Mussolini e due morti sospette

La famiglia segreta del dittatore


di Simonetta Fiori (“la Repubblica”, 18 gennaio 2006)

Prima furono solo baci ardenti, lui le scriveva: «Ti ho nel sangue, mi hai nel sangue». Mademoiselle Ida lo incantava con quella sua "erre" da parigina, il gesto affettato da maîtresse de beauté, che poi voleva dire estetista, una delle prime a Milano. Lui era il direttore dell’Avanti!, modi bruschi ma gran seduttore; lei una sanguigna trentina in cerca di pubblicità per la sua maison. Boa di struzzo, sete cinesi, profumi, passione, lacrime. Solo pochi anni dopo lui avrebbe imprecato: «Toglietemela di torno!», mentre lei gli gridava, chissà se arrotando ancora la «erre»: «Vigliacco, porco, assassino».

Fin qui sarebbe una storia come tante altre, se il protagonista non si chiamasse Benito Mussolini, se nel frattempo non fosse nato dalla coppia l’ innocente Benito Albino, e se madre e figlio non fossero stati condannati entrambi a nascondere in un manicomio le loro esistenze così ingombranti per il capo del fascismo. Un romanzo d’amore e morte, miseria e nobiltà, un romanzo anche "politico", che da iniziale pochade sullo sfondo della Belle Epoque vira in tragedia nell’Italia littoria cloroformizzata dal Dux: tra il 1937 e il ’42 sia Ida Dalser che il figlio Benitino, perfettamente sani di mente, muoiono reclusi in due differenti ospedali psichiatrici. Con la complicità d’uno stuolo impressionante di medici, infermieri, direttori di ospedali, questori, prefetti, commissari di polizia, segretari di fiducia, non esitanti a risolvere un caso politico in un caso clinico contraffatto. Un doppio delitto di regime — questo è il sospetto — rimasto avvolto per oltre sessant’anni da un velo di reticenze.

La vera storia de Il figlio segreto del Duce viene ora ricostruita nella sua integrità da Alfredo Pieroni, il primo a occuparsene oltre cinquant’anni fa su sollecitazione di Luigi Barzini (Garzanti, pagg. 139, euro 14,00). Fu lui a scovare a Sopramonte, vicino a Trento, a casa di Adele Dalser, sorella di Ida, le lettere segrete di Mussolini nascoste nella pancia d’un pappagallo impagliato. Carte del 1914 e del ’15 che dimostravano complicità politica («I miei nemici cominciano a tremare»), sostegno economico («Ti lascio un po’ di mitraglia», ossia soldi) e soprattutto coinvolgimento sentimentale («Anch’io ti amo, mia cara Ida, quantunque non abbia potuto dartene una prova»). Il Duce negli anni Trenta aveva tentato in tutti i modi di distruggerle, ma i Dalser, solida famiglia di montanari, riuscirono a conservare le lettere. Grazie a questi documenti, a moltissime testimonianze, alle fondamentali carte trovate da Marco Zeni (autore del recente La moglie di Mussolini, Erre Effe edizioni) e alle ricerche di Fabrizio Laurenti (curatore nel 2005 con Gianfranco Norelli d’un documentario per Raitre), Pieroni fa luce meticolosamente su una pagina non secondaria del fascismo, sottraendola al registro sessual-sentimentale cui è stata spesso appiattita. Una tragica storia collettiva nella quale — più che il cinismo estremo del Duce o lo zelo di suo fratello Arnaldo — colpisce il servilismo dei sudditi, l’otorinolaringoiatra che certifica la malattia mentale d’una donna sana, il direttore psichiatrico che l’asseconda autorizzandone il ricovero, le autorità trentine che concorrono alla reclusione di un’innocente. Cronache minute di regime che, ricostruite organicamente, restituiscono il volto cupo della dittatura.

L’incipit della storia non si discosta da altre dello stesso genere, Mussolini amante bugiardo che nel 1914 — pur essendo già legato alla cara «Chiletta», la sua Rachele, con cui da quattro anni condivide la figlia Edda — asseconda nella bella e appassionata Ida, trentaquattrenne titolare d’un affermato salone di bellezza a Milano, improvvidi progetti nuziali. Sogno che secondo alcuni si sarebbe anche avverato nella parrocchia di Sopramonte, dove però le prove sarebbero state cancellate. Un’intensa vita da bigamo travolge in quegli anni Mussolini, tra le pose estetizzanti di Ida e l’amore schietto di Chiletta. Donne che amano troppo, se è vero che l’una, Chiletta, rinuncia al cibo per il suo uomo e l’altra, l’amante estetista, non esita a vendere la propria maison per finanziare i nuovi progetti di Benito, cacciato dall’Avanti!e alla disperata ricerca di fondi. E lui? Inutile dirlo, placido come un babà conteso. Quando nei primi mesi del 1915 Ida capisce in quale brutta storia si sia cacciata, lui non esita a rinfrancarla: «Carissima, a mezzanotte, mentre affrettavo il mio lavoro per passare qualche ora con te, non sei venuta. Io comprendo il tuo stato d’animo, ma ti prego, ardentemente ti prego, di non precipitare le cose. In questi giorni trovati un appartamentino e io troverò il danaro per pagarlo. Sarai ancora bella, felice, adorabile». Bella, felice e adorabile, Ida l’accoglierà ancora nell’alcova milanese. Dopo nove mesi nasce il piccolo Benitino.

È l’11 novembre del 1915. Intanto Mussolini è stato richiamato in guerra e decide di intestare a lei il sussidio militare cui ha diritto: un documento del sindaco di Milano attesta «che la famiglia del militare Mussolini è composta dalla moglie Ida Dalser e da figli numero uno», forse una bugia detta da Benito per mantenere finanziariamente Ida, gravida e sola. Il 18 dicembre lei lo va a trovare all’ospedale di Treviglio, dove il bersagliere Mussolini è ricoverato per «itero catarrale»: lui le promette di sistemare definitivamente le cose. In realtà le cose le aveva già sistemate, ma non secondo le aspettative di Ida: solo ventiquattr’ore prima era stato contratto il matrimonio civile con la sua Chiletta.

«Vigliacco, porco, assassino, traditore, vieni giù se hai coraggio!»: siamo alla sequenza successiva. Non è più tempo di pose dannunziane. Cesare Rossi, illustre collaboratore di Benito, ricorda entrambi al Popolo d’Italia, di cui Mussolini era direttore: Ida pugnace in cortile, il braccio alzato e il pupetto in braccio; lui alla finestra, rivoltella alla mano e fior di bestemmie. Quel che resta del loro rapporto finisce negli studi degli avvocati, in un groviglio di veleni, rancori e accuse reciproche. E Benitino? Riconosciuto legalmente da Mussolini, l’11 gennaio del 1916 acquista il cognome paterno. E l’inizio della sua condanna a morte.

Il fatto è che Ida non si rassegna alla fine di quell’amore. Ma come? Aveva sacrificato la sua maison per lui, l’aveva amato selvaggiamente, ed eccola scaricata come una donnetta di poco conto. S’agita, s’affanna, si fa vedere nelle occasioni pubbliche, va da Rachele, dà una carezza a Edda, talvolta si spaccia per la signora Mussolini. Lui non ne può più. «Vedi tu se riesci a togliermela di torno», scrive nel 1919 al fratello Arnaldo. Ma non gli basta. «La persona di cui mi parli è una pericolosa squilibrata e criminale ricattatrice. Falla sorvegliare e cacciala in galera, che è il suo posto naturale»: così s’appella al funzionario romagnolo che opera nella questura di Trento. E il 15 febbraio del 1920: a pronunciare quelle parole è un leader temibile, ma non ancora il Duce. Figurarsi dopo.

Impenetrabile quel che nel frattempo s’agita nell’animo di Ida. Potrebbe uscire di scena, accontentarsi dei soldi promessi — centomila lire predisposti in banca da Arnaldo Mussolini — vivere appartata con Benito Albino. Non gli manca il sostegno della sua famiglia, in particolare del cognato bancario, che a Sopramonte si prende cura di lei e del nipote. Ma è una donna innamorata, anche un po’ esaltata. Innamorata del tiranno, che non solo non la vuole più ma la vive come un incubo infernale. Una brutta storia, la cui soluzione è nella testa del questore di Trento, il primo d’una nutrita schiera di servitori zelanti: perché non rinchiuderla in manicomio?

I1 19 giugno del 1926 scatta la trappola. Arriva a Trento il ministro della Pubblica Istruzione Pietro Fedele, che Ida considera un "amico", testimone del suo antico amore. Come era accaduto altre volte, sceglie la veste più elegante, s’arrampica sui tacchi, un po’ di belletto al volto, e via a ricordare il tempo che fu. Ma lasciamo la parola a Ida, che così narra il suo "arresto" in una lettera che non sarà mai spedita: «Al mio apparire fui presa, picchiata, legata, narcotizzata, beffeggiata, gettata nell’auto col bavaglio alla bocca fino alla questura. Colà, dopo avermi perquisita e torturata nei modi più volgari, mi hanno gettata per terra stretta fra una camicia di forza...». L’aspetta il ricovero nell’ospedale psichiatrico di Pergine. Un otorinolaringoiatra, il dottor Tullio Banfichi, specialista in naso e gola e soprattutto centurione della milizia, non esita a diagnosticarne la pazzia. Ida ha 46 anni. Dal manicomio non sarebbe più uscita: undici anni tra malati di mente, urla deliranti, cimici, celle "puzzolentissime", camicie di forza. E un totale isolamento: le autorità le impediscono di ricevere lettere dai famigliari. E di spedirne di sue.

Però Ida non rinuncia a scrivere. Missive limpide, commoventi, talvolta premonitrici. E sono queste preziose lettere, trovate in modo avventuroso da Pieroni, a restituire grandezza tragica a un personaggio finora sfigurato a commediante.

Con grande sobrietà Ida si rivolge innanzitutto al dittatore, dibattuta tra la crudeltà dei fatti e l’illusione che Mussolini possa esserne estraneo: «Tu non sai nulla, tu non hai mai dato alcun ordine e con questo certissimo pensiero sfiderò tutti». Gli chiede di farla uscire da quel «putridissimo manicomio, dove non hai alcun diritto di farmi seppellire». Lo implora di non «fare insultare la madre di tuo figlio, almeno per la pace della tua coscienza». E ancora: «Ascolta Benito il grido della mia coscienza, ci siamo amati, appassionata

mente adorati, siamo uniti nel vincolo del sangue». Non gli nega il perdono, «perché sei il padre di mio figlio». E profetizza: «Non farti potente della tua posizione. Domani potrebbe suonare l’ora dell’espiazione orribile, implacabile! Tutti ti abbandoneranno». In chiusura: «Va’ là Duce che sei un pover’uomo». Altro che pazza.

A questi seguiranno centinaia di altri messaggi, destinati avarie autorità morali, perfino al Pontefice e al Re. Carte che non usciranno mai dal manicomio. «Sono una povera morta stesa nel suo sudario», scrive Ida già consapevole del suo destino. L’epilogo il 12 dicembre del 1937: dopo una penosa odissea muore nell’ospedale psichiatrico di San Clemente, a Venezia. Sfinita più dal dolore psicologico più che da quello fisico.

Estinta la madre, ora tocca a Benitino. Una vicenda dickensiana, bagnata in salsa littoria. Già nel 1932 papà Mussolini tenta di cambiargli il cognome in Bernardi, dal nome del tutore cui era stato affidato con la forza. Tra padre e figlio non c’è rapporto, l’unico della famiglia a interessarsene è lo zio Arnaldo. Benitino è tutt’altro che antipatico, spigliato, divertente, lo sguardo spiritato di impronta paterna, ma con quell’assillo d’esser figlio del Duce. Il problema è che non lo nasconde, ne parla coni compagni, sia in collegio che all’Istituto tecnico di Trento. C’è rancore, ma anche la volontà di liberarsi dei suoi fantasmi. Per il dittatore è una minaccia costante. I suoi tutori decidono di mandarlo in marina: nell’ottobre del 1934 s’imbarca sul Conte Rosso, destinazione Shanghai. Ma anche a bordo non perde quel brutto vizio di parlare di sé. Ha 18 anni, gli amici lo ricordano gioviale, di buona compagnia, anche se tormentato dal consueto rovello. Il comandante Bruno Brivonesi ne teme le intemperanze e in buona fede decide di rimpatriarlo. Il destino si compie. Anche Benitino viene ricoverato in un manicomio, a Mombello, alle porte di Milano: «matto» per ordini superiori. Lo spediscono nel reparto "agitati", tra scarafaggi e pidocchi. Dopo pochi mesi, visto che agitato non è, viene promosso tra i «semiagitati». Le diagnosi parlano di «delirio di persecuzione»: più che follia, sana consapevolezza. Nel 1942, per cause mai chiarite, Benitino muore. Non ha ancora compiuto 27 anni. La cartella clinica, trovata dal giornalista trentino Marco Zeni, indica anche il giorno preciso della morte: il 25 luglio. La data ha il sapore della profezia: il padre sarebbe stato destituito l’anno dopo.

E Mussolini? Come nel 1937, alla morte di Ida, anche ora viene colto da un’ulcera gastrica. Di più non sappiamo. Il duplice delitto di regime—così almeno appare — rimarrà senza colpevoli né prove. Ma il libro di Pieroni, pur senza emettere sentenze, aiuta il lettore a formularne una. Non tra le più indulgenti.



Lunedì, 27 febbraio 2006