GUERRE DI RELIGIONE
Trent’anni fa i paracadutisti inglesi spararono su una folla di cattolici disarmati.

Articoli e link per approfondire una vicenda che fa ancora discutere e suscita ancora rabbia e odio


Il cadavere di Barney McGuilgan, l'uomo che oggi il ''soldato F'' ammette di avere ucciso

Il cadavere di Barney McGuilgan, l’uomo che oggi il ’’soldato F’’ ammette di avere ucciso


BLOODY SUNDAY
http://www.informasiti.com/chat/sunday.htm

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Remeber Bloody Sunday
(In inglese)
Key Events - ’Bloody Sunday’,
Derry 30 January 1972 (In Inglese)
SUNDAY, BLOODY SUNDAY
(In Inglese)
Trent’anni fa il “Bloody Sunday”,
una ferita non ancora rimarginata
"Trent’anni dal Bloody Sunday, il nostro 11 settembre" (IL NUOVO)
BLOODY SUNDAY, Il film
SUNDAY BLOODY SUNDAY
(La canzone)

Corriere della Sera, 30 Gennaio 2002
GUERRE DI RELIGIONE Trent’anni fa i paracadutisti inglesi
spararono su una folla di cattolici disarmati.
Un caso ancora aperto su cui si moltiplicano
i reportage al cinema, in tv e nelle librerie.
Ricorda con rabbia. Quella domenica di sangue a Derry
L’odio non è ancora spento, ma le truppe di sua Maestà
oggi difendono le bambine dagli insulti dei protestanti


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
LONDRA - All’inizio del 1972 l’esercito britannico aveva perso il controllo di Londonderry, la città dell’Irlanda del Nord affacciata sull’Atlantico, dove i cattolici avevano creato una «libera» Derry, come si chiamava prima che le sue terre divenissero proprietà, nel diciassettesimo secolo, della City di Londra. Ogni pomeriggio bande di ragazzi si riunivano all’«aggro corner», l’angolo degli arrabbiati all’ingresso del quartiere di Bogside, e lanciavano alle pattuglie britanniche tutto ciò che poteva far male: pietre, sbarre di ferro, bottiglie molotov, bombe con i chiodi. I teppisti, com’ erano chiamati dagli inglesi, si rifugiavano dietro le barricate alzate dall’Ira, l’esercito repubblicano clandestino, anzi dall’ala più dura, i Provos,> che pretendevano l’unificazione delle contee dell’Ulster alla Repubblica d’ Irlanda. Vicecomandante dell’Ira, a Bogside, era un apprendista macellaio di 21 anni, Martin McGuinness, responsabile della disciplina (spesso mantenuta con una revolverata alle gambe, sbrigativamente), che è oggi ministro dell’ Educazione, per conto del Sinn Fein, nel governo della provincia, a Belfast: a Derry, racconta, l’Ira aveva pochi volontari, «ma migliaia di persone erano con noi». A Londra, però, il primo ministro Ted Heath era deciso a riportare a Londonderry «la legge di sua Maestà»: l’ordine alle truppe era quello di sgomberare l’«aggro corner», catturare i più agitati tra i teppisti e internarli senza processo, come si faceva da qualche mese.
Opera delicata, se è un’intera popolazione che ribolle. Invece Londra mandò una compagnia del Reggimento paracadutisti che non erano mai stati impiegati per l’ordine pubblico, armati d’un fucile ad alta velocità, calibro 7,62, che sparava pallottole capaci di bucare una lastra di ferro. La data scelta, inspiegabilmente, fu quella del 30 gennaio 1972, una domenica, quando invece dei soliti teppisti c’era da aspettarsi una gran folla, perché era stata convocata una marcia per i diritti civili. McGuinness, che era andato a dormire all’alba dopo una notte di ronda, era d’accordo con il suo comandante: «L’Ira non doveva affrontare con le armi i soldati» e portò l’ ordine in ogni angolo, tanto che lo sapevano pure i britannici. Eppure il generale-maggiore Robert Ford ammette oggi che, contrariamente alle regole d ’ingaggio precedenti, aveva dato disposizione perché i soldati «sparassero a isolati capibanda». Così quella «bella giornata», in cui «l’umore della manifestazione era allegro», covava una giornata di sangue che avrebbe segnato il nostro tempo. Perché la domenica di trent’anni fa sia diventata il «Bloody Sunday», che nutrirà di odio un’intera stagione storica, resta tutt’oggi un mistero. Chi sparò per primo? La commissione Widgery, subito varata da Londra, disse che i colpi erano venuti dalla folla. Non era vero e quel verdetto fu ritrattato. Allora si disse che dall’«aggro corner» erano state lanciate bombe coi chiodi, ma pure questa tesi fu subito smentita. Impazienti, intanto, i parà avevano già sparato tre caricatori, ferendo un ragazzo di 15 anni e un uomo di 59. Poi scattò l’operazione degli arresti: McGuinness, che s’era ritirato dalle prime linee per timore d’essere preso e internato («non avevo avuto la sensazione che stesse per accadere qualcosa di terribilmente grave»), sentì gli spari e vide «gente che scappava dappertutto». Fu una carneficina: Paddy Doherty, colpito ai glutei mentre fuggiva, fu soccorso da Barney McGuigan, un pittore disoccupato di 41 anni, che sventolava un fazzoletto bianco: anche lui fu ferito alla schiena, a morte. Cinque dei tredici cattolici uccisi erano stati colpiti alle spalle e in dieci minuti di fuoco altri quattordici innocenti, disarmati come Peggy Deery, una vedova di 38 anni, con 14 figli, colpita alla coscia mentre guardava i paracadutisti che espugnavano Bogside, rimasero feriti a terra, sanguinanti, senza un perché. Politicamente, il Bloody Sunday fece da catalizzatore al peggio che si preparava. A Londra, provocò lo scioglimento dell’assemblea di Belfast e il governo diretto da parte di Westminster, a Dublino l’incendio dell’ ambasciata britannica, in Irlanda del Nord un’ondata di adesioni all’Ira, perché all’occupazione delle truppe britanniche i giovani cattolici si sentirono chiamati a rispondere col terrore. Nacque così la lunga guerra civile, che superò «l’accettabile livello di violenza» che un ipocrita ministro tollerava: in Irlanda del Nord innescò l’esplosiva mescolanza di vittimismo e orrore che segnerà anche i protestanti. L’umiliazione del Bloody Sunday autorizzerà i terroristi cattolici (repubblicani) a versare sangue britannico, mentre i lealisti (unionisti) invocheranno le proprie vittime, come quelle dell’attentato di Enniskillen, per infliggere mostruosità. Un fanatismo che porterà allo sciopero della fame, suicida, di Bobby Sands. E nel resto d’Europa, dove la rudimentale lotta di classe dell’ Ira faceva presa sul terreno del Sessantotto, la violenza dei cattolici trovò indulgenza: non era simile al terrorismo basco che combatteva l’odiosa dittatura franchista al crepuscolo? Ora tutto ciò è storia, dal 1972 è passata una generazione: fa nostalgia il ritornello degli U2, «Sunday Bloody Sunday», e le parole scritte a caldo da John Lennon, «Il grido di tredici martiri riempì l’aria della Libera Derry», sono ormai impolverate. Eppure per il trentennale escono nuovi libri, se ne ristampano di vecchi, si producono film e inchieste tv, si riaprono piaghe che parevano cicatrizzate. La situazione è paradossale: dall’accordo del Venerdì Santo, firmato nell’ aprile 1998 da unionisti protestanti e repubblicani cattolici sotto l’occhio di Londra e Dublino, in Irlanda del Nord c’è la pace: i «troubles», come sono chiamati, sono ufficialmente finiti. Ma il più grave fatto di sangue del trentennio, la strage di Omagh in cui 29 civili furono massacrati da una bomba posta dai nuovi duri dell’Ira (c’è sempre chi non accetta compromessi e perciò ammazza), è avvenuto a pace già firmata, nell’agosto 1998. E se la gente chiede d’istituire, sull’esempio di quanto si fece in Sud Africa alla fine dell’apartheid, una «commissione verità» dove le confessioni valgano come espiazione, fa perfino fatica ad andare avanti l’inchiesta di Lord Saville sul Bloody Sunday: alcuni, come l’ufficiale Robert Ford, hanno ammesso il loro ruolo (e dal memoriale di Martin McGuinness abbiamo tratto citazioni), ma ancora i paras tacciono, e se parleranno si nasconderanno dietro l’anonimato. Perciò, come scrive Marc Muholland in un libro appena pubblicato, «The Longest War», il processo di pace sembra la prosecuzione della guerra con altri mezzi. Se è così, chi sta vincendo? In apparenza l’Ira, deponendo le armi prima di ottenere l’unificazione dell’Ulster alla Repubblica d’Irlanda (e perfino distruggendo, simbolicamente, un arsenale), ammette la propria sconfitta. Ma il Sinn Fein, suo volto pubblico, non è mai stato così forte: è diventato il primo partito dei cattolici in Irlanda del Nord, ha rappresentanti al Parlamento di Dublino e proprio pochi giorni fa i suoi capi, Gerry Adams e Martin McGuinness, sono entrati a Westminster, dove potrebbero sedere come deputati: gli irriducibili di trent’anni fa sono onnipresenti nelle isole britanniche. I protestanti, invece, sono disorientati: abituati a intendere la politica come antiguerriglia, non si sanno adattare al confronto pacifico. Il rancore emerso nel quartiere di Ardoyne, a Belfast, dove gli unionisti insultano le bambine cattoliche che vanno alla scuola Holy Cross, ne è la prova. E per contrappasso le truppe britanniche, che trent’anni fa spararono al Bloody Sunday, oggi proteggono le scolarette dalle bionde treccine, perché non piangano.

Bloody Sunday – Svolta al processo sulla strage di Derry
di Don Mullan ("la Repubblica", 18 ottobre 2003)

Ho ancora nelle orecchie il rantolo di Michael Kelly nel momento in cui il proiettile del soldato F gli perforò l’addome. Riempì l’aria di violenta emozione e di incredulità. Cadde ad appena mezzo metro da me, alla mia sinistra, e i gemiti della sua agonia si fecero di secondo in secondo più deboli. Insieme ad un gruppetto di altri accanto alla barricata di calcinacci guardai a nord lungo Rossville Street verso la direzione da cui proveniva lo sparo. Il soldato F era in mezzo ad un gruppo di paracadutisti che si ammassavano dietro il muro di un vicolo, i fucili puntati nella nostra direzione.
Rossville Street, arteria principale nel cuore del famoso quartiere di Bogside a Derry, risuonò dei colpi secchi di armi ad alta velocità. Dalla barricata sbuffò polvere e le urla di altri alla mia destra mi riempirono di terrore. Sapevo che anche loro erano stati colpiti.
All’improvviso un proiettile spaccò un mattone in alto sul timpano di Glenfada Park. Esplose come un petardo schizzando schegge di muro in tutte le direzioni. Mi fece tornare in me. Ero in pericolo di vita e mi misi a correre. Ero un ragazzo di 15 anni e quella la mia prima marcia per i diritti civili.
Dopo aver lasciato la barricata mi si fece il vuoto nella mente. Ci sono tre o quattro minuti, forse più, di cui tutto è stato cancellato. Non ho la minima idea di come riuscii a fuggire.
Quella sera, pigiati in famiglia intorno ai nostri teleschermi in bianco e nero apprendemmo che tredici persone erano state uccise da colpi d’arma da fuoco e quattordici ferite. II reggimento paracadutisti, fiore all’occhiello dell’esercito britannico, era stato sguinzagliato contro dimostranti per i diritti civili disarmati e in maggioranza cattolici con conseguenze inumane e letali. I testimoni oculari, me incluso, non avevano dubbi: quelli che avevamo visto cadere sotto i colpi, come Michael Kelly, erano disarmati ed erano stati uccisi o feriti senza motivo.
I più vennero colpiti mentre cercavano di scappare, molti alle spalle. Ma senza dubbio una delle morti più toccanti fu l’omicidio del quarantunenne padre di sei figli Bernard McGuigan. Si era rifugiato all’estremità meridionale del blocco i dei Rossville Flats con un gruppetto di dimostranti. Non seppe resistere alle invocazioni d’aiuto di un uomo ferito e morente, Patrick Doherty. Incurante del rischio, McGuigan lentamente si fece strada verso Doherty, agitando un fazzoletto. Non lo raggiunse mai. Una forte detonazione proveniente dall’estremità sudorientale di Glenfada Park lo fece cadere. Per l’orrore degli astanti già atterriti il sangue sgorgava come da un rubinetto aperto da un raccapricciante foro sopra il suo occhio destro.
Il giorno seguente non dimenticherò mai di aver trovato il nostro striscione blu e bianco trasformato nei colori dell’Union Jack dal sangue di McGuigan. Sopra lo striscione macchiato di sangue c’era un mattone e sopra il mattone una scatola aperta di fiammiferi con l’effigie della pastorella BoPeep. Qualcuno ci aveva messo dentro una palpebra umana con tanto di ciglia. Era orgogliosa opera dei soldato F. Quella scena, più di ogni altra nella mia vita, pose fine per sempre a qualunque possibile rivendicazione che i britannici possano avanzare sulla mia anima. lo sono irlandese.
All’epoca del Bloody Sunday vivevamo la nostra infanzia politica e non capivamo ancora il potere della prima pagina. I media locali nazionali e internazionali ricevettero l’informazione che al loro ingresso nel Bogside i paracadutisti si erano trovati sotto una grandinata di bombe e proiettili. I soldati, secondo la tesi sostenuta dal governo e dall’esercito britannico, avevano risposto al fuoco per legittima difesa, mirando a uomini armati di fucili e bombe. Un tribunale d’inchiesta convocato su due piedi e presieduto dal Lord Widgery, Presidente della Corte Suprema di Inghilterra e Galles, confermò la versione dei fatti fornita dall’esercito. In realtà nel giro di dieci settimane Lord Widgery dichiarò gli innocenti colpevoli e i colpevoli innocenti. Il Bloody Sunday e il Tribunale Widgery erano destinati a proiettare una lunga ombra sull’attuale conflitto irlandese. Molti giovani uomini e donne giunsero alla conclusione che la Giustizia Britannica era un’illusione. Dopo essere stati testimoni di un omicidio «un omicidio puro e semplice» per dirla con le parole del coroner, assistettero all’omicidio della verità per mano di Lord Widgery. Era troppo da digerire. Così per vent’anni il Bloody Sunday contribuì a reclutare volontari motivati per l’Ira.
Quello che l’establishment britannico non si aspettava fu la forza di carattere e l’insaziabile determinazione delle famiglie dei morti e dei feriti. Questi comuni cittadini non desistettero mai dalla convinzione che un giorno la memoria dei loro cari sarebbe stata assolta da ogni colpa e la loro innocenza dichiarata al mondo intero.
La settimana scorsa in seno al Tribunale d’inchiesta sul Bloody Sunday a Londra le famiglie dei defunti, i feriti e i testimoni come me si sono trovati faccia a faccia con il soldato F per la prima volta dopo trent’anni. Era tozzo, stempiato niente a che vedere col feroce bulldog del Bloody Sunday.
Alla fine ha confessato di aver sparato e ucciso Barney McGuigan oltre ad almeno altri tre civili disarmati. Ferì inoltre almeno altre tre persone. Ha mentito, dichiarando che erano armati con bombe molotov e armi. Clarke, pubblica accusa, ha informato il Soldato F che per le deposizioni rese avrebbe potuto essere considerato colpevole del reato di falsa testimonianza. Il presidente Lord Saville lo ha congedato con freddezza. Il soldato F ha lasciato l’aula tremebondo e angustiato. Come il fantasma di Banco nel Machbeth di Shakespeare, le anime inquiete dei morti del Bloody Sunday sono tornate a tormentarlo. «Via, maledetta macchia!» Ma la macchia è indelebile e il soldato F potrebbe ancora affrontare il carcere.

Traduzione di Ersilia Benghi

Un giorno di sangue
di Joseph O’Connor
Come lo scrittore irlandese visse quei fatti accaduti 30 anni fa
("la Repubblica", 18 ottobre 2003)

Era una domenica pomeriggio del 1972. All’epoca dei fatti avevo otto anni e mezzo, ma li ricordo ancora, in bianco e nero. Mia madre e io eravamo da un vicino di casa nella quiete di un quartiere residenziale della nostra città, Dublino. Eravamo fortunati a trovarci in un posto così tranquillo. Altri in Irlanda non lo furono. L’atmosfera era festosa, densa di risate impertinenti. Era la festa di compleanno di uno dei bimbi dei vicini. Avevamo fatto dei giochi. C’erano torta e limonata. Era uno di quei pomeriggi che tanto piacciono ai bambini. Poi uno degli adulti disse che voleva accendere la televisione per vedere il notiziario.
Era un televisore nuovo, non perfettamente sintonizzato. Le immagini, quando giunsero, erano tremolanti e in bianco e nero. Ricordo i volti, così atterriti, urlanti. Accanto a me qualcuno nella stanza scoppiò in una risata nervosa; era troppo presto per capire che cosa stesse accadendo, suppongo. Che cosa stavamo guardando? Una specie di film dell’orrore? Poi la vista sconvolgente di un prete che camminava chino agitando un fazzoletto macchiato di sangue a mo’ di bandiera bianca, mentre alle sue spalle un gruppo di uomini trasportava il corpo martoriato di un ragazzo. Chi era? Che cosa gli avevano fatto? Qualcuno disse che il prete era curvo perché in caso contrario gli avrebbero sparato. Ma chi poteva aver intenzione di sparare ad un prete? E chi aveva sparato al ragazzo? Uno degli adulti disse che tutto ciò stava accadendo in una città chiamata Derry, ma mia madre replicò che non poteva essere. «E’ qualche posto dove c’è la guerra», disse. Non poteva essere l’Irlanda.
Il ricordo successivo che ho è di un uomo che piangeva con la testa tra le mani, cosa mai vista nei miei otto anni e mezzo di vita. Fino a quel momento non pensavo che gli uomini sapessero piangere. Mio padre non piangeva mai, né lo facevano i miei zii. «Gli uomini non piangono», mi avevano insegnato a scuola. Ma ecco un uomo in lacrime, che singhiozzava come un bambino. E, stranamente, ora non ricordo se l’uomo in lacrime fosse sul teleschermo, un fantasma nell’etere, irradiato dalla remota Derry. O fosse forse uno dei vicini di casa, accanto a me nella stanza con i palloncini e i festoni, e i pezzi di torta con le loro candeline bianche e blu e i soldatini con le loro minuscole mitragliatrici. Ricordo però di aver avvertito l’acuta consapevolezza che non avrei mai dimenticato quel momento. La prima volta che vedevo un uomo adulto piangere. Pensai che non sarebbe più successo. A torto.
Tutto questo accadeva domenica 30 gennaio 1972, un giorno importante nella mia giovane vita, ma l’ultimo di quella di Jack Duddy. Era questo il nome del ragazzo di cui vidi il corpo agonizzante sul teleschermo quella sera. Aveva 17 anni. Non meritava di morire. Era da poco finito per lui il tempo delle feste di compleanno dell’infanzia. Dovrebbe essere vivo oggi a giocare con i nipotini. Ma all’ora in cui mi coricai quella sera, al sicuro nel mio letto a Dublino, Jack Duddy e dodici altri giacevano morti a Derry, uccisi dai fucili dei soldati del Reggimento Paracadutisti delle forze armate britanniche. Nessun altro reparto di quell’esercito, nessuna singola organizzazione in alcun luogo, contribuì in misura maggiore a reclutare proseliti per l’Ira. Perché il messaggio inviato agli irlandesi di Derry quel giorno era chiaro. Voi non contate nulla. Siete parassiti. Vi spazzeremo via a fucilate dalle strade se sarà necessario. Non valete neppure i proiettili con cui vi distruggeremo. Lo stesso esercito, il solo presente a Derry in quella domenica pomeriggio d’inverno perché il nord dell’Irlanda è giuridicamente un territorio del Regno Unito di Gran Bretagna, metteva in chiaro, con letale limpidezza, che alcuni sudditi della regina valevano meno di altri. Come se non fosse già palese.
L’Irlanda è una terra di lunga memoria, con una storia di oppressione e di straordinaria crudeltà alle spalle. Non sorprende che un fatto accaduto 31 anni fa rivesta ancora grande importanza in Irlanda. Per dirla con William Faulkner: «Il passato non è morto. Non è neppure passato».
Quasi ogni settimana della mia vita, da quello sconvolgente pomeriggio del 1972 fino al giorno in cui mi fidanzai per sposarmi nel 1998 (lo stesso giorno in cui venne siglato l’accordo di pace del Venerdì Santo) nel nord dell’Irlanda qualcuno è morto di morte violenta. Nell’ambito della lugubre aritmetica che fa da corollario a questo tipo di discussioni, un numero relativamente ridotto di vittime si registra tra i soldati britannici o i membri della polizia, benché questi gruppi, a loro volta, abbiano sofferto in maniera raccapricciante. In maggioranza i morti sono stati poveri irlandesi di una o dell’altra tribù, uccisi da altri poveri irlandesi. I figli delle classi medie raramente hanno avuto parte alle morti o alle uccisioni ovviamente. Questa è una caratteristica che accomuna il nord dell’Irlanda a qualsiasi altro luogo.
Quella terra di lancinante bellezza ha visto tanti giorni di sangue. Tante altre domeniche in cui le campane hanno suonato a morto, in cui vedove, madri, figli e mariti hanno pianto per un amato scomparso per sempre. Padre Edward Daly, il giovane sacerdote visto in televisione agitare un fazzoletto bianco macchiato del sangue di Jack Duddy, sarebbe in seguito diventato Vescovo di Derry.Avrebbe pronunciatole orazioni funebri su altre centinaia di corpi. Omicidi sono stati compiuti dall’esercito britannico e dalla polizia settaria, in altre parole dai rappresentanti dello stato governante. Altri omicidi sono stati compiuti dai paramilitari lealisti, in palese collusione con quello stesso stato. E omicidi sono stati compiuti dalle forze del nazionalismo irlandese militante, pestaggi, torture, rapimenti, autobombe, nel nome della libertà e dell’unità. Come ha affermato recentemente alla televisione irlandese Gerry Adams, leader del Sinn Fein e architetto del processo di pace in corso: «l’Ira ha commesso molte brutalità». Come davvero ha fatto, a sua onta.
Ma la vergogna non ha monopolio. Nessuna parte è innocente. Quando la squadra della morte arriva nella notte, equipaggiata di maschere e discolpe, religiosità e mitragliatrici, e cappucci per il cadavere, con la certezza omicida dell’odiante e dell’odiato, se cambia qualcosa, cambia ben poco per chi è in procinto di morire la consapevolezza di farlo in nome di un altrui concetto di libertà. Com’è sporca la parola «libertà». Quante atrocità sono state commesse in suo nome. Entriamo qui in un labirinto morale che non ha nulla al centro, eccetto l’unica cosa che abbiamo lasciato, le parole sulle nostre labbra. E se le parole hanno un significato, deve essere questo:
Per le forze dello stato sparare ai propri cittadini inermi colpevoli di rivendicare i fondamentali diritti democratici è un atto criminale e un fallimento morale. E’ ciò che accadde a Derry quella domenica di gennaio. I dimostranti non stavano sparando a nessuno. Né perseguivano l’obiettivo di un’Irlanda Unita. Marciavano sotto lo slogan «diritti civili per tutti» protestando contro la carcerazione senza processo dei loro giovani.
I soldati che spararono sulla folla innocente quel giorno infame a Derry sono stati recentemente chiamati a deporre davanti ad un tribunale come un gran numero di presenti alla marcia, incluso l’attuale ministro dell’istruzione dell’Irlanda del Nord, l’ex leader dell’Ira Martin McGuinness. Non si conoscono i nomi dei militari, essi rendono la loro testimonianza anonimamente, nascosti da una tenda o parlando ad un remoto microfono. Sono al sicuro, protetti, trattati con rispetto, cortesemente interrogati sui motivi per cui aprirono il fuoco su dei civili inermi. Molte cose non le ricordano. Suppongo sia credibile. Alcune cose, senza dubbio, hanno scelto di dimenticarle.
Se debbano o meno essere processati per i misfatti compiuti a Derry è opinabile. In genere penso che per lo meno alcuni probabilmente non lo meritino. Devono ammettere le loro azioni, questo tutti fino all’ultimo, al pari dei comandanti responsabili. Il fatto che sia passato del tempo non deve poter mai significare che determinate scelte, una volta fatte, possano essere accidentalmente dimenticate. (La stessa osservazione critica dovrebbe valere per Martin McGuinnes e compagni. La differenza è che lui almeno ha compiuto qualche passo verso l’ammissione delle sofferenze provocate). Ma tutto sommato reputo che ai soldati dovrebbe essere accordata proprio quella clemenza che tanto brutalmente essi negarono a Jack Duddy e alle altre vittime innocenti del Bloody Sunday. Facile dirlo per me, perché io non c’ero. Jack Duddy non era mio fratello, mio cugino, mio figlio. Ero un bambino sufficientemente fortunato da vivere lontano da lì, che vide tutto svolgersi attraverso l’obiettivo di un cameraman. Crediamo di essere così al sicuro, così estranei alla storia, ma non lo siamo, e finché regna l’ingiustizia mai lo saremo.
Traduzione di Emilia Benghi


Parte dell’interrogatorio del soldato F

Ecco altri stralci della testimonianza del «soldato F» davanti alla Commissione d’inchiesta guidata da lord Saville, istituita cinque anni fa per riaprire le indagini sulla Bloody Sunday. Il «soldato F», come gli altri accusati di aver sparato il 30 gennaio del ’72, testimonia in condizioni di anonimato, protetto da uno schermo e identificato solo con la lettera dell’alfabeto. I parenti delle vittime sono presenti in aula.

Avvocato Seamus Treacy.
Soldato F, sappiamo che lei ha ucciso Michael Kelly perché la pallottola del suo fucile fu estratta dal suo cadavere. Lo sa, vero?
«Sì».
Ci sono prove schiaccianti che Michael Kelly era completamente innocente quando venne ucciso. Mi segue?
«Sì»
E lei non ha fatto alcun riferimento, nella sua prima testimonianza, al fatto che gli aveva sparato. Lei concorda con me sul fatto che un uomo che uccide un ragazzo di 17 anni, disarmato, è un vigliacco?
«Questo è il suo sentimento, non tocca a me dirlo».
E’ lei la persona che lo ha ucciso?
«Non concorderei su questo, no».

Avvocato Michael Mansfield.
lo rappresento tre famiglie. Tra queste, quella di uomo chiamato Barney McGuigan, ucciso alla fine del Blocco 1 dei Rossville Flats. L’inchiesta ha stabilito che lei era l’unico soldato sull’angolo di Glenfada Park nord che abbia sparato a sud dei Rossville Flats. Mi segue?
«Sì».
Nella sua prima testimonianza, lei non ha detto di aver sparato a Barney McGuigan, bensì a un uomo con una pistola che si trovava all’estremità opposta della strada... Alla domanda se fosse l’uomo identificato nella fotografia, lei disse di non esserne sicuro. Ora, io vorrei un chiarimento. Lei sparò a Barney McGuigan?
«Sparai all’uomo con la pistola. Quando ho visto la fotografia ho avuto l’impressione che fosse lui».
Per favore, guardi questa sequenza. C’è il corpo di McGuigan, sullo sfondo. E c’è un gruppo di civili vicino a una cabina telefonica, e l’angolo dove si trovava lei è appena fuori dalla foto. Può vedere sulla faccia di questa gente disarmata il terrore che veniva provocato - suggerirei – da lei. Lo può vedere, vero?
«Vedo la foto».
Andiamo, le sto solo chiedendo un commento ovvio: la faccia della donna sulla destra. Paura, terrore, rabbia, angoscia. C’è tutto, no?
«Sì».
Sarà d’accordo, penso, che la ferita mortale inferta a quest’uomo che non brandiva nient’altro che un fazzoletto bianco e stata una cosa orribile?
«Sì».
Questa è praticamente l’ultima occasione per questa famiglia di avere da lei il riconoscimento di quel che ha fatto. E’ pronto?
«Come ho già detto, la persona a cui ho sparato da quell’angolo aveva una pistola in mano. È tutto».
Non quell’uomo. Nessuno lo dice. Se lei spara a un uomo con un fazzoletto bianco in mano, è omicidio.


Qualche link (in inglese):
Bibliografia:    
Cronologia: 
Guardian1 
Guardian2  
Immagini:  
Ireland News: 
Remebering B.S.:
Commento: 
Il film (in italiano) 




Martedì, 21 ottobre 2003