Uccelli sull’Italia

di Paolo Rumiz ("La Repubblica", 15 settembre 2003)

TOLMEZZO - Per gli uomini non c’è più frontiera sulle Alpi. Niente sbarre, niente passaporti, quasi non sai di cambiare stato. Ma per gli animali è un’altra storia. Per loro il confine rimane. Sanno perfettamente dove comincia il Bel Paese. Specie i più piccoli e indifesi: i volatili. Cambiano comportamento, rivelano all’istante la presenza degli italiani. «Sentono» il popolo delle doppiette, dei segugi,. della maleducazione ambientale. Denunciano inquinamento, uccellagione, la tradizione del vischio e delle fionde. Ci fotografano impietosamente. Dicono che qui cambia mondo: finisce il rispetto,la caccia di selezione, l’ecologia. E cominciano l’anarchia il bracconaggio la rapina e l’abbandono del territorio. Un’altra cultura.

Così accade una cosa molto semplice. Il passero straniero è più socievole di quello «padano». Un rapace austriaco vola più basso di un esemplare della stessa specie in casa nostra. Una ghiandaia d’Oltralpe lancia più raramente il suo grido. Gli esempi sono infiniti, si comincia a misurarne la portata solo ora. Per capire, basta venire qui, nell’ultimo Nordest, in Carnia. Partire dalle valli austriache della Drava e del Gail lungo l’antica via «Julia Augusta», scavalcare l’ex frontiera sul Passo di Monte Croce, camminare sui prati attorno a Tolmezzo o sull’enorme piano inclinato di ghiaie sotto il monte Amariana. Nella fauna aumenta lo stato d’allerta, la paura diventa epidemica. Una silenziosa parola d’ordine contagia l’intero parco aereo, modificandone i comportamenti. La distanza minima di fuga, l’insistenza dei richiami, l’altezza e l’assetto di volo. Persino la posizione del corpo a terra.

Pioviggina, un falco fa larghi giri nel cielo grigio di Tolmezzo, veleggia in silenzio a cento metri di quota. «In pochi chilometri qui cambia tutto», racconta Gianluca Rassati, un giovane zoologo che da vent’anni osserva i cieli di frontiera raccogliendo dati su queste trasformazioni. «In una situazione analoga - spiega -lo stesso falco in Austria volteggerebbe sessanta metri più sotto». Cita infiniti esempi: «Qui la pernice bianca, pacifica come una gallina, non si fa più avvicinare. Il picchio rosso si infratta, per vederne uno a distanza ravvicinata devi avere una bella fortuna. La ghiandaia e il merlo lanciano segnali d’allarme molto più numerosi. In presenza dell’uomo il nostro passero si abbassa per mimetizzarsi. Il gheppio non lo vedi quasi più, mentre in Austria sta sui pali della luce».

Tramonta sul Tagliamento, fra Amaro e Cavazzo. Per gli uccelli, quei prati a due passi dall’autostrada per Tarvisio sono un provvidenziale aeroporto. La posizione è baricentrica, lo vedi bene ora che grandi e piccoli migratori cominciano a planare dalle valli: But, Degano, Fella, Lumiei. Un formidabile corridoio biologico con un centinaio di specie in transito: peppole, fringuelli, zigoli gialli, pìspole, stiaccini. La barriera delle Alpi è minima, il traffico è alto. Ma la barriera culturale è implacabile. L’Austria è un altro pianeta. Vi regna la caccia regolamentata, senza segugi e concentrata sui grandi mammiferi. Il rispetto della foresta è materia di studio scolastico. Una differenza di atteggiamento che scava una trincea più forte della politica, delle guerre, delle unificazioni europee.

È qui che bisogna venire. Non sul Brennero, dove la cultura austroungarica è forte anche a Sud della frontiera, in Alto Adige. Non sui monti da Tarvisio a Trieste, che rimasero sotto l’Aquila bicipite fino al 1918 e conservano una tradizione animalista. Non sui confini lombardi dove la cultura italiana entra in profondità nel Canton Ticino, Svizzera. Non sulle Alpi occidentali, dove il differenziale di zoofilia è meno forte. Qui, tra gli «highlanders» del Friuli, è un’altra cosa. Il confine politico e quello culturale coincidono. Il salto è impressionante. Anche a livello di inquinamento. Da noi la rondine non c’è più, uccisa dagli insetti al veleno. In Carinzia e in Stiria popola ancora i tetti e i fili della luce.

Passa una poiana sopra i frutteti, modifica bruscamente l’assetto di volo, poi cambia rotta. In Austria non succede. Cosa la spaventa? Oltre i campi di granturco liofilizzati dalla grande sete, oltre una barriera di acacie, a duecento metri, tuonano i camion sullo stradone, ma non è il traffico che l’ha disturbata. «Le bestie - spiega Rassati - temono la bestia per eccellenza, l’uomo. Noi li pestiamo da secoli, e loro hanno imparato a difendersi. Guai se non fosse così, sarebbero già estinti». Non conta la wilderness. L’Austria è meno selvaggia dell’Italia. Eppure, gli animali restano. Una lince può farsi la tana a cento metri da un abitato. Lo si è visto poco fa in Svizzera, l’animale si era sistemato fuori da un albergo nel Canton Grigioni. Quello che conta è l’atteggiamento degli uomini. È solo quello che mette l’habitat sotto stress.

I grandi migratori, come le oche selvatiche o le anatre, capiscono al volo che aria tira dal comportamento dei cugini stanziali. Quando arrivano dal Grande Nord e planano sulla laguna di Grado e Marano, tendono a imitare dopo pochi minuti le reazioni d’allarme delle specie indigene. Se c’è quiete, si tranquillizzano, altrimenti stanno in allerta. Altri non ce la fanno: come il placido Beccofrusone, simile ad un passero cicciotto e marrone con una cresta sul capo. Arrivava dalla Russia negli inverni più duri e i cacciatori in Friuli ne facevano strage. Oggi non viene più, visto che fa caldo anche oltre il Circolo Polare.

Tolmezzo, pioggia, serata in osteria. I vecchi cacciatori raccontano che altre specie, come le beccacce, hanno quasi smesso di migrare. Perché sono gli uomini a migrare prima di loro. Vanno al Nord, per farle fuori lungo la strada. «Le superstiti - spiega l’avvocato Checco Marcolini, bravo battitore di queste montagne - sono irriconoscibili rispetto a quelle di 20 anni fa, che si lasciavano avvicinare dai cani». Oggi la situazione è migliorata un po’, non vedi più i massacri degli anni ’50-’60. Ma la paura è rimasta.

Da noi non se ne accorge nessuno, salvo pochi. «Non vediamo più la natura» spiega Gianluca. «Non vediamo le aquile, non vediamo i grifoni nel nostro cielo. Figurarsi gli animali più piccoli». E racconta che tempo fa, durante una conferenza in cui era relatore, nessuno, tranne lui, vide uno scorpione traversare la sala. «Non dissi nulla per farlo vivere, ma anche per misurare quanto eravamo ciechi». Per questo Rassati si è appassionato ai micro-segnali della fauna. Gli dicono un sacco di cose. Dalle voci degli uccelli capisce se nel bosco c’è un intruso, uomo o altro animale. Per questo nella foresta ci va spesso da solo, di notte. «Come i matti», aggiunge, ridendo di se stesso.



Marted́, 21 ottobre 2003