di queste concessioni non dispone di navi da guerra e non ha alcun mezzo per fare rispettare gli accordi. La pirateria è la regina. I villaggi costieri muoiono.

Le navi-officina selezionano i pesci, li trasformano in surgelati, in farine o conserve in scatola e li spediscono direttamente sui mercati. Esempio: la Guinea Bissau, la cui zona economica contiene un formidabile patrimonio biologico marino. Oggi, per sopravvivere, gli abitanti della Guinea Bissau, antico popolo di pescatori, sono ridotti ad acquistare sul mercato nazionale – a prezzi elevati – scatolame di pesce danese, canadese o portoghese.
Sprofondati nella miseria e nella disperazione, disarmati di fronte ai predatori, i pescatori rovinati vendono a poco prezzo le loro barche ai “passatori” mafiosi o si improvvisano passatori essi stessi. Costruite per la pesca costiera nelle acque territoriali queste barche sono in genere inadatte alla navigazione in alto mare.
E ancora… Un poco meno di un miliardo di esseri umani vivono in Africa. Fra il 1972 e il 2002 il numero di africani gravemente e permanentemente sottoalimentati è aumentato da 81 a 203 milioni. I motivi sono molteplici: il principale è dovuto alla politica agricola comunitaria (PAC) dell’Unione Europea.
Gli Stati industrializzati dell’Organizzazione di cooperazione e sviluppo economico (OCSE) hanno pagato ai loro agricoltori e allevatori, nel 2006, più di 350 miliardi di dollari a titolo di sovvenzioni alla produzione e all’esportazione. L’Unione Europea, in particolare, pratica il dumping agricolo con un cinismo senza limiti. Risultato: la distruzione sistematica delle agricolture per l’alimentazione umana in Africa.
Prendiamo l’esempio della Sandaga, il più grande mercato di beni di consumo esistente in Africa occidentale. La Sandaga è un universo rumoroso, colorato, odoroso, meraviglioso, situato nel cuore di Dakar. Vi si possono acquistare, secondo le stagioni, legumi e frutta portoghesi, francesi, spagnoli, italiani, greci, ecc. – a un terzo o alla metà del prezzo degli equivalenti prodotti autoctoni. A qualche chilometro di distanza, sotto un sole bruciante, il contadino wolof, con i suoi figli e sua moglie, lavora fino a quindici ore al giorno… e non ha la benché minima possibilità di raggiungere un minimo vitale decente.
Su 52 Paesi africani, 37 sono Paesi essenzialmente agricoli.
Pochi altri esseri umani sulla terra lavorano altrettanto e in condizioni tanto difficili come i contadini wolof del Senegal, bambara del Mali, mossi del Burkina o bashi del Kivu. La politica del dumping agricolo europeo distrugge la loro vita e quella dei loro figli.

Torniamo alla Frontex. L’ipocrisia dei commissari di Bruxelles è odiosa: da una parte essi organizzano la fame in Africa, dall’altra criminalizzano i profughi della fame.

Aminata Traoré riassume la situazione: «I mezzi umani, finanziari e tecnologici che l’Europa dei Venticinque dispiega contro i flussi migratori africani sono, di fatto, quelli di una guerra bella e buona fra questa Potenza mondiale e i giovani Africani, senza mezzi di difesa, dei campi e delle città, dei cui diritti all’educazione, all’informazione economica, al lavoro e all’alimentazione ci si fa beffe nei loro Paesi d’origine con il pretesto di “adeguamenti strutturali”. Vittime di decisioni e di scelte macroeconomiche, di cui non sono per niente responsabili, sono scacciati, braccati e umiliati quando tentano di cercare una via d’uscita nell’emigrazione. I morti, i feriti e gli handicappati dei sanguinosi avvenimenti di Ceuta e Melilla, nel 2005, così come le migliaia di corpi senza vita che finiscono tutti i mesi sulle spiagge di Mauritania, delle Canarie, di Lampedusa o altrove, sono altrettanti naufraghi dell’emigrazione forzata e criminalizzata (7)».

Jean Ziegler
Scrittore, professore all’Università di Ginevra. Relatore speciale della Commissione dei Diritti dell’Uomo delle Nzioni Unite per quanto riguarda il Diritto all’Alimentazione. Autore di La fame nel mondo spiegata a mio figlio, Net   (collana Saggi
, € 6,00

(1) Cf. El País, Madrid, 13 maggio 2007 ; la notte è quella dall’11 al 12 maggio.
(2) Le Courrier, Genève, 10 dicembre 2006.
(3) Il 28 settembre 2005 soldati spagnoli hanno ucciso cinque giovani africani che tentavano di superare la rete metallica elettrificata che circonda l’enclave di Ceuta. Otto giorni più tardi sei altri giovani neri erano uccisi in circostanze simili.
(4) Human Rights Watch, 13 ottobre 2005.
(5) La Tribune de Genève, 14 dicembre 2006. NDLR : si veda anche il lavoro realizzato su questo problema da United et Migreurop : « Des morts par milliers aux portes de l’Europe ».
(6) Questa cifra esclude le persone impiegate nell’acquicoltura. Cf. Organisation pour l’alimentation et l’agriculture (FAO), La situation mondiale des pêches et de l’aquaculture, Rome, 2007.
(7) Aminata Traoré, intervento al Forum sociale mondiale, Nairobi, 20 gennaio 2007.

Testo originale:

FMI – FAIM
par Serge Halimi (Le Monde Diplomatique, mai 2008, n° 650)le
Le Fonds Monétaire International (FMI) et l’Organisation mondiale du commerce (OMC) avaient promis que l’augmentation des flux de marchandises contribuerait à éradiquer la pauvreté et la faim. Cultures vivrières? Autonomie alimentaire? On avait trouvé plus intelligent : l’agriculture locale serait abandonnée ou orientée vers l’exportation. Ainsi, on tirerait le meilleur parti non pas de conditions naturelles – plus favorables, par exemple, à la tomate mexicaine, à l’ananas philippin –, mais de coûts d’exploitation plus bas dans ces deux pays qu’en Floride ou en Californie.
L’agriculteur malien confierait son alimentation aux firmes céréalières de la Beauce ou du Midwest, plus mécanisées, plus productives. Quittant sa terre, il irait grossir la population des villes pour devenir ouvrier dans une entreprise occidentale ayant délocalisé ses activités afin de profiter d’une main-d’oeuvre meilleur marché. Les Etats côtiers d’Afrique allégeraient au même moment le poids de leur dette extérieure en vendant leurs droits de pêche aux bateaux-usines des pays plus riches. Il ne resterait plus ensuite aux Guinéens qu’à acheter des conserves de poisson danoises ou portugaises (1). Malgré une pollution supplémentaire générée par les transports, le paradis était assuré. Le profit des intermédiaires (distributeurs, transitaires, assureurs, publicitaires) aussi...
Soudain la Banque mondiale, prescriptrice de ce modèle de «développement», annonce que trente-trois pays vont connaître des «émeutes de la faim». Et l’OMC s’alarme d’un retour au protectionnisme en observant que plusieurs pays exportateurs de denrées alimentaires (l’Inde, le Vietnam, l’Egypte, le Kazakhstan...) ont décidé de réduire leurs ventes à l’étranger afin – quelle impudence! – de garantir l’alimentation de leur population. Le Nord s’offusque vite de l’égoïsme des autres. C’est parce que les Chinois mangent trop de viande que les Egyptiens manquent de blé...
Les Etats qui ont suivi les «conseils» de la Banque mondiale et du FMI ont sacri-fié leur agriculture vivrière. Ils ne peuvent donc plus se réserver l’usage de leurs récoltes. Eh bien, ils paieront, c’est la loi du marché. L’Organisation des Nations unies pour l’alimentation et l’agriculture (FAO) a déjà calculé l’envol de leur facture d’importation de céréales : 56 % en un an. Logiquement, le Programme alimentaire mondial (PAM), qui nourrit chaque année soixante-treize millions de personnes dans soixante-dix-huit pays, réclame 500 millions de dollars supplémentaires.

Ses prétentions ont dû être jugées extravagantes puisqu’il n’en a obtenu que la moitié. II ne quémandait cependant que le prix de quelques heures de guerre en Irak et le millième de ce que la crise des subprime va coûter au secteur bancaire, généreuse-ment secouru, lui, par les Etats. On peut calculer les choses autrement : le PAM implorait pour le compte de ses millions d’affamés... 13,5 % des sommes gagnées l’année dernière par le seul M. John Paulson, dirigeant d’un fonds spéculatif assez avisé pour prévoir que des centaines de milliers d’Américains seraient réduits à la faillite immobilière. On ignore combien rapportera, et à qui, la famine qui a commencé, mais rien ne se perd jamais dans une économie moderne.
Car tout se recycle ; une spéculation chasse l’autre. Après avoir alimenté la bulle Internet, la politique monétaire de la Réserve fédérale (Fed) a encouragé les Américains à s’endetter. Et gonflé la bulle immobilière. En 2006, le FMI estimait encore : « Tout indique que les mécanismes d’allocation de crédit sur le marché de l’immobilier aux Etats-Unis sont restés relativement efficaces.» Marché-efficace : ne devrait-on pas souder ces deux mots une fois pour toutes ? La bulle immobilière a crevé. Les spéculateurs réhabilitent alors un vieil eldorado : les marchés de céréales. Achetant des contrats de livraison de blé ou de riz pour une date future, ils escomptent les revendre beaucoup plus cher. Ce qui entretient la hausse des prix, la famine...
Et que fait alors le FMI, doté, selon son directeur général, de «la meilleure équipe d’économistes qui soit au monde»? II explique : « Une des manières de résoudre les questions de famine, c’est d’augmenter le commerce international.» Le poète Léo Ferré écrivit un jour : «Pour que le désespoir même se vende, il ne reste qu’ô en trouver la formule. »
II semblerait qu’on l’ait trouvée.
SERGE HALIMI.

 (1) Lire Jean Ziegler, «Réfugiés de la faim», www.monde-diplomatique.fr/2008/03/ZIEGLER/15658

Article inéditMars 2008
Réfugiés de la faim
La nuit était noire, sans lune. Le vent soufflait à plus de 100 kilomètres à l’heure. Il faisait se lever des vagues de plus de 10 mètres qui, avec un fracas effroyable, s’abattaient sur la frêle embarcation de bois. Celle-ci était partie d’une crique de la côte de Mauritanie, dix jours auparavant, avec à son bord 101 réfugiés africains de la faim. Par un miracle inespéré, la tempête jeta la barque sur un récif de la plage d’El Medano, dans une petite île de l’archipel des Canaries. Au fond de la barque, les gardes civils espagnols trouvèrent les cadavres de trois adolescents et d’une femme, morts de faim et de soif.
La même nuit, quelques kilomètres plus loin sur la plage d’El Hierro, un autre rafiot s’échoua : à son bord, 60 hommes, 17 enfants et 7 femmes, spectres titubants à la limite de l’agonie (1).
A la même époque encore, mais en Méditerranée cette fois-ci, un autre drame se joue : à 150 kilomètres au sud de Malte, un avion d’observation de l’organisation Frontex repère un Zodiac surchargé de 53 passagers qui – probablement par suite d’une panne de moteur – dérive sur les flots agités. A bord du zodiac, les caméras de l’avion identifient des enfants en bas âge et des femmes. Revenu à sa base, à La Valette, le pilote en informe les autorités maltaises, qui refusent d’agir, prétextant que les naufragés dérivent dans la « zone de recherche et de secours libyenne ». La déléguée du Haut Commissariat des réfugiés des Nations unies Laura Boldini intervient, demandant aux Maltais de dépêcher un bateau de secours. Rien n’y fait. L’Europe ne bouge pas. On perd toute trace des naufragés.
Quelques semaines auparavant, une embarcation où se pressaient une centaine de réfugiés africains de la faim, tentant de gagner les Canaries, avait sombré dans les flots au large du Sénégal. Il y eut deux survivants (2).
Des milliers d’Africains, y compris des femmes et des enfants, campent devant les clôtures des enclaves espagnoles de Melilla et de Ceuta, dans le Rif aride. Sur injonction des commissaires de Bruxelles, les policiers marocains refoulent les Africains dans le Sahara (3). Sans provisions ni eau. Des centaines, peut-être des milliers d’entre eux périssent dans les rochers et les sables du désert (4).
Combien de jeunes Africains quittent leur pays au péril de leur vie pour tenter de gagner l’Europe ? On estime que, chaque année, quelque 2 millions de personnes essaient d’entrer illégalement sur le territoire de l’Union européenne et que, sur ce nombre, environ 2 000 périssent en Méditerranée, et autant dans les flots de l’Atlantique. Leur objectif est d’atteindre les îles Canaries à partir de la Mauritanie ou du Sénégal, ou de franchir le détroit de Gibraltar au départ du Maroc.
Selon le gouvernement espagnol, 47 685 migrants africains sont arrivés sur les côtes en 2006. Il faut y ajouter les 23 151 migrants qui ont débarqué sur les îles italiennes ou à Malte au départ de la Jamahiriya arabe libyenne ou de la Tunisie. D’autres essaient de gagner la Grèce en passant par la Turquie ou l’Egypte. Secrétaire général de la Fédération internationale des sociétés de la Croix-Rouge et du Croissant-Rouge, M. Markku Niskala commente : « Cette crise est complètement passée sous silence. Non seulement personne ne vient en aide à ces gens aux abois, mais il n’y a pas d’organisation qui établisse ne serait-ce que des statistiques rendant compte de cette tragédie quotidienne (5). »
Pour défendre l’Europe contre ces migrants, l’Union européenne a mis sur pied une organisation militaire semi-clandestine qui porte le nom de Frontex. Cette agence gère les « frontières extérieures de l’Europe ».
Elle dispose de navires rapides (et armés) d’interception en haute mer, d’hélicoptères de combat, d’une flotte d’avions de surveillance munis de caméras ultrasensibles et de vision nocturne, de radars, de satellites et de moyens sophistiqués de surveillance électronique à longue distance.
Frontex maintient aussi sur sol africain des « camps d’accueil » où sont parqués les réfugiés de la faim, qui viennent d’Afrique centrale, orientale ou australe, du Tchad, de la République démocratique du Congo, du Burundi, du Cameroun, de l’Erythrée, du Malawi, du Zimbabwe… Souvent, ils cheminent à travers le continent durant un ou deux ans, vivant d’expédients, traversant les frontières et tentant de s’approcher progressivement d’une côte. Ils sont alors interceptés par les agents de Frontex ou leurs auxiliaires locaux qui les empêchent d’atteindre les ports de la Méditerranée ou de l’Atlantique. Vu les versements considérables en espèces opérés par Frontex aux dirigeants africains, peu d’entre eux refusent l’installation de ces camps. L’Algérie sauve l’honneur. Le président Abdelaziz Bouteflika dit : « Nous refusons ces camps. Nous ne serons pas les geôliers de nos frères. »
Organiser la famine et criminaliser ceux qui la fuient
La fuite des Africains par la mer est favorisée par une circonstance particulière : la destruction rapide des communautés de pêcheurs sur les côtes atlantique et méditerranéenne du continent. Quelques chiffres.
Dans le monde, 35 millions de personnes vivent directement et exclusivement de la pêche, dont 9 millions en Afrique (6). Les poissons comptent pour 23,1 % de l’apport total de protéines animales en Asie, 19 % en Afrique ; 66 % de tous les poissons consommés sont pêchés en haute mer, 77 % en eaux intérieures ; l’élevage en aquaculture de poissons représente 27 % de la production mondiale. La gestion des stocks de poissons dont les déplacements s’effectuent tant à l’intérieur qu’à l’extérieur des zones économiques nationales revêt donc une importance vitale pour l’emploi et la sécurité alimentaire des populations concernées.
La plupart des Etats de l’Afrique subsaharienne sont surendettés. Ils vendent leurs droits de pêche à des entreprises industrielles du Japon, d’Europe, du Canada. Les bateaux-usines de ces dernières ravagent la richesse halieutique des communautés de pêcheurs jusque dans les eaux territoriales. Utilisant des filets à maillage étroit (interdits en principe), elles opèrent fréquemment en dehors des saisons où la pêche est autorisée. La plupart des gouvernements africains signataires de ces concessions ne possèdent pas de flotte de guerre. Ils n’ont aucun moyen pour faire respecter l’accord. La piraterie est reine. Les villages côtiers se meurent.
Les bateaux-usines trient les poissons, les transforment en surgelés, en farine ou en conserves, et expédient du bateau aux marchés. Exemple : la Guinée-Bissau, dont la zone économique abrite un formidable patrimoine halieutique. Aujourd’hui, pour survivre, les Bissagos, vieux peuple pêcheur, sont réduits à acheter sur le marché de Bissau – au prix fort – des conserves de poisson danoises, canadiennes, portugaises.
Plongés dans la misère, le désespoir, désarmés face aux prédateurs, les pêcheurs ruinés vendent à bas prix leurs barques à des passeurs mafieux ou s’improvisent passeurs eux-mêmes. Construites pour la pêche côtière dans les eaux territoriales, ces barques sont généralement inaptes à la navigation en haute mer.
Et encore… Un peu moins d’un milliard d’êtres humains vivent en Afrique. Entre 1972 et 2002, le nombre d’Africains gravement et en permanence sous-alimentés a augmenté de 81 à 203 millions. Les raisons sont multiples. La principale est due à la politique agricole commune (PAC) de l’Union européenne.
Les Etats industrialisés de l’Organisation de coopération et de développement économiques (OCDE) ont payé à leurs agriculteurs et éleveurs, en 2006, plus de 350 milliards de dollars au titre de subventions à la production et à l’exportation. L’Union européenne, en particulier, pratique le dumping agricole avec un cynisme sans faille. Résultat : la destruction systématique des agricultures vivrières africaines.
Prenons l’exemple de la Sandaga, le plus grand marché de biens de consommation courante de l’Afrique de l’Ouest. La Sandaga est un univers bruyant, coloré, odorant, merveilleux, situé au cœur de Dakar. On peut y acheter, selon les saisons, des légumes et des fruits portugais, français, espagnols, italiens, grecs, etc. – au tiers ou à la moitié du prix des produits autochtones équivalents.
Quelques kilomètres plus loin, sous un soleil brûlant, le paysan wolof, avec ses enfants, sa femme, travaille jusqu’à quinze heures par jour… et n’a pas la moindre chance d’acquérir un minimum vital décent.
Sur 52 pays africains, 37 sont des pays presque purement agricoles.
Peu d’êtres humains sur terre travaillent autant et dans des conditions aussi difficiles que les paysans wolof du Sénégal, bambara du Mali, mossi du Burkina ou bashi du Kivu. La politique du dumping agricole européen détruit leur vie et celle de leurs enfants.
Revenons à Frontex. L’hypocrisie des commissaires de Bruxelles est détestable : d’une part, ils organisent la famine en Afrique ; de l’autre, ils criminalisent les réfugiés de la faim.
Aminata Traoré résume la situation : « Les moyens humains, financiers et technologiques que l’Europe des Vingt-Cinq déploie contre les flux migratoires africains sont, en fait, ceux d’une guerre en bonne et due forme entre cette puissance mondiale et de jeunes Africains ruraux et urbains sans défense, dont les droits à l’éducation, à l’information économique, au travail et à l’alimentation sont bafoués dans leurs pays d’origine sous ajustement structurel. Victimes de décisions et de choix macroéconomiques dont ils ne sont nullement responsables, ils sont chassés, traqués et humiliés lorsqu’ils tentent de chercher une issue dans l’émigration. Les morts, les blessés et les handicapés des événements sanglants de Ceuta et de Melilla, en 2005, ainsi que les milliers de corps sans vie qui échouent tous les mois sur les plages de Mauritanie, des îles Canaries, de Lampedusa ou d’ailleurs, sont autant de naufragés de l’émigration forcée et criminalisée (7).  »
Jean Ziegler.
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Jean Ziegler
Ecrivain, professeur à l’université de Genève. Rapporteur spécial de la commission des droits de l’homme des Nations unies pour le droit à l’alimentation. Auteur de La Faim dans le monde expliquée à mon fils, Seuil, Paris, 2000.
(1) Cf. El País, Madrid, 13 mai 2007 ; la nuit est celle du 11 au 12 mai.
(2) Le Courrier, Genève, 10 décembre 2006.
(3) Le 28 septembre 2005, des soldats espagnols ont tué cinq jeunes Africains qui tentaient d’escalader la clôture électrifiée entourant l’enclave de Ceuta. Huit jours plus tard, six autres jeunes Noirs étaient abattus dans des circonstances similaires.
(4) Human Rights Watch, 13 octobre 2005.
(5) La Tribune de Genève, 14 décembre 2006. NDLR : voir cependant le travail réalisé sur cette question par United et Migreurop : « Des morts par milliers aux portes de l’Europe ».
(6) Ce chiffre exclut les personnes employées dans l’aquaculture. Cf. Organisation pour l’alimentation et l’agriculture (FAO), La situation mondiale des pêches et de l’aquaculture, Rome, 2007.
(7) Aminata Traoré, intervention au Forum social mondial, Nairobi, 20 janvier 2007.
Article inédit — mars 2008





Domenica, 01 giugno 2008