ASSEMBLEE NATIONALE DE FRANCE, PARIS
MISSIONE D’INFORMAZIONE SUL RUANDA

Sommario dei verbali di audizione dal 30 giugno 1998 al 9 luglio 1998


(Traduzione di J.F.Padova)

Martedì 30 giugno 1998

Audizione del sig. Gérard Prunier, ricercatore al CNRS (seduta del 30 giugno 1998)
Presidente sig. Paul Quilès


Il testo, la cui traduzione accludo, si trova fra i verbali della Commissione parlamentare cognitiva istituita dall’Assemblée Nationale (la Camera dei Deputati) a Parigi. Mentre molte altre testimonianze non brillano per precisione e "passione" per la tragedia terribile di cui si occupano - il Ruanda - e tirano a coprire i responsabili politici francesi dell’epoca, quella di Gérard Prunier mi ha colpito per la sincerità e la decisione con cui sostiene ciò che conosce, per averlo vissuto e visto. Si tratta anche di un esempio di come devono essere condotte simili inchieste - o NON devono esserlo, penso alla nostra cosiddetta Commissione Telekom Serbia. Chi avrà la pazienza di leggerlo (come l’ho avuta io nel tradurlo) potrà giudicare - e riflettere.
J.F.Padova


ASSEMBLEE NATIONALE DE FRANCE, PARIS
MISSIONE D’INFORMAZIONE SUL RUANDA
SOMMARIO DEI VERBALI DI AUDIZIONE DAL 30 GIUGNO 1998 AL 9 LUGLIO 1998

Martedì 30 giugno 1998

Audizione del sig. Gérard Prunier, ricercatore al CNRS (seduta del 30 giugno 1998)
Presidente sig. Paul Quilès (http://www.assemblee-nationale.fr/dossiers/rwanda/auditi04.asp#PRUNIER)
(traduzione dal francese di José F. Padova)

Il presidente Paul Quilès ha accolto il sig. Gérard Prunier, ricercatore al CNRS, specialista di storia africana e autore di un’opera largamente citata e commentata sul genocidio ruandese, pubblicata dapprima in inglese nel 1995 prima di essere pubblicata in francese nel 1997.
Il sig. Gérard Prunier si è innanzitutto rallegrato per l’esistenza della commissione cognitiva. Egli ha dichiarato di essere rimasto, come molti di quelli coinvolti nel dramma ruandese, per lungo tempo in stato di choc, di essere stato pessimista circa le possibilità che il ruolo molto ambiguo svolto dalla Francia in questa tragedia fosse un giorno seriamente preso in esame e di essere estremamente felice che non ne fosse invece il caso. Ha affermato che c’erano tutti gli elementi per sperare e che egli in effetti sperava che la commissione cognitiva avrebbe svolto fino in fondo il suo compito nella pienezza dei suoi poteri.
Ha precisato di voler testimoniare in duplice veste, da una parte come ricercatore africanista specialista dell’Africa orientale, forte di un’esperienza di ventotto anni in quelle regioni dove era arrivato nel 1970, e dall’altra in quanto responsabile dell’Africa orientale presso il segretariato del partito socialista durante la crisi ruandese. Ha aggiunto di aver potuto in questo modo avere una doppia visuale nello stesso tempo, e sugli avvenimenti che si svolgevano sul posto in Africa e sulla maniera in cui erano gestiti a Parigi, anche se non aveva mai avuto la minima parte nel prendere decisioni, poiché il privilegio e la frustrazione degli esperti sono quelli di vedere molto e di non decidere mai, e che avrebbe cercato, come storico, di rendere la realtà dei fatti riguardo a un certo numero di avvenimenti dissimulati sotto la maschera del discorso politico-amministrativo.

Prima di tutto egli ha notato, prendendo visione delle registrazioni video fatte dalla commissione cognitiva, alcune delle quali della massima importanza in quanto riguardavano responsabili politici come i sigg. Balladur, Léotard, Jean-Christophe Mitterrand e Védrine, di essere stato colpito dal fatto che molto sovente quelle testimonianze si situavano sia a un livello molto generale, come la difesa dell’azione della Francia o di una politica globale, sia a un livello di estremo dettaglio, come la trasmissione di una nota al Presidente della Repubblica. Ha aggiunto che, nei due casi, quella presentazione non gli pareva riflettesse la realtà come lui l’aveva vissuta, ossia sul posto, in Uganda e al Ruanda, o a Parigi, e di averla trovata, a suo tempo, molto grumosa e rozza.
Per precisare il suo pensiero ha insistito dicendo di non accusare alcuno, ma di constatare come egli trovasse piuttosto qui, come il 21 aprile diceva in diverse occasioni il sig. Léotard, “le conseguenze della lontananza del Ruanda, che si trova a settemila chilometri dal territorio francese”, e facendo notare che in quelle testimonianze ufficiali i settemila chilometri erano presenti in modo terrificante.

Chiedendosi di conseguenza che cosa era realmente accaduto in Ruanda egli ha citato il sig. Védrine nella sua testimonianza del 5 maggio: “Ho sempre visto François Mitterrand porsi come il continuatore di una politica che risaliva al gen. De Grulle. Egli riteneva che la Francia avesse in Africa un impegno di sicurezza (…). Per il Ruanda v’era un ragionamento dello stesso tipo”, commentando che tutta l’ambiguità risiedeva in quella nozione di sicurezza.
A quel punto ha sottolineato che il significato particolare del concetto di sicurezza in Africa risaliva all’epoca della colonizzazione. Dopo la seconda guerra mondiale v’erano in Africa quattro potenze coloniali principali; la decolonizzazione belga e quella portoghese sono state delle catastrofi pure e semplici; la Gran Bretagna, la cui situazione era più vicina a quella della Francia per l’importanza dei territori che controllava e per l’antica rivalità con quest’ultima, dopo la decolonizzazione è progredita in modo diverso. Su questo punto ha notato che l’ultima seria assunzione di responsabilità inglese aveva avuto luogo al tempo della guerra del Biafra, con l’aiuto fornito al governo federale nigeriano fra il 1966 e il 1970 allo scopo di mantenere l’integrità territoriale della Nigeria, ma che dopo la catastrofe biafrese la Gran Bretagna si era anch’essa disimpegnata.
D’altro canto ha messo in evidenza che il caso della Francia era unico e sorprendente e dipendeva largamente da un certo numero di circostanze storiche francesi,in particolare dal trauma della disfatta del 1940, dalla personalità del gen. De Grulle e alla sua preoccupazione di mantenere alla Francia il rango e la “grandeur” in un mondo nel quale il sup posto di ex-superpotenza non cessava di sfuggirle. Ha giudicato che la decolonizzazione del 1960 non era stata una decolonizzazione, che la Francia era rimasta ossessionata dall’idea cha la sua covata di piccoli pulcini neri sul continente africano le permettesse, raggruppandoli dietro a sé in una alleanza, in una specie di diaspora, di crescere la sua importanza (il suo peso) e contribuisse a mantenerla nel rango di grande potenza, che poteva misurarsi in occasione delle votazioni all’ONU.
Ha aggiunto che in questo modo si era creata una relazione particolare, che non era una relazione neo-coloniale, per quanto l’estrema sinistra l’abbia talvolta definita così, perché non c’era decolonizzazione. Perdurava una relazione di sottomissione sia sul piano economico, sia su quello della sicurezza e, forse in misura più grave a suo parere, sul piano della dipendenza psicologica.
Su questo livello, facendo osservare di avere più familiarità con l’Africa non francofona che con quella francofona e con territori estranei ai Francesi, come l’Etiopia, l’Uganda e il Sudan, ha insistito sulla straordinaria differenza di struttura psicologica fra i dirigenti di questi Paesi e quelli dell’Africa francofona; mentre questi ultimi non cessano di guardare a Parigi e sono fini conoscitori della politica francese, i dirigenti del resto dell’Africa non guardano verso Lisbona, o Londra, e neppure Washington. Ha concluso ceh il cordone ombelicale fra i dirigenti africani francofoni e Parigi non era stato mai tagliato.
Il sig. Gérard Prunier ha spiegato allora che questa introduzione aveva avuto lo scopo di tentare l’identificazione degli elementi della concatenazione che aveva trascinato la Francia nella questione ruandese.
Ricordando che l’impegno per la sicurezza, la cui preoccupazione il sig. Védrine attribuiva al presidente Mitterrand e la cui origine faceva risalire al gen. De Grulle, si era concretizzato per la prima volta nel 1956 nel Gabon, ristabilendo al potere Léon M’Ba con l’intervento dei paracadutisti francesi, ha fatto notare che i diversi interventi francesi in Africa, con la notevole eccezione di quello del Ciad, non erano già destinati a difendere il Paese con agrressori esterni, ma che avevano essenzialmente il fine di mantenere un governo al potere o la sua sostituzione con un altro, a seconda che questo avesse, non avesse o non avesse più l’unzione del Signore a Parigi.
Ha aggiunto che in quella relazione quasi simbiotica che la Francia manteneva con i Paesi africani francofoni c’erano aspetti molto toccanti e un sicuro amore per l’Africa, molto poco razzismo e un certo romanticismo, ma fa osservare che questo genere di relazione presentava anche l’inconveniente di avere sempre sostenuto e rafforzato la predazione da parte degli alleati privilegiati della Francia, il caso più spettacolare essendo quello del maresciallo-presidente Mobutu.
Ha poi precisato che a favore di questo legame e di una situazione nella quale i Capi di Stato africani si preoccupavano molto più di sapere se fossero ancora bene in sella a Parigi che di assicurarsi di disporre di sufficiente sostegno da parte della loro propria popolazione, all’interno dei Paesi della “riserva francese” si era formato un tipo di struttura socio-economica unica caratterizzata dalla redazione esercitata da una borghesia che non era a base economica come quelle conosciute in Europa o che l’Asia oggi conosce, ma che costituiva una classe burocratica, sostenuta da una ex-metropoli coloniale.
Affrontando l’azione della Francia in Ruanda ha indicato che, il 5 ottobre 1990, mentre si trovava nell’ufficio del sig. Jean-Christophe Mitterrand non per trattare questioni ruandesi, il presidente Habyarimana aveva chiamato al telefono quest’ultimo che, dopo una conversazione di cinque minuti, dopo aver riagganciato gli aveva detto: ”Ah, gli manderemo qualche marmittone [ndt.: soldatino] al piccolo padre Habyarimana e entro un mese tutto sarà finito”.
Egli ha fatto notare che la familiarità di questo tipo di osservazioni è molto più rivelatrice dello stato d’animo che informa i rapporti che la Francia intrattiene con l’Africa che non la prosa stessa delle note ufficiali. Aggiungendo che non era la prima volta che vi si ,andavano delle truppe, che si trattava di una pratica corrente e che, il più delle volte, a capo di un mese tutto era finito, ha sottolineato che l’applicazione di questo metodo al Ruanda aveva avuto conseguenze molto gravi, poiché la Francia si era trovata di fronte a un sistema sociale nel quale la sua concezione dei rapporti con l’Africa non era più operativa e dove era fuori questione che qualche fantaccino potesse ristabilire la situazione.
A questo punto il sig. Prunier ha descritto chi erano i Tutsi e gli Hutu. Ha precisato che in nessun caso si trattava di etnie. Un’etnia in effetti è una micro-nazione che aveva, prima dell’arrivo sia dei musulmani, sia dei colonizzatori europei e del cristianesimo, i suoi propri religione, territorio, lingua, cultura. Facendo notare che non v’erano né lingua, né cultura, né religione specifiche ai Tutsi o agli Hutu, ma che al contrario essi condividevano questi tre elementi, ha stimato trattarsi di ciò che nell’Europa di prima del 1789 si chiamava ordini [ndt.: nobiltà, clero, terzo stato] e che in tedesco si designava col termine Stand [ndt.: stato, condizione, classe, ceto], vale a dire gruppi strutturati a partire dalle loro attività, e ha sottolineato che, se nel loro caso ci fossero state forse origini razziali diverse in un passato risalente a cinque, sei o sette secoli, queste sarebbero state in seguito largamente assorbite in matrimoni misti.
Ha indicato che, nel Ruanda precoloniale, questi gruppi sociali, questi ordini, erano disuguali e che di quell’epoca non si doveva tracciare un’immagine paradisiaca, come talvolta si è voluto fare. Ha aggiunto che la società ruandese era una antica società statica, aristocratica, strutturata non già nel quadro delle etnie acefale che si trovano nella zona della grande foresta equatoriale e nel Sahel, ma bensì in quello di uno Stato-Nazione, le cui frontiere erano all’incirca quelle posteriori alla decolonizzazione, come nel vicino Burundi, falso gemello del Ruanda. Ha messo in rilievo che il carattere non egalitario della società ruandese era stato aggravato dalla colonizzazione, per dei semplici motivi di semplificazione amministrativa e di economia. Ha precisato in effetti che il colonizzatore, dapprima tedesco, poi belga, preoccupato di non spendere troppo denaro, aveva aumentato la disuguaglianza utilizzando i Tutsi per manipolare la situazione, non già con mire diaboliche, ma semplicemente in una prospettiva di efficacia economica a breve termine.
Ha messo in evidenza il fatto che in questo modo si aveva creato una società che costituiva una vera e propria bomba, nella quale le tensioni sociali, rafforzate dall’approfondimento delle ineguaglianze nel quadro del sistema coloniale, erano sfociate, al momento della decolonizzazione nel 1959, al massacro: la prima espressione della democrazia è stao il massacro e la democratizzazione è stata l’occasione per le vittime di un sistema di sperequazioni, una volta partito Bianco, di vendicarsi con una straordinaria brutalità su coloro che esse consideravano essere i responsabili di quel sistema.
A causa di questi precedenti, il Paese nel quale era stata lanciata nel 1990 l’operazione Noroît non aveva niente a che vedere con quelli che la Francia conosceva, con il gentile Senegal, con la cortese Costa d’Avorio, e in realtà la Francia non conosceva il Paese nel quale arrivava; precisando che per chi conoscesse la regione questo dato di fatto era di sfolgorante evidenza, ha valutato che i protagonisti della politica francese, non conoscendo il Paese nel quale sarebbero intervenuti, avrebbero per lo meno potuto essere consapevoli dell’ignoranza in cui si trovavano e della natura del terreno sul quale mettevano piede.
A proposito dell’operazione Noroît non l’ha considerata per forza negativa; ha giudicato che una presa di potere estremamente rapida e con le armi di un gruppo di figli di rifugiati tutsi – il generale Kagame, attuale vero padrone del Ruanda, aveva due anni al momento della sua partenza dal Ruanda nel 1960 – nell’ottobre o novembre 1990 sarebbe stata una catastrofe. Ha valutato tuttavia che l’operazione Noroît non poteva essere concepita che come uno strumento di ricatto nei confronti del governo Habyarimana, che si sarebbe dovuto dire a costui che il suo regime si era costruito in venticinque anni sulla discriminazione razziale, che i Ruandesi avevano istituzionalizzato un sistema di apartheid, con una rigidità variabile, che se lui voleva che la Francia lo salvasse avrebbe dovuto accettare in contropartita l’apertura, la distensione, la ristrutturazione profonda di uno Stato che nulla aveva da invidiare, nella sua filosofia politica, al Sud Africa. Ha precisato che il fatto che l’apartheid si sia messa in pratica fra Neri non era per nulla un criterio determinante e che in Europa si era conosciuto un razzismo fra gente con la pelle bianca.
Interrogandosi sulla politica francese verso il Ruanda, oltre il breve termine e il consolidamento di un regime il cui brutale rovesciamento da parte di una forza armata non avrebbe risolto nulla, ha puntato il dito sul problema della manipolazione della Francia da parte dei suoi partner ruandesi. Ha fatto notare che si aveva torto nel vedere sempre il rapporto fra Africa ed Europa sotto l’aspetto di un dominio dell’Europeo indirizzato a manipolare il suo partner africano e che molto sovente, nella sua esperienza della politica in quella regione del mondo, aveva visto il contrario, gli etiopici manipolare i russi nel periodo comunista o in Sudan il maresciallo-presidente Nemeyri manipolare gli americani per i suoi fini politici personali. A suo giudizio i Ruandesi a loro volta avevano manipolato la Francia con molta abilità.
Ha illustrato il suo pensiero con ciò che ha chiamato il sedicente attacco a Kigali da parte del FPR [ndt.: Fronte Popolare Ruandese], nella notte dal 4 al 5 ottobre 1990, nel corso del quale furono sparati migliaia di colpi. Constatando che al mattino del 5 ottobre non c’era un solo morto e non un impatto di pallottola sugli edifici, il sig. Prunier spiega questo fenomeno col fatto che per questo cosiddetto attacco, essendo stato messo in scena dalle Forze Armate Ruandesi su istigazione del loro Stato maggiore per impressionare i Francesi, si era chiesto alle truppe di non tirare sulle case. Ha aggiunto di essere curioso di vedere l’eco che questa grossolana intossicazione aveva avuto nei dispacci dell’ambasciatore di Francia nel Ruanda e ha precisato che all’epoca, avendone parlato con il sig. Jean-Christophe Mitterrand, questi sembrava credere alla realtà di questo attacco, a meno che non avesse fatto finta di crederci.
Il sig. Prunier ha insistito sul fatto che in Ruanda la Francia si trovava di fronte a una cultura statale antica, che tutta la storia del regno del Ruanda assomigliava alle Cronache italiane di Stendhal, fatte di cospirazioni, di assassinii, di manipolazioni politiche, che là c’era l’Italia del XIV secolo, e ha valutato che la Francia arrivava in questo universo con una buona volontà degna di miglior causa.
Ha tenuto a segnalare che gli americani si ritrovavano ormai nei confronti del governo ruandese esattamente nello stesso tipo di rapporti, alle prese con lo stesso genere di manipolazioni, e tutto con la medesima ingenuità.
Ha aggiunto che la Francia aveva così, fin dall’inizio, falsi schemi di ragionamento, che risultavano molto bene dalle audizioni alle quali aveva dato seguito la missione cognitiva. Ha quindi citato due esempi tratti dalle audizioni dei sigg. Balladur e Védrine. A proposito di Balladur, ha ricordato che, il 21 aprile, questi aveva detto che il suo scopo era quello di vedere la maggioranza hutu associare il FRP al governo. Facendo notare che questa espressione implicava l’affermare che il governo del generale Habyarimana rappresentava per sé la maggioranza hutu, ha stimato che là si sprofondava in una sorta di “comunitarismo” e che se si prendeva per buono che il fatto di essere un hutu permettesse di rappresentare tutti gli hutu voleva dire ammettere che non c’era più posto per l’espressione individuale che soltanto lo Stand, l’ “ordine”, il gruppo, il clan, la tribu potevano esprimere e che, a partire da lì, la nozione di democrazia non aveva più senso alcuno. Ha aggiunto che il fatto di ragionare in tale modo – gli Hutu sono l’ 85%, quindi il generale Habyarimana li rappresenta, visto che è un hutu – era l’esatto riflesso della teoria razzista che proponeva lo Stato ruandese stesso, poiché in kinyarwanda il termine rubanda nyamwinshi, “il popolo maggioritario”, rimandava a una specie di logica co-estensiva, secondo la quale, poiché gli Hutu formavano l’ 85% della popolazione, bastava che uno di essi fosse al potere perché la democrazia fosse realizzata.
A proposito del sig. Védrine egli ritiene la sua testimonianza ancor più stupefacente, quando dice il 5 maggio: “Habyarimana è Hutu, rappresenta quindi almeno l’ 80% della popolazione” e aggiunge: “Ci si chiede proprio perché dovrebbe condividere il potere con l’infima minoranza tutsi”. Supponendo che con questa unità di misura qualsiasi presidente francese rappresenti il 100% della popolazione per il fatto che è francese, il sig. Prunier ha fatto osservare che quella era l’espressione puntuale del pensiero “comunitarista”, vale a dire della filosofia politica che sottostava al regime che ha prodotto il genocidio. Egli ha così concluso che i responsabili politi francesi, quando ragionavano in questo modo a proposito dei Ruandesi, quando si facevano intossicare dalla loro filosofia politica, entravano di fatto nella logica del loro spirito di discriminazione interna e assumevano il pensiero di tipo apartheid che presiedeva al funzionamento del regime ruandese. Precisando che essi non agivano certamente in questo modo per intenzione deliberata, ma piuttosto in maniera involontaria, il sig. Prunier stima che non erano per questo meno perdonabili.
In seguito egli ha spiegato che i poteri pubblici francesi non avevano prestato alcuna attenzione ai segnali di allarme che si accendevano sul quadro di bordo a mano a mano che aumentava la presenza della Francia in Ruanda. Ha ricordato che a partire dal 1990 v’erano stati massacri, raddoppiati in gennaio 1991 con le carneficine della regione del Bagogwe. Mettendo in evidenza che i Bagogwe erano Tutsi rimasti fedeli al loro modo di vita tradizionale, vale a dire che erano gli ultimi nomadi pastori, gente all’antica e della quale nessuno si preoccupava più di tanto, il sig. Prunier ha indicato che il loro massacro, nel gennaio 1991, segnava l’inizio dell’attività degli squadroni della morte ruandesi e corrispondeva a un periodo durante il quale gli assassini non erano ancora bene organizzati. A proposito dei Bagogwe, ha segnalato che l’immagine del Tutsi pastore nomade non aveva più senso nel Ruanda moderno con i suoi 8 milioni di abitanti su 23’000 chilometri quadrati, perché non c’era più lo spazio sufficiente. A proposito degli assassini, il sig. Gérard Prunier ha aggiunto che li si sarebbe visti molto meglio organizzati nel marzo 1992, al momento del massacro dei Bugesera, più grave, più importante, più strutturato. Precisando che il suo collega belga Filip Reyntjens aveva chiamato il il modo di organizzarsi “rete zero”, perché la filosofia di questa organizzazione era: “zero tutsi va bene per il Ruanda”, ha indicato che non si era certi che questa denominazione corrispondesse a una realtà formulata in modo così netto.
Constatando che questi massacri erano organizzati da gruppi para-governativi e che questi segnali di allarme erano sotto gli occhi dei responsabili francesi, si è chiesto se questi ultimi non li vedessero perché erano ciechi oppure perché non volevano vederli.
Ha aggiunto che un’italiana era morta per averlo detto, che si chiamava Antonia Locatelli e che non era una suora ma una laica, che viveva in Ruanda da diciotto anni e che conosceva molto bene gli abitanti del suo comune di Bugesera. Presente durante i massacri, ha poi parlato in diretta su Radio France Internationale dicendo: “Io so che coloro che sono venuti a commettere questi assassinii sono venuti da fuori. Sono stati portati con veicoli dei servizi governativi. Al contrario di ciò che si dice non è una collera popolare quella che sarebbe esercitata contro i Tutsi, ma è un movimento organizzato dal governo per commettere crimini di tipo politico”. Per aver osato parlare in diretta si RFI ella è stata assassinata il giorno successivo dai medesimi assassini.
Il sig. Gérard Prunier ha fatto rilevare che durante questo tempo la Francia non soltanto non vedeva nulla, ma al contrario stava per collaborare militarmente. Ricordando che il sig. Léotard aveva detto davanti alla commissione cognitiva che nel quadro dei DAMI [ndt.: corpo di istruttori militari, tipo quelli US in Vietnam] esisteva una cooperazione dell’esercito francese con quello ruandese e che l’aveva presentata come un’iniziativa molto neutrale, come quella che la Francia sviluppava sulla base dei numerosi altri accordi di cooperazione con altri Paesi africani, ha aggiunto che tutto il problema stava proprio nel fatto che non si trattava di uno qualsiasi degli altri Paesi africani e che, lungi dall’avere l’effetto benevolo che il sig. Léotard e gli altri responsabili sembravano voler suggerire, i DAMI avevano istruito le reclute delle FAR [Forze Armate Ruandesi], i cui effettivi passavano da 5’200 uomini all’inizio della guerra a 25’000 alla fine. Mettendo in evidenza che questo fondamentale aumento in tre anni significava che l’esercito ruandese aveva reclutato ogni sorta di gente, ivi compresi i miliziani interhamwe che in seguito hanno commesso il genocidio, ne ha dedotto che anche costoro erano stati ampiamente addestrati dall’esercito francese.
Ha aggiunto che le forze francesi erano anche più numerose di quanto era stato detto. Ha spiegato che in effetti alcuni ufficiali, ansiosi di avere un’eccellente collaborazione con le Forze armate ruandesi, giocavano sul ritmo delle rotazioni per mantenere fino a mille uomini sul posto, in alcuni periodi come nel 1992 e 1993, mentre il numero massimo ufficiale non aveva mai superato i seicento e spesso era sceso a quattrocentocinquanta. Ha afermato di aver udito, in quel tempo, un colonnello dell’esercito francese vantarsene in sua presenza.
Ha messo bene in chiaro che, nella loro attività quotidiana, quei soldati francesi non erano in una posizione neutrale ma che procedevano, per esempio, a controlli d’identità con posti di blocco sulle strade e chiedevano, in maniera assai brusca: “Tutsi o Hutu?”. Avendo raccolto le testimonianze di persone che avevano subito questi controlli, ha aggiunto che non erano brutali, che le persone non venivano percosse, ma che la domanda era cruda, equivalente, a suo avviso, a “Ebreo o Ariano?” e ha precisato che quando certi Tutsi istruiti domandavano ai soldati francesi perché facevano loro quella domanda, essi rispondevano che era “Per sapere chi è il nemico”. Il sig. Prunier ha quindi messo in evidenza la gravità delle conseguenze della politica di cooperazione così condotta.
Ha giudicato che in realtà questo atteggiamento significava agli occhi delle autorità ruandesi che la Francia era lì per sostenerli, non soltanto di fronte a una minaccia esterna, ma anche contro quella che essi concepivano come una minaccia interna, diretta contro il sistema di apartheid che essi stessi avevano instaurato, ovvero la casta, l’ “ordine” dei Tutsi, poiché i soldati francesi stessi, senza vergogna, senza esserne impediti [ndt.: dagli ufficiali] facevano la domanda sull’appartenenza a quella casta a coloro che controllavano ai posti di blocco stradali.
Ha affermato che v’era anche stata, da parte della Francia, una partecipazione, che ha qualificato come secondaria, ai combattimenti. Ammettendo che i militari francesi non erano stati ingaggiati in combattimenti terrestri, ha testimoniato che v’era l’artiglieria comandata da un ufficiale francese, quando egli aveva visitato le zone tenute dal Fronte Popolare Ruandese [ndt.: i ribelli Tutsi, poi vittoriosi sulle FAR] nella regione di Byumba, nel giugno 1992. Ha precisato che ascoltando, con [i capi del] FPR, sulla frequenza radio delle Forze Armate Ruandesi gli ordini impartiti dall’ufficiale comandante della batteria d’artiglieria, gli era stato facile capire che il francese parlato da quell’ufficiale era la lingua come la si parla in Francia. Non poteva quindi trattarsi che di un ufficiale francese. Aggiungendo che questi obbediva senza dubbio a ordini ricevuti, ha valutato che, comandando il fuoco di artiglieria, costui prendeva parte alla guerra.
Ha concluso che, anche in questo caso, l’essenziale era soprattutto la natura del messaggio che era indirizzato alle autorità ruandesi, vale a dire che la Francia copriva loro le spalle, qualunque cosa facessero. Ha fatto notare che i “piccoli massacri” avvenuti nel corso degli anni 1990, 1991 e 1992, ripresi poi in gennaio 1993, mettendo in moto l’offensiva del FPR, non hanno mutato nulla nel dispositivo francese, che è rimasto immutato e solido, senza che la filosofia politica del regime ruandese fosse messa in causa. Egli ha spiegato quest’ultimo punto, a contrariis, con l’atteggiamento della Francia verso i negoziati che si svolgevano in quel periodo ad Arusha. Ha fatto notare che, mentre il leitmotiv che aveva ascoltato visionando la registrazione video delle testimonianze, di ogni parte politica, davanti alla missione cognitiva ripeteva che il sostegno della Francia al governo ruandese era sottoposto alla condizione della democratizzazione del Paese, in realtà durante quei quattro anni si era assistito da parte del presidente Habyarimana al blocco costante do ogni apertura democratica, nonostante e di fronte alle continue pressioni che gli venivano, non già dai Francesi, ma all’interno del suo stesso Paese dagli Hutu che gli si opponevano e, all’esterno, dai rifugiati Tutsi in armi.
Ha valutato che i negoziati di Arusha erano il punto geometrico d’incontro di queste contraddizioni e ha sottolineato che , mentre i responsabili francesi dicevano ancor oggi che la Francia aveva svolto un ruolo capitale nel loro svolgimento, essi si erano dilungati nel tempo, e che la rappresentanza diplomatica della Francia vi era stata assicurata non già dall’ambasciatore di Francia in Tanzania, ma dal primo segretario dell’Ambasciata, Jean-Christophe Belliard, che spesso aveva penato molto per ottenere istruzioni chiare sulla antura della sua missione e non aveva di certo un grande potere decisionale.
Citando le dichiarazioni del sig. Védrine, il quale, nella sua testimonianza, aveva segnalato un’esasperazione degli estremisti contro le pressioni della Francia, ha aggiunto che personalmente non aveva mai avuto sentore di questa esasperazione quando si trovava a Kigali ma che, al contrario, si era visto, sul giornale Kangura, pubblicato dalla frazione più estremista del regime, un ritratto di François Mitterrand, con un commento che, ha detto, gli aveva fatto terribilmente male: “Un vero amico del Ruanda”.
Ha stimato che ciò di cui si poteva accusare la Francia nell’ affaire ruandese non costituiva un crimine, ma un errore. Aggiungendo che la Francia non aveva certamente voluto il genocidio, per contro ha rilevato che il costante messaggio che essa aveva inviato alle autorità ruandesi, ignorando i “piccoli massacri” il cui numero non cessava di aumentare, mantenendo una cooperazione militare di natura particolare, manifestando poco entusiasmo per i negoziati di Arusha, era un messaggio che dava carta bianca e delle cui conseguenze essa non si rendeva conto.
Ha giudicato che l’aspetto più spaventoso era il fatto che i poteri pubblici francesi non hanno tenuto conto della natura della struttura di potere che essi sostenevano, avendo creato il larga parte le condizioni per la sua costituzione.
Ha aggiunto che, per lui, si trattava dello scacco finale di un certo concetto di politica africana, paternalista, clanica, manipolatrice, tale come l’aveva fondata Jacques Foccart, d’accodo con la concezione che ne aveva il generale De Grulle.
Su questo punto si è detto sbalordito dalla testimonianza del sig. Juppé davanti alla commissione. Ricordando che questi aveva respinto l’accusa secondo la quale il governo francese aveva esitata davanti alla qualificazione di genocidio sottolineando di aver usato quel termine a partire dal 15 maggio, come ricercatore ha affermato che conoscendo bene come ricercatore scientifico la regione gli ci erano voluti circa tre giorni per comprendere quello che stava per accadere e che il 10 o l’ 11 aprile aveva capito che ogni ostacolo era ormai saltato e che, stavolta, si stava tentando la soluzione finale, e per arrivare a ciò non aveva avuto a disposizione né gli erano occorse le sintesi della DGSE o i rapporti degli ambasciatori.
Ha puntualizzato che, durante quelle cinque settimane, fra l’inizio del genocidio e il 15 maggio, almeno seicentomila persone erano morte. Precisando che il 27 aprile i signori Balladur e Juppé avevano ricevuto nella loro sede ufficiale di Parigi, ex officio, i signoriJean-Bosco Barayagwiza et Jérôme Bicamumpaka, due grandi colpevoli del genocidio, ha aggiunto che se non ci si era resi conto, accogliendo la visita dei colpevoli di genocidio, della natura dei crimini che si stavano commettendo in Ruanda era perché esisteva un problema di percezione all’interno del governo francese.
Successivamente ha stimato che proprio per questi motivi si era fatto un cattivo processo all’operazione Turquoise e che dopo simili precedenti era evidente che le buone intenzioni di quell’operazione Turquoise sarebbero stati automaticamente oggetto di sospetti. Egli ha dichiarato, a titolo personale, di non pensare affatto che Turquoise fosse stata una misteriosa operazione segreta destinata a infiltrare i criminali Hutu e che costoro erano perfettamente capaci di prendere la fuga senza l’aiuto della Francia. Ha aggiunto che non si vede quale sarebbe stato l’interesse di mandare duemila uomini e un tale sostegno logistico per far uscire dal loro Paese un centinaio di assassini che potevano fuggirsene senza aiuti.
Ha definito l’operazione Turquoise piuttosto come un’operazione di pubbliche relazioni di fronte alle pressioni dell’opinione pubblica e della stampa. Ha stimato tuttavia che perfino in questo quadro era troppo poco e troppo tardi nella misura in cui tutte le accuse mosse alla Francia non riguardavano Turquoise ma tutto quello che era accaduto prima e che era questo passato che rendeva automaticamente sospetto un ritorno dell’esercito francese, in pieno genocidio, sui luoghi nei quali la sua assistenza, è il meno che si possa dire, aveva prodotto effetti indesiderati.
Però ha aggiunto che questa operazione non era stata tanto priva di ambiguità come era stata presentata, in particolare nelle testimonianze dei signori Balladur e Juppé. Ricordando che il sig. Juppé aveva accennato alla visita di una delegazione del FPR [ndt.: i ribelli Tutsi] guidata dal sig. Bihozagara, ha precisato che era stato estremamente difficile ottenere che questa fosse ricevuta. In effetti, contrariamente a ciò che era stato detto, non c’era contatto diretto fra il governo francese e il FPR. Inoltre ha aggiunto di essere stato egli stesso in contatto con il FPR. D’altra parte questo era assai difficile, perché il FPR non aveva che una sola linea telefonica, a Bruxelles, e in quei giorni bisognava chiamare senza tregua a lungo prima di riuscire a trovare un istante durante il quale la linea non era occupata. Ha aggiunto che, quando prima di Turquoise si era invitata a Parigi una delegazione del FPR, si era proposto come interlocutore la signora Michaux-Chevry, ministro con delega alla francofonia, la quale nel contesto delle circostanze di quel periodo non appariva certamente come una personalità politica capace di svolgere un ruolo determinante nel prendere decisioni riguardo al Ruanda. Si ricordava molto bene che Jacques Bihozagara gli aveva detto al telefono che ci si prendeva gioco di lui e che non sarebbe andato a Parigi. Il sig. Prunier ha aggiunto che, in occasione della sua visita, gli era stato proposto in un primo tempo di incontrare la signora Boisvinea, vice-direttore per l’Africa orientale alla Direzione degli Affari africani e del Madagascar, vale a dire un interlocutore non in grado di prendere decisioni politiche, e che soltanto in seguito a trattative in seno all’esecutivo francese il sig. Juppé aveva accettato di incontrare la delegazione del FPR.
Il presidente Paul Quilès ha domandato al sig. Gérard Prunier se, secondo lui, la Francia era intervenuta troppo, non abbastanza, male o le tre cose a un tempo, e che cosa si sarebbe dovuto fare. Sarebbe stato meglio non essere presenti nel Ruanda, come era stato il caso riguardo a molti altri Paesi, il Burundi, per esempio, dove si sono avuti centinaia di migliaia di morti e dove non si è mai rimproverato la Francia per la sua assenza.
Facendo poi notare che il sig. Prunier aveva criticato l’insufficiente partecipazione della Francia ai negoziati di Arusha, ha ricordato che il FPR aveva tuttavia ringraziato al Francia e si era congratulato per il contributo ch’essa aveva apportato alla loro conclusione. Si è detto quindi desideroso di sapere de il sig. Gérard Prunier stimava che il presidente Habyarimana, acconsentendo a firmare quegli accordi, compisse un gesto autentico, segnale di una svolta politica, inizio di una democratizzazione, o si dedicasse a una manovra tattica destinata a guadagnare tempo, in altre parole se avesse fatto in permanenza il doppio gioco. La medesima domanda l’ha posta per quanto riguarda il FPR.
Rilevando che a proposito dei massacri che ebbero luogo un anno dopo il genocidio, nel 1995, il sig. Gérard Prunier aveva scritto nell’opera da lui dedicata alla crisi ruandese: “I massacri del FPR sono meno ambiziosi e apparentemente molto più tattici di quelli degli hutu responsabili del genocidio”, si è chiesto che cosa si intendesse per “mancanza di ambizione” e “carattere tattico” di un massacro.
Infine, citando il severo giudizio che il sig. Prunier esprime in questo libro circa lo svolgimento dell’operazione Amaryllis: “Il personale ruandese dell’Ambasciata, principalmente Tutsi, è abbandonato a sangue freddo a una morte certa. Il Padre Guichaoua riesce a distrarre l’ettenzione degli ufficiali francesi e a far salire di nascosto a bordo di un aereo in partenza per Parigi i cinque figli del primo ministro assassinato, Agathe Uwilingiyimana “, gli chiede se avesse avuto informazioni precise a questo proposito, se avesse incontrato personalmente Venuste Raymaé, che ha testimoniato sul rifiuto di evacuare i tutsi impiegati all’Ambascaiat e se questi gli avesse confermato le condizioni in cui si salvarono i cinque bambini. A questo proposito ha detto che la commissione cognitiva aveva ascoltato altre testimonianze, in particolare di ufficiali francesi, che non andavano in questa direzione.
Il sig. Gérard Prunier ha innanzitutto valutato che non si potesse dire che la Francia fosse intervenuto troppo o non abbastanza, ma che invece fosse intervenuta male. Considerando che, nella misura in cui si impegnava nella regione la Francia creava un certo numero di obblighi di fronte a sé stessa, e in particolare un obbligo di performance, ha giudicato che la Francia era intervenuta male perché non aveva esercitato sufficiente ricatto sul presidente Habyarimana, perché aveva troppo pedissequamente accettato la versione ruandese dei fatti, perfino perché non era stata, per così dire, abbastanza imperialista. La Francia offriva qualcosa di molto importante al regime, la sua “santuarizzazione” [ndt.: neologismo da sanctuaire, santuario; il concetto è quello dello sbiancamento del denaro sporco]. Essa assicurava la “santuarizzazione” militare di un regime dittatoriale e di una dittatura razzista. Osservando come si trattasse di un comportamento eccezionale da parte di uno Stato democratico, ha aggiunto che si sarebbe dovuto far pagare una simile eccezione e che invece non si era pretesa alcuna contropartita sufficiente, mentre questo sarebbe statoi il solo strumento per evitare la catastrofe. Ha precisato che il presidente Habyarimana non era in nessun caso un uomo ottuso, ma al contario un politico assai abile, un uomo di realpolitik, che era sensibile a qualche cattiveria espressa con gentilezza, che si potevano esercitare pressioni e che la Francia disponeva di leve di cui non aveva fatto uso in pieno. Ha aggiunto che se essa non l’aveva fatto il motivo era il fatto che, nello spirito dei responsabili di questa politica, v’era un certo accordo con la posizione ruandese, in particolare sul carattere esterno della minaccia che pesava sul governo ruandese. Per la Francia dietro al FPR c’era il diavolo anglosassone.
Su questo punto ha sottolineato che soltanto per un caso il FPR era venuto dall’Uganda e che questo caso era da attribuirsi alla politica ugandese. La comunità tutsi in esilio in Uganda, partecipando alla guerra civile ugandese, aveva potuto ricevere uniformi, armi e una formazione militare, cosa che non accadde né in Zaire né in Burundi. Ha giudicato errato il dire, come il sig. Jean-Christophe Mitterrand o il sig. Védrine, che la comunità tutsi in Uganda era la più importante della diaspora, perché è nel Burundi che si trovava il maggior numero di Tutsi in esilio. Ha aggiunto che i Tutsi ruandesi, non avendo avuto accesso a una formazione militare, non hanno potuto prendere le armi e che semplicemente sono ritornati le armi alla mano coloro che avevano armi in mano, ossia i Tutsi dell’Uganda. Ha fatto notare di aver sempre pensato che, se il FPR fosse stato formato da esiliati tutsi del Burundi o dello Zaire e se i suoi dirigenti fossero stati perfettamente francofoni l’atteggiamento della Francia sarebbe stato molto più sfumato. Ha aggiunto che la Francia non ha esercitato forti pressioni [chantage=ricatto] sul presidente Habyarimana perché i responsabili francesi condividevano il sentimento profondo che la minaccia sospesa sul suo regime aveva carattere esterno e non interno.
Su questo punto ha concluso che l’intervento francese era stato mal condotto. La Francia non ha saputo modulare il suo aiuto, non conosceva il terreno. Ha fatto errori. Si è avventurata in un Paese la situazione del quale essa non controllava.
Per quanto riguarda le felicitazioni del FPR per il ruolo svolto dalla Francia nei negoziati di Arusha, le ha qualificate come gentilezze diplomatiche e ha fatto osservare che il FPR non aveva alcuna ragione di rifiutarvisi.
Riguardo all’eventuale doppio gioco del presidente Habyarimana, il sig. Gérard Prunier ha dichiarato che a parer suo costui non faceva il doppio gioco ma almeno un quintuplo gioco. Ha valutato che il suo comportamento era terribilmente complicato. Cercava di mantenere il potere. Aveva contro di lui nello stesso tempo la sua opposizione hutu e il FPR che veniva dall’estero. Cercava di sedurre una parte dei emembri dell’opposizione hutu dicendo loro che, in quanto hutu, dovevano essere con lui contro i nemici tutsi. Doveva anche scendere a compromessi verso pressioni che gli venivano dallo Zaire da un lato e dall’Uganda dall’altro. Contemporaneamente cercava di evitare che gli estremisti all’interno del suo regime divenissero troppo potenti. A questo proposito il sig. Prunier ha precisato di rimanere nella propria convinzione che proprio questi estremisti sono coloro che lo hanno assassinato, il 7 aprile 1994, aggiungendo di disporre di elementi che purtroppo non avrebbe potuto mettere a disposizione della commissione cognitiva per ragioni di incolumità personale.
Il presidente Paul Quilès ha allora osservato che, a questo proposito, il sig. Gérard Prunier era il primo ad affermare di avere delle convinzioni, mentre tutti coloro che la commissione aveva sentito non avevano formulato altro che ipotesi. Gli ha fatto osservare che, se non poteva fornire gli elementi sui quali egli fondava la sua certezza, le sue dichiarazioni non avrebbero avuto alcun valore.
Il sig Gérard Prunier ha convenuto che, in effetti, essi non avevano valore alcuno, che non occorreva che la commissione ne tenesse conto e che questo era realmente un peccato.
Ha aggiunto di essere perfettamente consapevole dell’importanza di questo attentato nello scatenarsi del genocidio e che se gli fosse stato possibile produrre testimonianze precise su questo argomento l’avrebbe fatto.
Riprendendo la sua analisi, ha dichiarato che il presidente Habyarimana era un semi-estremista che, a mano a mano che percepiva il degradarsi della situazione, ritornava verso il centro mentre in modo simmetrico l’ala estremista del MRND, l’antico partito unico che restava il partito dominante, non cesava di rafforzarsi. Ha aggiunto che non si sarebbe potuto comprendere la posizione del presidente Habyarimana se non lo si fosse visto minacciato da molte parti e nello stesso tempo. Nella situazione scomoda e fragile in cui si trovava non poteva, per mantenere il potere, che condurre un gioco multiplo basato sulla duplicità:
Ha precisato che la conclusione e l’applicazione degli accordi di Arusha rappresentavano innanzitutto, per il presidente Habyarimana, una posta in gioco tattica. Egli si preoccupava innanzitutto delle reazioni dell’opposizione hutu del sud, degli estremisti della CDR, degli Interharamwe o del FPR. Per questo motivo egli non ha firmato finché ha avuto l’impressione che era meglio non firmare, ha firmato quando ha pensato che si trattava della tattica migliore e, dopo aver firmato gli accordi, non li ha applicati perché aveva paura delle conseguenze della loro messa in opera. Il sig. Prunier ha fatto notare che, mentre questi accordi erano stato sottoscritti il 3 agosto 1993, al momento dell’assassinio del presidente Habyarimana il 6 aprile 1994 essi non avevano avuto il benché minimo inizio di applicazione.
Il sig. Prunier ha valutato che senza alcun dubbio il presidente Habyarimana non sapeva lui stesso, dove questa tattica avrebbe portato e che di fatto non si trattava altro che di durare. Ha precisato che la situazione era diventata estremamente tesa, che a Kigali, dove egli stesso si trovava in quei giorni, la crescita della tensione era fisicamente palpabile. Alle ore 20 non c’era più alcuno per le strade. A sostegno di questa considerazione ha citato un ricordo personale. Rientrando una sera a casa sua con un amico, dopo aver attraversato dodici sbarramenti di soldati su una distanza di circa due chilometri, aveva deciso alla fine di andare a trascorrere la notte in un albergo hutu dell’opposizione, perché il suo amico temeva di non poter sopravvivere al prossimo posto di blocco. Ha aggiunto che in questo hotel essi avevano constatato di essere una ventina di persone nella medesima situazione. Concludendo che, in un simile contesto, il presidente Habyarimana non poteva agire altrimenti che giorno per giorno.
Il sig. Bernard Cazeneuve ha innanzitutto rilevato che l’esposizione del sig. Prunier sulla posizione politica del presidente Habyarimana metteva in evidenza il fatto che costui si era trovato di fronte a opposizioni molteplici, mentre quella del FPR si sdoppiava in una opposizione perfino in seno al suo governo, opposizione che con il passare del tempo si era radicalizzata, che gli accordi di Arusha erano oggetto di negoziazioni, che la data della loro applicazione si avvicinava. Questa opposizione, alla quale il sig. Prunier attribuiva la responsabilità dell’assassinio del presidente Habyarimana, era stata la più temibile, la più estremista e all’origine della progettazione e della messa in opera del genocidio.
Ha fatto allora notare che il fatto che il presidente Habyarimana sia stato messo di fronte a tutte queste opposizioni poteva giustificare la tesi sviluppata da diversi protagonisti politici o diplomatici francesi, secondo la quale Habyarimana occupava una posizione centrale, perfino centrista, nel sistema poltico ruandese e che quindi egli era nelle condizioni di formare un certo consenso attorno alla sua persona.
Ha osservato potersi anche considerare che il presidente Habyarimana fosse al centro di contraddizioni forti a un punto tale da renderlo incapace di provocare il minimo movimento e che tutta la strategia elaborata dalla Francia fosse necessariamente votata al fallimento. Ha domandato allora al sig. Prunier se l’errore non fosse stato piuttosto di aver considerato che il presidente Habyarimana si trovava in posizione centrale o di aver sottostimato il fatto che egli fosse condannato all’immobilismo dalla necessità.
Il sig. Gérard Prunier ha risposto che la posizione politica del presidente Habyarimana non era stata la stessa durante tuta la durata del conflitto e che all’inizio egli non era certamente in una posizione centrista ma che si era ritrovatoin questa situazione a mano a mano che le opposizioni, contradditorie nel loro stesso ambito, si sviluppavano attorno a lui.
Il sig. Bernard Cazeneuve si è allora chiesto se quelle opposizioni contraddittorie, che si erano cristallizzate attorno a lui e di fronte alle quali egli si trovava, erano dovute alla sua mancanza di abilità nel risolverle o alla pressione che la Francia aveva esercitato su di lui affinché il suo regime cambiasse, aggiungendo che in questa ultima ipotesi non si poteva rimproverare alla Francia altro se non di non avere fatto su di lui sufficienti pressioni.
il sig. Gérard Prunier ha innanzitutto risposto che la difficoltà risiedeva nel fatto che il presidente Habyarimana non poteva pagare il prezzo che la Francia avrebbe potuto chiedere, ovvero l’abbandono del potere. Per lui la questione non si poneva neppure.
Ha aggiunto che, se Habyarimana si era trovato in una simile situazione, questo non accadeva né perché egli era incapace di gestirla né a causa delle pressioni della Francia, ma a causa dell’evoluzione della società ruandese stessa, che era in pieno movimento di trasformazione e tutto ciò molto prima del vertice di La Baule, contrariamente a quanto affermato dal sig. J.-C. Mitterrand nella sua testimonianza.
Su questo punto ha fatto notare che, molto spesso, il problema degli stranieri in Africa – ed era ancora il problema degli Americani in quella zona- era quello di non porre sufficiente fiducia nella dinamica interna delle società e di pensare che se non ci si immischia nulla cambierà. Ora, ha precisato, questa dinamica si può trascurarla, si può accompagnarla, ma non la si può negare. Essa si realizza in ogni modo, contro l’intervento esterno, malgrado questo o indipendentemente dalla sua azione. Ha aggiunto che, da questo punto di vista, egli considerava che l’azione della Francia non fosse stata determinante in quello che potrebbe essere definito lo scivolamento centrista del presidente Habyarimana, ma che invece questi vi sia stato forzato dall’evoluzione degli avvenimenti, che del resto non corrispondeva per nulla affatto a quello che lui avrebbe sperato. Ha aggiunto che il presidente era costantemente sulla difensiva e che a partire dal 1992 scivolava, scivolava senza sosta, e por domandare che lo si sostenesse in ogni caso egli eccepiva la sua qualità di moderato in rapporto a certi altri. Ha tuttavia precisato che durante la straordinaria procrastinazione che va dal 3 agosto 1993 fino all’esplosione del genocidio si sentiva salire la pressione e ha stimato che, tenuto conto del fatto che con le baionette, come si usa dire, si può fare tutto salvo che sedervisi sopra, gli fosse diventato impossibile rimanere in questa situazione.

Il sig. Bernard Cazeneuve ha allora osservato che, al punto in cui si trovava con le sue investigazioni, la missione cognitiva aveva la sensazione che il processo di liberalizzazione del regime procedeva bene con una dinamica propria alla società ruandese, formatasi ben prima del 1990, in particolare col movimento per la liberalizzazione della stampa e lo sviluppo dell’idea che un giorno si sarebbe potuto imporre il pluripartitismo. Tuttavia ha osservato che, se prima del 1990 ci si trovava in una situazione nella quale la dinamica propria alla società ruandese tendeva al pluripartitismo e alla democratizzazione, a partire dal 1990, al contrario, si assisteva a uno stato di tensione. Si è detto meravigliato che proprio nel momento in cui il FPR attaccava, in cui gli odi aumentavano, le tensioni si accrescevano, l’astio razziale e gli estremismi si esacerbavano, in breve quando la dinamica si era rotta, il presidente abbia preso una posizione centrista. Ne ha tratto la conclusione che non era la dinamica propria alla società ruandese che glielo aveva imposto, bens^ pressioni venute da altre parti.
Ha aggiunto che i dispacci diplomatici che il sig. G. Prunier si era rammaricato di non aver avuto a disposizione mostravano che la Francia non aveva cessato di fare pressioni, forse maldestre, fra il 1990 e il 1994, specialmente sul tema dei diritti dell’uomo.
Il sig. Gérard Prunier ha risposto che lì stava tutta la differenza fra le note ufficiali e le sensazioni grezze sul terreno. Aggiungendo che queste pressioni esistevano forse sotto la forma di note diplomatiche, ma che c’era una comunicazione sottostante che esprimeva esattamente il contrario, ha stimato che si era così creato uno scarto considerevole fra la posizione ufficiale della Francia e la percezione da aprte della popolazione ruandese della presenza francese a fianco del regime.
Ha precisato che gli estremisti hutu avevano sempre avuto l’impressione che la Francia fosse alle loro spalle e ha ricordato a questo proposito la straordinaria accoglienza fatta all’arrivo dell’operazione Turquoise dai responsabili del genocidio, che applaudivano e sventolavano gigantesche bandiere francesi – per le quali si chiedeva dove avessero trovato la stoffa – perché credevano che l’esercito francese venisse ad aiutarli.
Ha aggiunto che, anche se questo non era assolutamente il messaggio che la Rancia voleva indirizzare ai Ruandesi, è così che era stato ricevuto, nello stesso tempo dagli estremisti ma anche da parte degli Hutu liberali o dei Tutsi, i quali avevano l’impressione che la Francia fosse loro nemica. Aggiungendo che le persone non agivano in funzione delle intenzioni profonde che si possono avere ma dalla percezione che esse ne hanno, ha valutato che, anche nel caso questa percezione fosse errata, essa era stata sufficiente per contribuire allo svolgersi degli avvenimenti.
Il sig. Bernard Cazeneuve ha precisato di comprendere perfettamente la dimostrazione del sig. Prunier secondo la quale una dinamica propria alla società ruandese avrebbe obbligato il presidente a cambiare atteggiamento. Tuttavia ha osservato che, cronologicamente, quest’ultimo avrebbe adottato un comportamento moderato non prima del 1990, quando la dinamica politica del Ruanda spingeva verso la democrazia, ma dopo, quando la situazione era diventata inestricabile per lui. Ha domandato come si poteva considerare, in queste condizioni, che erano le forze politiche ruandesi che gli imponevano allora quella posizione politica.
Il sig Gérard Prunier ha reso attenta la missione cognitiva sul fatto che le forze politiche ruandesi che si erano costituite nel momento in cui il presidente Habyarimana cambiò atteggiamento, nel 1993, non erano quelle che esistevano prima della guerra. Ha precisato che la tensione non era iniziata nel 1990, ma alla fine degli anni ’80, con il crollo del prezzo del caffé, l’esaurimento dello stagno, l’adeguamento strutturale e la diminuzione del volume dell’aiuto internazionale e che in quell’epoca un certo numero di Hutu, vedendo in qualche maniera la loro fetta di torta che rimpiccioliva, avevano cominciato ad ammazzarsi fra loro. A questo proposito ha osservato che l’espressione che definiva il Ruanda come la “Svizzera dell’Africa” aveva sempre fatto sorridere coloro che conoscevano il Paese e che in questa Svizzera si trovavano cantine dove erano stati assassinati tutti i ministri hutu del precedente regime. Ha puntualizzato dicendo che il quel periodo le tensioni non concernevano altri che un certo numero di Hutu. Non si poteva pensare che gli Hutu fossero al potere come lo esprimeva l’ideologia della propaganda, il rubanda nyamwinshi. Di fatto si trattava di lotte in seno a quello che veniva chiamato l’ Akazu, vale a dire la piccola casa, la corte del potere ruandese. Ha aggiunto che questa tensione si era manifetsta, per esempio, con l’assassinio del colonnello Mayuya, che era molto vicino al presidente Habyarimana. Ha ritenuto che l’offensiva dei Tutsi aveva allora semplicemente fatto salire la temperatura di una pentola che coceva già a fuoco vivo.
Egli ha fatto notare che così, nel 1993, se il presidente Habyarimana si era ritrovato in posizione centrista, non è per nulla dovuto al suo essere centrista, ma perché aveva trovato elementi più estremisti di lui e cominciava ad avere paura del modo con cui lo si aggirava.
Ha aggiunto che, a suo parere, per questi estremisti che andavano al di là del presidente Habyarimana il potere doveva passare attraverso la sua eliminazione.
Il sig. Gérard Prunier si è allora augurato di poter rispondere all’argomentazione secondo la quale gli estremisti hutu non avrebbero potuto abbattere l’aereo presidenziale perché due di loro si trovavano a bordo, il colonnello Elie Sagatwa e il generale Déogratias Nsabimana, capo di stato maggiore dell’esercito ruandese.
Ricordando per primo il caso del generale Nsabimana, il sig. Prunier l’ha presentato come un oppositore che, nella primavera del 1994 aveva fornito importanti informazioni sulla preparazione del genocidio a suo cugino, Jean Birra, all’epoca direttore della Banca centrale del Ruanda. Questi le aveva in seguito portate a conoscenza dei Belgi – è il famoso episodio che è stato rintracciato dalla commisione d’inchiesta del Senato belga – ma i Belgi si erano rifiutati di credergli o gli avevano manifestato un cortese interesse senza dare seguito ai suoi avvertimenti. Non avendo contatti all’esterno del Paese, il generale aveva comunicato a suo cugino un primo elenco di più di mille persone destinate a essere assassinate, del quale era venuto a conoscenza per le sue relazioni con gli estremisti appartenenti ai servizi segreti. Gli aveva chiesto, poiché si recava spesso in Europa, di spiegare ai bianchi la gravità della situazione. Per quanto riguarda l’estensione del genocidio, il numero delle vittime così designate poteva sembrare limitato, ma si trattava degli uomini politici, dei giornalisti, degli uomini d’affari che appartenevano all’opposizione hutu o all’élite tutsi, la maggior parte dei quali sono stati uccisi il 7, 8, 9 e 10 aprile. Spiegando che il generale Nsabimana non era per niente d’accordo con i progetti di genocidio e che questo gli estremisti lo sapevano perfettamente, ha concluso che ai loro occhi non vi era problema alcuno perché egli sparisse assieme al presidente.
Quanto a Elie Sagatwa,. l’ha descritto come un vero estremista, un uomo calcolatore che aveva scelto il campo di Habyarimana contro l’ascesa cella CDR e degli Interahamwe. Egli si opponeva così al clan di Madame, cioè di Agathe Kansinga, la quale, ha sottolineato, aveva avuto gli onori di una accoglienza quasi ufficiale al suo arrivo a Parigi, e dei suoi fratelli, clan che ha stimato essere stato veramente nel cuore dell’organizzazione del genocidio. Ha precisato che in questo caso non si trattava di Tutsi, ma unicamente di Hutu e che erano lotte di potere all’interno dell’ Akazu stessa.
A proposito delle tensioni che si erano potute creare fra Hutu, il sig. Prunier ha citato le dichiarazioni di un uomo alla cui memoria ha voluto rendere omaggio, il suo amico Seth Sendashonga, assassinato qualche settimana prima a Nairobi, molto probabilmente su istigazione del nuovo governo ruandese, e che era uno di quegli Hutu liberali eterne vittime, vale a dire prima vittime del regime di Habyarimana e poi vittime del regime attuale. Seth Sendashonga gli diceva: “Se i Tutsi non avessero attaccato il Ruanda, ci sarebbe stata una guerra civile fra noi, fra Hutu”. Il sig. Prinier ha aggiunto di pensare che il suo amico aveva perfettamente ragione e che questo era il genere di considerazioni che passavano del tutto al disopra delle teste dei responsabili francesi.
Successivamente ha detto che le lotte di potere in seno all’ Akazu portavano un certo numero di persone a cambiare bandiera e che così il colonnello Sagatwa aveva deciso di diventare l’ umugaragu, ossia il “cliente”, in senso romano, del presidente. Ha precisato che in realtà il presidente non era altro che un immigrato, un pezzo d’uomo ben piantato, che si era fatto strada nell’esercito e che tutti sapevano non essere di origine ruandese ma zairese. Ha aggiunto che, sposando Agathe, proveniente da una grande famiglia del nord, aveva fatto un matrimonio molto al disopra della sua situazione e che di fatto era lei e i suoi fratelli il cuore del sistema, mentre il rpesidente non ne era che la periferia. Ha sottolineato che il presidente aveva sempre perduto i suoi “clienti”, che gli uomini che si schieravano al suo fianco morivano e che questo era stato il caso del colonnello Mayuya, assassinato nel 1988.
Il sig. Prunier ha sostenuto allora che il colonnello Sagatwa aveva pensato fosse possibile svolgere questo ruolo accanto al presidente, che aveva scommesso sul successo degli accordi di Arusha e sul fatto che il presidente sarebbe andato fino in fondo. Il colonnello Sagatwa aveva quindi considerato che gli sarebbe stato conveniente mettersi a lato del presidente, abbandonando il campo precedente, ossia quello di Madame. Era evidente che a partire da quel momento i suoi vecchi amici avevano giudicato che questo cambiamento di tattica faceva di lui un uomo segnato. Il fatto che si fosse trovato sull’aereo non garantiva quindi più, assolutamente, dal punto di vista di una certa fazione dell’ Akazu, la sicurezza del presidente. Non era certamente lui che si sarebbe risparmiato.
Il sig. Bernard Cazeneuve ha domandato allora al sig. Prunier se, come era stato detto più volte alla missione cognitiva, il colonnello Sagatwa fosse il fratello di Madame.
Il sig. Prunier ha risposto che non era per niente vero e ha ricordato che il termine di “fratello” nella cultura africana è utilizzato in modo molto largo. Ha precisato che, personalmente, non pensava che il colonnello Sagatwa avesse avuto il benché minimo legame famigliare con Madame Kansinga, aggiungendo che non v’era dubbio che egli fosse diventato un uomo del rpesidente nel corso dell’inverno 1993-1994.
Ritornando sull’analisi presentata dal sig. Gérard Prunier circa l’attentato, il presidente Paul Quilès gli ha domandato come egli spiegava il fatto che il FPR non avessa mai fornito prove formali della responsabilità degli estremisti hutu.
Precisando che allorché si parlava di prove si trattava di elementi di fatto ammissibili da parte di un tribunale come documenti, oggetti, testimonianze oculari, il sig. Prunier ha stimato che il FPR non ne disponesse.
Ricordando poi ciò che aveva scritto sui massacri del FPR, ovvero che essi erano meno ambiziosi e costituivano una tattica, ha precisato le ragioni per le quali aveva usato quei termini. Non si trattava in effetti di una soluzione finale, poiché le azioni violente del FPR, iniziate dal periodo del genocidio, non miravano a sterminare la totalità della popolazione hutu, per l’evidente impossibilità fisica. D’altra parte, contrariamente a ciò che egli aveva creduto in un primo momento, questi massacri non erano delle semplici perdite di controllo, ma avevano origine realmente in una tattica, in una politica d’intimidazione portata avanti nella speranza di ottenere la sottomissione della popolazione hutu.
Egli ha fatto osservare che, oggi, nel 1998, a causa dell’eliminazione degli hutu moderati che avevano fatto parte per un certo periodo del governo di unità nazionale, il Ruanda si trovava in una situazione di separazione quasi totale fra le due comunità. Precisando il suo pensiero ha stimato che il potere era divenuto un bunker etnico tutsi, come un tempo c’era un bunker etnico hutu, e che questo non significava che la totalità della comunità in questione fosse rappresentata da quelle istanze governative. Ha aggiunto che un certo numero di Tutsi erano perfino spaventati dalla deriva dei partigiani di quel bunker, che ha qualificato come ”parmetutsi”, con riferimento a ”Parmehutu” che era il nome del partito del presidente Kayibanda.
Ha precisato che la tattica del massacro era stata impiegata dalFPR con un’intensità variabile. Era stata utilizzata in pieno fra l’agosto 1994 e il marzo 1995. Poi la calma era tornata nel corso del 1995 come nel 1996, prima che i massacri riprendessero con forza dall’aprile 1997, col ritorno in Ruanda dei rifugiati nello Zaire, perché alcuni di questi rifugiati, colpevoli di atti di genocidio, rinnovavano i loro attacchi contro i Tutsi senza che l’esercito e il governo ruandesi fossero in grado di controllarli, contrariamente a ciò che essi speravano.
Riguardo alla sorte del personale tutsi dell’ambasciata di francia al momento dell’operazione Amaryllis, il sig. Prunier ha affermato di disporre di testimonianze oculari e di nomi che gli era stato chiesto di non citare in pubblico ma che si potevano mettere a disposizione della missione. Ha indicato che gli interventi erano stati soprattutto richiesti per telefono e che al momento in cui il genocidio era stato scatenato vi erano state telefonate frenetiche di persone che lavoravano all’ambasciata, ma anche presso missioni di sviluppo francesi, l’ Alliance française o l’ufficio della Cassa francese per lo sviluppo:
Molto spesso, in realtà, le ONG, le Nazioni Unite, le ambasciate dei grandi Paesi occidentali avevano una maggioranza di personale tutsi. Questa situazione rifletteva semplicemente la differenza di formazione che risaliva all’epoca coloniale. In conseguenza della politica belga, i Tutsi erano molto meglio educati, perfino dopo venticinque o trent’anni di regime a base etnica hutu.
Il sig, Prunier ha spiegato che queste persone, sapendo di andare alla morte, avevano pensato che quella era la loro ultima chance e avevano quindi chiesto che le si venisse a prendere [a casa loro]. Ha fatto osservare che gli abitanti non osavano uscire di casa e che quindi era relativamente facile andare al loro soccorso. Ha citato l’esempio di un capitano senegalese della MINUAR [ndt.: MISSION DES NATIONS UNIES POUR L’ASSISTANCE AU RWANDA

http://www.un.org/french/peace/f_unamir.htm, ucciso più tardi nei combattimenti al momento della presa di Kigali, che si era specializzato nella ricerca dei Tutsi: andava a prenderli a casa loro e, scherzando con i milizianu ubriachi, riusciva a fare loro superare gli sbarramenti. Ha anche indicato che, malgrado queste circostanze, al momento dell’operazione Amaryllis [ndt.: intervento militare francese, in teoria destinato a contrastare il genocidio] non si era andati a prendere i Tutsi che chiedevano aiuto. Ha aggiunto di conoscere il caso di una coppia mista, che oggi vive in Francia, della quale si è cercato di convincere la donna a non insistere per partire assieme al marito, o ancora che, mentre la più grande farmacia di Kigali era tenuta da un Tutsi sposato a una russa, si era evacuata la donna bianca ma non il marito e che l’evacuazione dei figli aveva dato luogo a un lungo e difficilissimo negoziato sulla pista di atterraggio dell’aeroporto.
Il sig. Pierre Brana, facendo notare che era stato detto alla missione cognitiva che tutte le persone rifugiate all’ambasciata avevano potuto essere evacuate ma che i membri del personale non vi si erano putiti recare perché erano a casa loro, eccetto una persona di origine tutsi, il sig, Prunier ha risposto che aveva sentito parlare di questa persona ma che non la conosceva. Ha spiegato per contro di sapere che le persone rifugiate all’ambasciata erano per la maggior parte dignitari del regime e che un certo numero di questi avevao voluto mettersi al riparo perché non erano del tutto sicuri, a ragione, dell’esito del processo che avevano appena scatenato. Ha precisato che un solo oppositore politico aveva potuto entrare nell’ambasciata, Joseph Ngarembe, la cui famiglia vive a Lilla e che oggi è impiegato al Tribunale internazionale per tradurre i documenti in kinyarwanda. Il sig. Ngarembe, che era membro e quadro intermedio del Partito socialdemocratico ruandese tutti i cui dirigenti sono stati assassinati, era entrato nell’ambasciata grazie a un’amicizia personale e assolutamente non per una decisione politica.
Ha riaffermato che gli impiegati dell’ambasciata non avevano ricevuto aiuti per una possibile evacuazione, mentre sarebbe bastato portarli non già in Francia, ma semplicemente in Burundi o in Uganda per metterli al sicuro.
Il sig. Jacques Myard domanda al sig. Prunier dove si trovasse al momento dei fatti e questi risponde di essere stato a Parigi e di tenere a precisare di non essere in alcun caso un testimone oculare degli avvenimenti che espone.
A proposito delle evacuazioni, il sig. Myard ha precisato che il centinaio di orfani che erano stati prelevati da un orfanotrofio da parte dell’esercito francese a quell’epoca non appartenevano, da parte loro, ad alcun partito.
Il sig. G. Prunier ha obiettato che, pur rallegrandosi per l’evacuazione di questi orfani, quell’operazione era pur sempre servita come camuffamento per evacuare un certo numero di persone molto poco raccomandabili, che si erano volatilizzate fin dal momento in cui avevano messo piede sul suolo dell’aeroporto di Roissy. Ha aggiunto che, fra questi individui, vi era una quarantina di sedicenti infermieri, che prima di allora non si erano mai visti nell’orfanotrofio e che non si sono mai più visti neppure in seguito. Non si trattava quindi di un’operazione di natura interamente umanitaria.
Il sig. Pierre Brana ha ricordato che, nella sua opera, il sig. Prunier aveva scritto con cautela: “Il colonnello Bogosora, direttore dei servizi [segreti?] al ministero della difesa, eminenza grigia del governo provvisorio, sembra essere l’organizzatore generale di tutta l’operazione. Sembra abbia coordinato la soluzione finale”. Egli gli ha domandato se gli fosse possibile fornire alla commissione cognitiva precisazioni supplementari a questo proposito.
Affermando quindi che il Ruanda era sempre stato presentato come la chiave di volta della regione e che, di fatto, in seguito agli avvenimenti del Ruanda si sono prodotti quelli dello Zaire, si è detto desideroso di conoscere il suo punto di vista sulla questione.
Infine si è interrogato sul ruolo svolto dall’OUA, che ha stimato essere stato per lo meno di un’estrema discrezione.
Il sig. Prunier ha innanzitutto risposto che l’OUA (Organizzazione dell’Unità Africana) non aveva svolto alcuna azione efficace ed era stata, come al solito, completamente sorpassata dagli avvenimenti.
Quindi ha stimato che il ruolo svolto dal colonnello Bogosora era effettivamente molto importante, precisando che questi era un grande superstite, che era sopravvissuto a tutte le purghe e riorganizzazioni ministeriali e che il suo itinerario illustrava in modo esemplare le lotte in seno all’ Akazu.
Ha spiegato che, nel 1992, il presidente Habyarimana aveva chiesto al ministro della Difesa James Gasana di sbarazzarlo di un certo numero di uomini del suo entourage che trovava poco sicuri e perfino pericolosi per lui, mettendoli al margine o eliminandoli dal loro posto e che fra questi figuravano i colonnelli Rwagafilita, Serubuga, Sagatwa, prima che cambiasse collocazione politica, eBagosora. Ha aggiunto che J. Gasana, se era riuscito nel suo compito per i colonnelli Rwagafilita, Serubuga e Sagatwa, aveva sempre fallito nel caso del col. Bagosora, che rappresentava l’ultimo punto di resistenza di Madame e dei suoi fratelli. Finché questi restava segretario amministrativo del ministero della Difesa, essi e il loro gruppo mantenevano in quel ministero un accesso che consideravano assolutamente vitale, non solamente per il controllo dell’esercito, ma anche per la possibilità di fare la cresta per importi ingenti. A questo proposito ha fatto osservare che il decuplicarsi, in tre anni, degli effettivi dell’esercito, da 5’200 a 50’000 uomini, accrescendo in misura considerevole il bilancio della Difesa, aveva aperto in modo similmente importante le possibilità di sottrazione di fondi, dapprima per finanziare le milizie – e così sia le milizie come gli Interahamwe o gli Impuzamugambi sono state finanziate con il denaro rubato al ministero della Difesa – ma anche ai fini di un arricchimento personale o politico, perché i soldi trasferiti in belgio o nel Lussemburgo potevano servire come tesoro di guerra per il futuro. Il sig. Prunier ha aggiunto che tale era stato il caso nel esente e che questa circostanza spiegava come i fratelli di Madame fossero sempre in azione. Ha detto di non credere di svelare un segreto dicendo che il sig. Rwabukumba, fratello di Madame, disponeva della firma sul suo conto a Bruxelles, che permetteva il funzionamento del loro raggruppamento politico. Ha aggiunto che è proprio questo ruolo di agente del gruppo in seno al ministero della Difesa che per James Gasana aveva reso Bagosora impossibile da allontanare, perfino quando era arrivato a scassinare i cassetti dell’ufficio del suo ministro per rpendervi dei documenti. Ha indicato, all’occasione, che non tutto era soffuso di tenerezze e d’amore dentro al campo degli estremisti.
A proposito del ruolo del colonnelloBagosora in occasione dell’attentato contro l’aereo del presidente, il sig. Prunier ha notato innanzitutto che quest’ultimo sembrava per così dire essere un poco “andato nel pallone” nella notte del 7 e che, quando era stato a trovare l’ambasciatore degli stati Uniti o il sig. Booh-Booh, rappresentante dell’ONU, sembrava essere in uno stato di grande emozione. Ha aggiunto che, tenuto conto del disordine che allora regnava, era molto difficile sapere se egli era il punto di controllo delle operazioni o il vertice, il punto centrale dell’ affaire. Ha precisato che si vedeva una nebulosa di gente, che molte persone avevano svolto ruoli chiave e che era possibile non vi fosse mai stato alcun vertice.
Quanto alla tesi del Ruanda come chiave di volta della regione, il sig. Prunier ha risposto di non crederci per nulla o, più esattamente, che se la destabilizzazione del Ruanda poteva avere conseguenze nella regione, la pace in Ruanda non aveva influenza alcuna sui Paesi confinanti. Ha citato l’esempio dell’Uganda, che si è trovato in stao di guerra civile attiva o larvata dal 1966 al 1986 senza che il Ruanda abbia svolto il benché minimo ruolo, salvo alla fine, fra il 1981 e il 1986, quando rifugiati Tutsi sono entrati nell’organizzazione di guerriglia di Yoweri Museveni. A questo proposito ha precisato che non erano i Tutsi ruandesi che costituivano la maggioranza nella forza di guerriglia di Museveni nel gennaio 1986, quando prese Kampala, bensì i Baganda, ossia l’etnia più numerosa nella regione e che i Tutsi rappresentavano da parte loro senza dubbio fra il 20% e il 30% di quella forza e in ogni caso meno del 40%.
Al sig. Pierre Brana che gli domandava quale spiegazione desse circa l’impotenza completa dell’OUA nel dramma del Ruanda, il sig. Prunier ha evocato diversi momenti della storia di questa organizzazione. Innanzitutto ha sottolineato che nel 1978, quando il presidente Nyerere aveva respinto l’esercito di Idi Amin Dada, che aveva invaso la Tanzania, ma l’aveva anche inseguito fino a Kampala con lo scopo di provocare il crollo del regime, l’OUA l’aveva violentemente criticato, stimando si trattasse di un’ingerenza negli affari di uno Stato sovrano. Ha aggiunto che il presidente Nyerere, completamente disilluso, aveva allora detto: “L’OUA non è un’organizzazione internazionale, è un sindacato di capi di Stato il cui compito essenziale è quello di coprirsi reciprocamente”.

In seguito ha detto che nel febbraio 1986, quando Yoweri Museveni aveva preso il potere in Uganda, uno dei suoi primi atti era stato quello di andare all’OUA e di insultare pubblicamente l’assemblea generale dell’organizzazione, alla quale aveva in sostanza detto: “Dove eravate quando eravamo massacrati? Dove eravate all’epoca del regime dittatoriale di Idi Amin? Dove eravate durante la dittatura di Obote? Quindici anni più tardi in Uganda vi sono trecentomila morti. Vi ho mai sentito denunciare questa dittatura di Neri su altri Neri? Vi ho sentito parlare molto dell’apartheid in Sudafrica. D’altra aprte non vi ho visto fare molto in proposito. Ma per quanto riguarda ciò che è accaduto in Uganda non ne avete mai parlato, perché per voi non è grave che un Africano uccida un altro Africano”. Il sig. Prunier, aggiungendo di apprezzare molto il parlare franco del presidente Museveni e che questo intervento, il cui impatto sull’assemblea dell’OUA era stato molto impressionante, gli aveva fatto immenso piacere, ha concluso che se il generale De Grulle, in un momento d’irritazione, ha qualificato l’ONU come “aggeggio”, egli non avrebbe saputo come occorresse definire l’OUA.
Dopo aver sottolineato di aver ascoltato con grande interesse la descrizione della dinamica interna della società ruandese che il sig. Prunier aveva presentato e stimato che essa poteva far pensare che, qualsiasi cosa si fosse fatta, il risultato finale sarebbe forse stato il medesimo, il sig. Jacques Myard gli ha domandato quale atteggiamento avrebbe consigliato al Presidente della Repubblica [francese] se, nel 1990, fosse stato il suo consigliere per gli affari africani.
Il sig. Gérard Prunier ha risposto che nel 1990 avrebbe proposto di inviare Noroît [ndt.: =Maestrale, nome in codice di una spedizione militare francese in Ruanda]. Ha aggiunto che le divergenze esistevano circa ciò che ne sarebbe seguito. Ha valutato che la questione verteva sul prezzo che Noroît sarebbedovuta costare al regime di Habyarimana, che si sarebbe dovuto fissarlo molto più in alto e che si era venduta una merce di prima scelta a un prezzo da superdiscount.
Ha giudicato che il FPR non avrebbe dovuto prendere Kigali, a nessun costo, perché le conseguenze sarebbero state molto gravi. Ha aggiunto essere questo anche il punto di vista di molti oppositori hutu nel febbraio 1993, quando in seguito a un’altra offensiva il FPR era già a un passo dal raggiungere Kigali. Ha precisato che se il FPR si era fermato di sua volontà era perché aveva allacciato contatti con l’opposizione hutu, che gli aveva chiesto di non prendere Kigali a causa dei rischi che questa azione avrebbe comportato, perché gli estremisti erano pronti a scatenare massacri nel resto del Paese.
Ha considerato che la Francia aveva la possibilità di esercitare pressioni reali più efficaci di quelle che essa aveva fatto, della cui esistenza si è dichiarato certo e che sicuramente la commissione cognitiva aveva raccolto nei suoi archivi, ma che si limitavano a testi cortesi. Ha precisato di essere sicuro che, quanto tutte le condizioni formali di un sostegno alla democrazia erano state adempiute, altrettanto non vi era stata una vera e propria politica di costrizione e che si era lasciata troppa mano libera al regime.
Jacques Myard ha allora domandato se questa politica di pressioni sarebbe stata sufficiente e se, tenuto conto del carattere ancestrale dell’antagonismo fra le comunità hutu e tutsi, la democratizzazione si sarebbe potuta mantenere sul lungo periodo.
Rilevando che il sig. Prunier aveva usato espressioni come “massacri meno ambiziosi” e “tattica di massacro”, il sig. René Galy-Dejean gli ha domandato se accettava la conclusione che in Ruanda il massacro era una forma di governo. Si è chiesto, sull’esempio del sig. Myard, come il tipo di pressioni che egli suggeriva avrebbe potuto avere la benché minima efficacia in quelle condizioni, salvo giungere alla coercizione esterna totale, allo scopo di impedire questa forma di potere che la tattica del massacro costituiva.
Il sig. Prunier ha innanzitutto risposto che c’erano stati anche momenti nella storia dell’Europa in cui il massacro era stato una tattica di governo e che dalle guerre di religione in Francia fino all’episodio nazista sul nostro continente si era visto ilo massacro come un mezzo di azione politica.
Ha in seguito dichiarato di non credere alla fatalità su un piano generale e ancor meno a quella della Storia. Ha fatto notare che prima del periodo coloniale non si trovava traccia alcuna di massacri reciproci fra Tutsi e Hutu ma che, al contrario, le molteplici guerre che si svolgevano in Ruanda opponevano ogni volta un lignaggio tutsi con i suoi clientes hutu a un’altra schiatta tutsi con i propri seguaci hutu. Queste guerre rassomigliavano così, stranamente, a quelle che si erano conosciute nel Medio Evo e che opponevano nobili con i loro vassalli, a cavallo, seguiti dai loro subalterni, da contadini e da servi.
Ha valutato che l’evoluzione del Ruanda verso una situazione di massacri periodici fra le comunità tutsi e hutu era il prodotto della loro storia e che, come qualsiasi altro prodotto, poteva essere modificato, facendo valere che, se si è creata una situazione, questa può essere ugualmente modificata o sostituita. Trattandosi della Francia, ha stimato che essa avrebbe avuto il diritto di non intervenire ma che nella misura in cui decideva di intervenire le occorreva farlo bene. A questo proposito ha precisato che in quell’epoca c’era un margine per l’intervento, un margine di manovra, e che non c’erano due comunità irrigidite faccai a faccia, come accade attualmente, ma che degli hutu, come Seth Sendashonga, potevano ritrovarsi nel FPR mentre si erano visti dei capi miliziani interahamwe che erano tutsi. Ha aggiunto che, attualmente, la porta era chiusa a causa del genocidio e giudicato che lo scopo del genocidio era stata la distruzione dello spazio di libertà che un tempo esisteva fra le due comunità e che per questo era stato un atto diabolico. Per quanto riguarda il FPR, ha indicato che il genocidio vi aveva provocato l’emarginazione dei liberali e l’aveva trasformato in un bunker etnico tutsi. Il genocidio ha dato così agli estremisti tutsi l’occasione di fare prevalere una politica di rottura di ogni rapporto con gli hutu, descritti come gli assassini dei tutsi.
Ha aggiunto che la Francia aveva l’opportunità di allargare lo spazio di libertà fra le due comunità, di rafforzare altrettanto la mano dei liberali e dei moderati, sia tutsi che hutu, nei loro rispettivi partiti, in modo da evitare che la situazione fosse presa in mano dagli estremisti, ma che questa politica aveva bisogno di maggiore fermezza. A questo proposito ha stimato che occorreva parlare al regime del presidente Habyarimana con espressioni che lui era capace di capire, delle parole non tenere, che bisognava sottometterlo letteralmente a un ricatto e che era questa la politica in grado di smorzare la crisi. Ha aggiunto che la Francia non aveva capito il Ruanda ma che, quando non si capisce, non è il caso di agire.
Il sig. Fraçois Lamy si è interrogato sulla contraddizione fra la tesi di un attentato commesso da estremisti hutu nella prospettiva di prendere il potere e commettere il genocidio e lo svolgersi degli avvenimenti perché, invece di assistere al fenomeno classico del rafforzamento dei responsabili politici, si era vista, al contrario, la famiglia del presidente Habyarimana e i dignitari del regime rifugiarsi all’ambasciata di Francia e dare l’impressione di una decadenza totale.
In seguito, ricordando che nella sua testimonianza il sig. Jean-Christophe Mitterrand aveva contestato la frase che il sig. Prunier aveva citata e anche la sua presenza nel proprio ufficio, gli ha domandato quello che egli sapeva sui legami fra i responsabili politici francesi e la famiglia del presidente Habyarimana e in particolaresulla realzioni fra il sig. J.-C. Mitterrand e i figli del presidente Habyarimana.
Il sig. Gérard Prunier ha risposto che sul disfacimento del regime seguito all’attentato e sull’inizio del genocidio anch’egli si faceva domande. Ha valutato che, in questi avvenimenti di straordinaria confusione, molte cose erano accdute contemporaneamente. Perfino fra gli estremisti alcuni sono stato spaventati da quello che avevano fatto; avevano visto di aver messo fuoco alla casa e di doverla evacuare. Altri, abituati a una vita molto confortevole, come Madame e i suoi fratelli, sono partiti su strategie abbastanza personali e con l’intenzione di ritornare quando tutto fosse terminato; pensavano che nell’attesa Parigi fosse meglio. Infine gente come Kambanda, Sindikubwabo e Bicamumpaka se ne sono andati a Gitarama perché avevano l’impressione che la situazione militare non potesse essere controllata a Kigali e sono andati fino in fondo.
A proposito del suo incontro con il sig. Jean-Christophe Mitterand ha ritenuto che la memoria di questi gli facesse difetto e ha dichiarato di potere fornire dettagli molto precisi: che era venuto per parlargli del Sudan, ciò che non aveva strettamente a che vedere con quello che stava accadendo in Ruanda, e che non si aspettava, non più di quanto si aspettasse il sig. Mitterrand d’altronde, che il presidente Habyarimana telefonasse mentre egli era nel suo ufficio.
Sui legami fra il sig. Mitterrand e il sig. Jean-Pierre Habyarimana ha dichiarato che vi erano testimoni oculari delle loro rapporti e che si potevano dare le date dei loro incontri in Ruanda. Ha aggiunto essere stupefacente che la memoria del sig. Mitterrand fosse tentennante al punto da dimenticare i luoghi e le date di quegli incontri e che l’ultima volta in cui era stato visto in compagnia del sig. J.-P. Habyarimana in un luogo pubblico era l’aprile 1992. Interrogandosi sull’atteggiamento estremamente difensivo del sig. Mitterrand quando si citava il nome di Jean-Pierre Habyarimana e sul fatto che dicesse di non averlo conosciuto mentre era facile portare la prova del contrario, ha dichiarato per contro che sulla natura delle loro relazioni, sul contenuto dei loro colloqui non avrebbe potuto portare la benché minima precisazione.

Testo originale:

Audition de M. Gérard PRUNIER
Chercheur au CNRS
(séance du 30 juin 1998)
Présidence de M. Paul Quilès, Président
Le Président Paul Quilès a accueilli M. Gérard Prunier, chercheur au CNRS, spécialiste de l’histoire africaine et auteur d’un ouvrage largement cité et commenté sur le génocide rwandais, paru d’abord en anglais, en 1995, avant d’être publié en français en 1997.
M. Gérard Prunier s’estd’abord félicité de l’existence de la mission d’information. Il a déclaré que, comme beaucoup de ceux qui ont été mêlés au drame rwandais, il avait été, pendant longtemps, en état de choc, qu’il avait été très pessimiste sur les chances que le rôle très ambigu de la France dans cette tragédie soit un jour sérieusement examiné, et qu’il était extrêmement heureux que tel ne soit pas le cas. Il a indiqué qu’il avait tout lieu d’espérer, et qu’il espérait effectivement que la mission d’information jouerait son rôle jusqu’à la plénitude de ses potentialités.
Il a précisé qu’il souhaitait témoigner à deux titres, d’une part, en tant que chercheur africaniste spécialiste de l’Afrique orientale, fort d’une expérience de vingt-huit ans de cette région, où il est arrivé en 1970, et, d’autre part, en tant que responsable de l’Afrique orientale au secrétariat international du parti socialiste durant la crise rwandaise. Il a ajouté qu’il avait pu ainsi avoir un double regard à la fois sur les événements qui se déroulaient sur place en Afrique et sur la manière dont ils étaient gérés à Paris, même s’il n’avait jamais eu le moindre rôle dans la prise de décision, le privilège et la frustration des experts étant de voir beaucoup et de ne décider jamais, et qu’il essaierait, en historien, de restituer la réalité d’un certain nombre d’événements dissimulés sous le masque du discours politico-administratif.
Il a d’abord noté qu’en visionnant les enregistrements vidéos des auditions de la mission d’information, dont certaines étaient des plus importantes puisqu’elles concernaient des responsables politiques tels que MM. Balladur, Léotard, Jean-Christophe Mitterrand et Védrine, il avait été frappé par le fait que, très souvent, ces témoignages se situaient soit à un niveau très général, la défense de l’action de la France ou d’une politique globale, soit à un niveau d’extrême détail, tel que la transmission d’une note au Président de la République. Il a ajouté que, dans les deux cas, cette présentation ne lui paraissait pas refléter la réalité telle qu’il l’avait vécue, soit sur place, en Ouganda et au Rwanda, soit à Paris, et qu’il avait, à l’époque, trouvée très grumeleuse et très rude.
Pour préciser sa pensée, il a insisté sur le fait qu’il ne portait aucune accusation mais qu’il retrouvait plutôt là, comme le disait à plusieurs reprises M. Léotard le 21 avril, “ le reflet de l’éloignement du Rwanda qui est à sept mille kilomètres du territoire métropolitain ”, et fait remarquer, que dans ces témoignages officiels, les sept mille kilomètres étaient présents de manière effrayante.
Se demandant en conséquence ce qui s’était réellement passé au Rwanda, il a cité M.Védrine dans son témoignage du 5 mai : “J’ai toujours vu François Mitterrand se poser en continuateur d’une politique qui remontait au général de Gaulle. Il estimait que la France avait en Afrique un engagement de sécurité (...) le Rwanda, c’était un raisonnement du même type” et a estimé que toute l’ambiguïté résidait dans cette notion de sécurité.
Il a alors souligné que la signification particulière du concept de sécurité en Afrique remontait à la décolonisation. Il y avait après la deuxième guerre mondiale quatre puissances coloniales principales en Afrique ; les décolonisations belge et portugaise ont été des catastrophes sans mélange ; la Grande-Bretagne, dont la situation était la plus proche de la France du fait de l’importance des territoires qu’elle contrôlait et de son ancienne rivalité avec elle, a évolué de façon différente après la décolonisation. Sur ce point, il a noté que le dernier engagement anglais sérieux avait eu lieu lors de la guerre du Biafra, avec l’aide apportée au gouvernement fédéral nigérian entre 1966 et 1970 pour maintenir l’intégrité territoriale du Nigéria, mais que, après la catastrophe biafraise, la Grande-Bretagne s’était elle aussi désengagée.
Il a fait valoir, en revanche, que le cas de la France était unique et étonnant, et tenait largement à un certain nombre de circonstances historiques françaises, notamment au traumatisme de la défaite de 1940, à la personnalité du général de Gaulle, et au souci de celui-ci de maintenir le rang et la grandeur de la France dans un monde où sa place d’ex-super-puissance ne cessait de lui échapper. Il a jugé que la décolonisation de 1960 n’avait pas été une décolonisation, que la France était demeurée obsédée par l’idée que sa couvée de petits poussins noirs sur le continent africain lui permettait, en regroupant derrière elle une alliance, une sorte de diaspora, d’accroître son poids et contribuait à son maintien au rang de grande puissance, que l’on pouvait mesurer lors des votes aux Nations unies.
Il a ajouté qu’ainsi une relation spécifique s’était créée, qui n’était pas une relation néo-coloniale, bien que l’extrême gauche l’ait parfois qualifiée ainsi, puisqu’il n’y avait pas de décolonisation. C’était une relation qui restait une relation d’allégeance à la fois sur le plan économique, sur le plan de la sécurité, et, peut-être encore plus gravement, à son avis, sur le plan de la dépendance psychologique.
Sur ce plan, ajoutant qu’il était beaucoup plus familier de l’Afrique non francophone que de l’Afrique francophone, et de terrains exotiques pour les Français, comme l’Ethiopie, l’Ouganda et le Soudan, il a insisté sur l’extraordinaire différence de structure psychologique entre les dirigeants de ces pays et les dirigeants de l’Afrique francophone ; alors que ceux-ci ne cessent de regarder vers Paris, et sont de fins connaisseurs de la politique française, les dirigeants du restant de l’Afrique ne regardent pas vers Lisbonne, vers Londres, pas même vers Washington. Il a conclu que le cordon ombilical entre les dirigeants africains francophones et Paris n’avait jamais été coupé.
M. Gérard Prunier a alors expliqué que cette introduction avait eu pour but d’essayer d’identifier les éléments de l’enchaînement qui a entraîné la France dans l’affaire rwandaise.
Rappelant que l’engagement de sécurité dont M. Védrine attribuait le souci au président Mitterrand et dont il faisait remonter la genèse au général de Gaulle, s’était concrétisé pour la première fois en 1965 au Gabon avec le rétablissement au pouvoir de Léon M’Ba par les parachutistes français, il a fait valoir que les diverses interventions françaises en Afrique, à l’exception notable de celle du Tchad, n’étaient pas destinées à défendre des pays contre des agressions extérieures, mais qu’elles avaient eu essentiellement pour but le maintien au pouvoir d’un gouvernement ou son remplacement par un autre, selon que celui-ci avait, n’avait pas ou n’avait plus l’onction du Seigneur à Paris.
Il a ajouté qu’il y avait dans cette relation quasiment symbiotique que la France entretenait avec les pays africains francophones des côtés tout à fait touchants et un amour certain de l’Afrique, très peu de racisme et un certain romantisme, mais fait observer que cette relation présentait aussi l’inconvénient d’avoir conforté constamment la prédation des alliés privilégiés de la France, le cas le plus spectaculaire étant celui du maréchal-président Mobutu.
Il a précisé qu’à la faveur de ce lien, à la faveur d’une situation où les chefs d’Etat africains se souciaient beaucoup plus de savoir s’ils étaient bien en cour à Paris que de s’assurer qu’ils disposaient d’un soutien suffisant auprès de leur propre population, s’était créé, à l’intérieur des pays du pré carré, un type de structure socio-économique unique caractérisé par la prédation exercée par une bourgeoisie qui n’était pas à base économique comme celles qu’on a connues en Europe ou que l’Asie connaît aujourd’hui, mais qui constituait une classe bureaucratique, confortée par une ex-métropole coloniale.
Abordant l’action de la France au Rwanda, il a indiqué que, le 5 octobre 1990, alors qu’il était dans le bureau de M. Jean-Christophe Mitterrand, sans lien avec le Rwanda, le président Habyarimana avait appelé ce dernier qui, après une conversation de cinq minutes, lui avait dit après avoir raccroché : “ Ah, on va lui envoyer quelques bidasses, au petit père Habyarimana, et dans un mois, tout sera fini ”.
Il a fait valoir que la familiarité de ce type de remarque est bien plus révélatrice de l’état d’esprit qui préside aux rapports que la France entretient avec l’Afrique que le libellé même des notes officielles. Ajoutant que ce n’était pas la première fois qu’on envoyait quelques troupes, qu’il s’agissait d’une pratique courante et que, le plus souvent, au bout d’un mois, tout était fini, il a souligné que l’application de cette méthode au Rwanda avait eu des conséquences très graves, la France se trouvant face à un système social où sa conception des rapports avec l’Afrique n’était plus opératoire et où il était hors de question que quelques bidasses puissent rétablir la situation.
Il a alors décrit ce qu’étaient les Tutsis et les Hutus. Il a précisé qu’il ne s’agissait en aucun cas d’ethnies. Une ethnie est en effet une micro-nation qui avait, avant l’arrivée, soit des musulmans, soit des colonisateurs européens et du christianisme, sa propre religion, son propre terroir, sa propre langue, sa propre culture. Faisant remarquer qu’il n’y avait ni langue, ni culture, ni religion spécifique aux Tutsis ou aux Hutus, mais qu’ils partageaient au contraire ces trois éléments, il a jugé qu’il s’agissait de ce que l’on appelait dans l’Europe d’avant 1789, des ordres, et de ce que l’on désigne en allemand par le mot Stand, c’est-à-dire des groupes structurés à partir de leur activité, et souligné que si, dans leur cas, ils avaient peut-être des origines raciales différentes dans un passé distant de cinq, six ou sept siècles, ils avaient par la suite largement fusionné dans des intermariages.
Il a indiqué que, dans le Rwanda précolonial, ces groupes sociaux, ces ordres, étaient inégaux et qu’il ne fallait pas tracer de cette époque une image paradisiaque, comme on a parfois voulu le faire. Il a ajouté que la société rwandaise était une ancienne société étatique, aristocratique, structurée, non pas dans le cadre des ethnies acéphales que l’on connaît dans la zone de la grande forêt ou dans le Sahel, mais bien d’un Etat-nation dont les frontières étaient grossièrement celles d’après la décolonisation, comme au Burundi voisin, faux jumeau du Rwanda. Il a souligné que le caractère inégalitaire de la société rwandaise avait été aggravé par la colonisation, pour des raisons toutes simples de simplification administrative et d’économie. Il a précisé, en effet, que le colonisateur, d’abord allemand, puis belge, soucieux de ne pas dépenser trop d’argent, avait renforcé l’inégalité en utilisant les Tutsis pour manipuler la situation, non pas avec des vues diaboliques, mais simplement dans une perspective d’efficacité économique à court terme.
Il a fait valoir qu’on avait créé ainsi une société qui constituait une véritable bombe, où les tensions sociales, renforcées par l’approfondissement des inégalités dans le cadre du système colonial, avaient abouti, au moment de la décolonisation, en 1959, au massacre : la première expression de la démocratie a été le massacre et la démocratisation a été l’occasion pour les victimes d’un système inégalitaire, une fois le Blanc parti, de se venger avec une extraordinaire brutalité sur ceux qu’ils estimaient être responsables de ce système.
Il a ajouté que, de ce fait, le pays dans lequel avait été lancée l’opération Noroît en 1990 n’avait rien à avoir avec ceux que la France connaissait, avec l’aimable Sénégal, ou l’aimable Côte d’Ivoire, et qu’en fait la France ne savait pas dans quel pays elle arrivait ; précisant que pour quelqu’un qui connaît la région, c’était une évidence éclatante, il a estimé que les acteurs de la politique française, à défaut de connaître le pays où ils allaient intervenir, auraient pu au moins être conscients de l’ignorance dans laquelle ils se trouvaient et de la nature du terrain sur lequel ils posaient le pied.
S’agissant de l’opération Noroît, il a jugé qu’elle n’était pas forcément négative ; il a considéré qu’une prise de pouvoir extrêmement rapide et par les armes d’un groupe d’enfants de réfugiés tutsis – le général Kagame, l’actuel réel maître du Rwanda, étant âgé de deux ans lors de son départ du Rwanda en 1960 –, en octobre ou novembre 1990, aurait été une catastrophe. Il a estimé cependant que l’opération Noroît ne pouvait se concevoir que comme un moyen de chantage vis-à-vis du gouvernement Habyarimana, qu’il aurait fallu dire à celui-ci que son régime s’était construit depuis vingt-cinq ans sur la discrimination raciale, que les Rwandais avaient institutionnalisé un système d’apartheid, avec une rigueur variable, que s’il voulait que la France le sauve, il devait en contrepartie accepter l’ouverture, la décrispation, la restructuration profonde d’un Etat qui n’avait rien à envier, dans sa philosophie politique, à l’Afrique du sud. Il a précisé que le fait que l’apartheid se soit exercé entre Noirs n’était pas du tout un critère déterminant et qu’on avait connu en Europe des racismes entre gens à peau blanche.
S’interrogeant sur la politique française à l’égard du Rwanda, au-delà du court terme, et de la sécurisation d’un régime dont le renversement brutal par une force armée n’aurait rien résolu, il a mis l’accent sur le problème de la manipulation de la France par ses partenaires rwandais. Il a fait valoir qu’on avait tort de voir toujours la relation entre l’Afrique et l’Europe sous l’aspect d’une domination de l’Européen apte à manipuler son partenaire africain et que très souvent, dans son expérience de la politique dans cette région du monde, il avait vu le contraire, les Ethiopiens manipuler les Russes à la période communiste, ou au Soudan le maréchal-président Nemeyri manipuler les Américains pour ses buts politiques personnels. Il a estimé que les Rwandais avaient à leur tour très habilement manipulé la France.
Il a illustré son propos par ce qu’il a appelé la soi-disant attaque de Kigali par le FPR, dans la nuit du 4 au 5 octobre 1990, au cours de laquelle des milliers de coups de feu ont été tirés. Relevant qu’au matin du 5 octobre, il n’y avait pas un mort et pas un seul impact de balle sur les bâtiments, il a expliqué ce phénomène par le fait que, cette soi-disant attaque ayant été mise en scène par les Forces armées rwandaises, à l’instigation de leur propre état-major, pour impressionner les Français, on leur avait demandé de ne pas tirer sur les bâtiments. Il a ajouté qu’il serait curieux de voir l’écho qu’avait eu cette intoxication grossière dans les dépêches de l’ambassadeur de France au Rwanda et précisé, qu’à l’époque, lorsque lui-même en avait parlé avec M. Jean-Christophe Mitterrand, celui-ci semblait croire à la réalité de cette attaque, à moins qu’il ait seulement feint d’y croire.
Il a insisté sur le fait qu’au Rwanda, la France était face à une culture étatique ancienne, que toute l’histoire du royaume du Rwanda s’apparentait aux Chroniques italiennes de Stendhal, faite de conspirations, de meurtres, de manipulations politiques, que c’était là l’Italie du XIVe siècle, et estimé que la France arrivait dans cet univers avec une bonne volonté digne d’une meilleure cause.
Il a tenu à signaler que les Américains se retrouvaient désormais vis-à-vis du gouvernement rwandais exactement dans le même type de relations aux prises au même type de manipulations, et ce, avec la même naïveté.
Il a ajouté que la France avait ainsi, dès le départ, de fausses grilles de raisonnement, qui ressortaient très bien des auditions auxquelles la mission d’information avait procédé. Il a cité deux exemples tirés des auditions de MM. Balladur et Védrine. S’agissant de M.Balladur, il a rappelé que, le 21 avril, celui-ci avait dit que son but était de voir la majorité hutue associer le FPR au gouvernement. Faisant remarquer que cette expression impliquait que le gouvernement du général Habyarimana représentait en lui-même la majorité hutue, il a jugé qu’on sombrait là dans une sorte de communautarisme, et que si l’on considérait que le fait d’être un Hutu permettait de représenter tous les Hutus, cela signifiait qu’on admettait qu’il n’y avait pas de place pour l’expression individuelle que seuls pouvaient s’exprimer le Stand,“ l’ordre ”, le groupe, le clan, la tribu et que, dès lors, la notion de démocratie n’avait plus aucun sens. Il a ajouté que le fait de raisonner ainsi - les Hutus sont 85 %, donc, le général Habyarimana les représente, puisqu’il est hutu - était l’exact reflet de la théorie raciste que proposait l’Etat rwandais lui-même, puisqu’en kinyarwanda, le terme rubanda nyamwinshi “le peuple majoritaire”, renvoyait à une sorte de logique coextensive, selon laquelle les Hutus formant 85 % de la population, il suffisait que l’un d’entre eux soit au pouvoir pour que la démocratie soit réalisée.
S’agissant de M. Védrine, il a estimé qu’il était encore plus étonnant dans son témoignage du 5 mai lorsqu’il disait: “Habyarimana est Hutu, il représente donc au moins 80 % de la population” et qu’il ajoutait : “On se demande bien pourquoi il devrait partager le pouvoir avec l’infime minorité tutsie”. Supposant qu’à cette aune, n’importe quel président français représente 100 % de la population, puisqu’il est français, il a fait observer que c’était là l’expression même de la pensée communautariste, c’est-à-dire de la philosophie politique qui sous-tendait le régime qui a produit le génocide. Il a ainsi conclu que lorsque les responsables français raisonnaient ainsi à propos des Rwandais, lorsqu’ils se laissaient intoxiquer par leur philosophie politique, ils entraient en fait dans la logique de leur esprit de discrimination interne et faisaient leur la pensée de type apartheid qui présidait au fonctionnement du régime rwandais. Précisant qu’ils n’agissaient certainement pas ainsi de propos délibéré, mais plutôt de façon involontaire, il a estimé que ce n’était pas pour autant plus excusable.
Il a ensuite exposé que les pouvoirs publics français n’avaient prêté aucune attention aux clignotants qui s’allumaient sur le tableau de bord au fur et à mesure que s’affirmait la présence de la France au Rwanda. Il a rappelé que, dès octobre 1990, il y avait eu des massacres et que ceux-ci avaient redoublé en janvier 1991 avec les tueries de la région du Bagogwe. Soulignant que les Bagogwe étaient des Tutsis restés fidèles à leur mode de vie traditionnel, c’est-à-dire les derniers nomades pasteurs, des gens à l’ancienne mode et dont personne ne se souciait beaucoup, il a indiqué que leur massacre, en janvier 1991, marquait le début de l’activité des escadrons de la mort rwandais et correspondait à un moment où les tueurs n’étaient pas encore bien organisés. A propos des Bagogwe, il a indiqué que l’image du Tutsi nomade pasteur n’avait plus de sens dans le Rwanda moderne avec ses 8 millions d’habitants sur 23 000 kilomètres carrés car il n’y avait plus suffisamment de place. S’agissant des tueurs, M. Gérard Prunier a ajouté qu’on allait les voir beaucoup mieux organisés en mars 1992, lors des massacres du Bugesera, plus graves, plus importants, plus structurés. Précisant que son collègue belge Filip Reyntjens avait appelé leur mode d’organisation le “réseau zéro”, parce que la philosophie de ce réseau aurait été : “zéro Tutsi, c’est bon pour le Rwanda”, il a indiqué qu’on n’était pas sûr que cette appellation ait correspondu à une réalité aussi clairement formulée.
Relevant que ces massacres étaient organisés par des groupes para-gouvernementaux, que ces clignotants étaient sous les yeux des responsables français, il s’est demandé si ces derniers ne les voyaient pas parce qu’ils étaient aveugles ou parce qu’ils ne voulaient pas les voir.
Il a ajouté qu’une Italienne était morte pour l’avoir dit, qu’elle s’appelait Antonia Locatelli, et qu’elle était non pas une religieuse mais une laïque qui vivait au Rwanda depuis dix-huit ans, et qui connaissait très bien les habitants de sa commune du Bugesera. Présente pendant les massacres, elle a parlé en direct sur RFI. Elle a dit: “Je sais que les gens qui sont venus commettre ces meurtres sont venus de l’extérieur. Ils ont été amenés par des véhicules des services gouvernementaux. Contrairement à ce que l’on dit, ce n’est pas une colère populaire qui s’exercerait contre les Tutsis, c’est un mouvement délibéré du gouvernement pour commettre des meurtres de type politique.” Ayant osé parler en direct sur RFI, elle a été assassinée le lendemain par les mêmes tueurs.
M. Gérard Prunier a souligné que, pendant ce temps, non seulement la France ne voyait rien, mais qu’au contraire, elle était en train de collaborer militairement. Rappelant que M. Léotard avait dit devant la mission d’information qu’il existait, dans le cadre des DAMI, une coopération de l’armée française avec l’armée rwandaise et l’avait présentée comme très neutre, comme celle que la France menait sur la base des nombreux autres accords de coopération avec d’autres pays africains, il a ajouté que tout le problème était justement qu’il ne s’agissait pas de l’un de ces autres pays africains et que, loin d’avoir l’action bénigne que M. Léotard ou d’autres responsables semblaient vouloir suggérer, les DAMI avaient entraîné les recrues des FAR dont l’effectif passait de 5.200 hommes au début de la guerre à près de 50.000 à la fin. Soulignant que ce décuplement en trois ans signifiait que l’armée rwandaise avait recruté toutes sortes de gens, y compris des miliciens interahamwe qui ont ensuite commis le génocide, il en a déduit que ceux-là aussi avaient été largement entraînés par l’armée française.
Il a néanmoins tenu à indiquer que s’il ne s’agissait pas de dire, comme on a pu le lire, que la France avait préparé le génocide et délibérément formé les miliciens pour leur permettre de tuer les Tutsis, en revanche elle avait effectivement entraîné des miliciens qui ont participé au génocide sans avoir pris conscience, bêtise ou naïveté, de ce que représentait son action.
Il a ajouté que les forces françaises étaient aussi plus nombreuses que ce qui avait été dit. Il a expliqué qu’en effet, certains officiers, soucieux d’une excellente collaboration avec les Forces armées rwandaises, jouaient sur le rythme des rotations pour maintenir jusqu’à mille hommes sur place, à certaines périodes, en 1992 et 1993, alors que le chiffre maximum officiel n’avait jamais dépassé six cents et était très souvent descendu à quatre cent cinquante. Il a indiqué qu’il avait entendu, à l’époque, un colonel de l’armée française s’en vanter devant lui.
Il a souligné que, dans leur action quotidienne, ces soldats français n’étaient pas dans une position neutre mais qu’ils procédaient, par exemple, à des contrôles d’identité à des barrages routiers et demandaient, de manière assez brusque : “Tutsi ou Hutu ?”. Ayant recueilli les témoignages de personnes qui avaient subi ces contrôles, il a ajouté que ceux-ci n’étaient pas brutaux, que les gens n’étaient pas battus, mais que la question était crue, équivalente, selon lui, à “ Juif ou Aryen ” et précisé que quand certains Tutsis éduqués demandaient aux soldats français pourquoi ils leur posaient cette question, on leur répondait que c’était : “Pour savoir qui était l’ennemi”. Il a alors souligné la gravité des conséquences de la politique de coopération ainsi menée.
Il a estimé en effet que cette attitude signifiait aux yeux des autorités rwandaises que la France était là pour les soutenir, non seulement devant une menace extérieure, mais également devant ce qu’elles concevaient comme une menace intérieure, dirigée contre le système d’apartheid qu’elles avaient instauré, c’est-à-dire la caste, l’ordre des Tutsis puisque les soldats français eux-mêmes, sans honte, sans être gênés, posaient la question de l’appartenance à cette caste à ceux qu’ils contrôlaient à des barrages routiers.
Il a ajouté qu’il y avait aussi eu, de la part la France, une participation, qu’il a qualifiée de secondaire, aux combats. Convenant que les militaires français n’avaient pas été engagés dans des combats terrestres, il a témoigné qu’il y avait l’artillerie commandée par un officier français lorsqu’il avait visité les zones tenues par le FPR dans la région de Byumba, en juin 1992. Il a précisé qu’en écoutant, avec le FPR, sur la fréquence radio des Forces armées rwandaises les ordres donnés par l’officier commandant la batterie d’artillerie, il lui avait été facile de comprendre que le français parlé par cet officier était du français tel qu’on le parle en France. Il ne pouvait donc s’agir que d’un officier français. Ajoutant qu’il obéissait sans doute à des ordres, il a estimé qu’en commandant des feux d’artillerie, il prenait part à la guerre.
Il a conclu que, là aussi, l’essentiel était bien la nature du message qui était adressé aux autorités rwandaises, à savoir que la France était derrière elles, quoi qu’elles fassent. Il a fait remarquer que les “ petits massacres ” qui se sont déroulés dans le courant des années 1990, 1991 et 1992, et qui ont repris en janvier 1993, entraînant l’offensive du FPR, n’ont rien changé au dispositif français, qui est resté aussi ferme et solide sans que la philosophie politique du régime rwandais soit mise en cause. Il a illustré ce dernier point, a contrario, par l’attitude de la France vis-à-vis des négociations qui se déroulaient alors à Arusha. Il a indiqué que, alors que le leitmotiv qu’il avait entendu en visionnant l’enregistrement vidéo des témoignages devant la mission d’information, tous partis politiques confondus, était que le soutien de la France au gouvernement rwandais était soumis à une condition de démocratisation, dans la réalité, on avait assisté durant ces quatre années au blocage constant du président Habyarimana à l’égard de toute ouverture démocratique, face à des pressions constantes qui venaient, non pas des Français mais, à l’intérieur de son propre pays, des Hutus qui lui étaient opposés, et à l’extérieur, des réfugiés tutsis en armes.
Il a estimé que les négociations d’Arusha étaient le lieu géométrique de ces contradictions et souligné que, alors même que les responsables français disaient aujourd’hui que la France avait joué un rôle majeur dans leur déroulement, elles avaient traîné en longueur, et que la représentation diplomatique de la France y avait été assurée non pas par l’ambassadeur de France en Tanzanie mais par le premier secrétaire de l’ambassade, Jean-Christophe Belliard, qui avait souvent eu beaucoup de mal à obtenir des instructions claires sur la nature de sa mission, et n’avait certainement pas un grand pouvoir de décision.
Citant les propos de M. Védrine qui, lors de son témoignage, avait fait état d’une exaspération des extrémistes contre les pressions de la France, il a ajouté que lui-même n’avait jamais senti cette exaspération quand il était à Kigali, mais, qu’au contraire, on avait vu dans le journal Kangura, publié par la fraction la plus extrémiste du régime, un portrait de François Mitterrand, avec une légende dont il a dit qu’elle lui avait fait énormément de mal : “Un véritable ami du Rwanda”.
Il a estimé que ce dont on pouvait accuser la France dans l’affaire rwandaise ne constituait pas un crime, mais une faute. Ajoutant que la France n’avait certainement pas voulu le génocide, il a relevé en revanche que le message constant qu’elle avait envoyé aux autorités rwandaises en ignorant les “ petits massacres ” dont le nombre ne cessait d’augmenter, en entretenant une coopération militaire de nature particulière, en manifestant peu d’enthousiasme pour les négociations d’Arusha, était un message de blanc-seing, dont elle ne se rendait pas compte des conséquences.
Il a jugé que le plus effrayant était que les pouvoirs publics français ne se sont pas rendus compte de la nature de la structure de pouvoir qu’ils soutenaient et en même temps créé largement les conditions de sa constitution.
Il a ajouté que, pour lui, il s’agissait de l’échec final d’une certaine conception de la politique africaine, paternaliste, clanique, manipulatrice, telle qu’elle avait été fondée par Jacques Foccart, en accord avec la conception du général de Gaulle.
Sur ce point, il s’est déclaré effaré par le témoignage de M. Juppé devant la mission. Rappelant que celui-ci avait repoussé l’accusation selon laquelle le gouvernement français avait hésité devant la qualification de génocide en soulignant qu’il avait employé le terme dès le 15 mai, il a affirmé qu’en tant que chercheur connaissant bien la région, il lui avait fallu environ trois jours pour comprendre ce qui était en train de se dérouler et que le 10 ou le 11 avril, il avait compris que tous les obstacles venaient de sauter et que, cette fois, la solution finale était tentée, et que pour cela, il n’avait ni disposé ni eu besoin des synthèses de la DGSE ou des rapports des ambassadeurs.
Il a précisé que, pendant ce délai de cinq semaines, entre le début du génocide et le 15 mai, au moins six cents mille personnes étaient mortes. Précisant que le 27 avril, MM. Balladur et Juppé avaient reçu ex officio, M. Jean-Bosco Barayagwiza et M. Jérôme Bica mumpaka, deux grands coupables de génocide, dans leurs bureaux, à Paris, il a ajouté que si l’on ne s’était pas rendu compte de la nature des crimes en train de se commettre, alors qu’on recevait des génocidaires, c’est qu’il existait un problème de perception au sein du gouvernement français.
Il a ensuite estimé que c’est pour ces raisons qu’on avait fait un mauvais procès à l’opération Turquoise et qu’après de tels antécédents, il était évident que les bonnes intentions de cette opération Turquoise seraient automatiquement l’objet de suspicion. Il a déclaré que, personnellement, il ne pensait pas du tout que Turquoise avait été une mystérieuse opération secrète destinée à exfiltrer les criminels hutus et que ceux-ci étaient parfaitement capables de s’enfuir seuls sans l’aide de la France. Il a ajouté qu’on ne voit pas quel aurait été l’intérêt d’envoyer deux mille hommes et une telle logistique pour sortir de leur propre pays une centaine d’assassins qui pouvaient s’enfuir sans aide.
Il a caractérisé l’opération Turquoise plutôt comme une opération de relations publiques devant les pressions de l’opinion et de la presse. Il a estimé cependant que même dans ce cadre, c’était trop peu et trop tard, dans la mesure où toutes les accusations portées contre la France ne tenaient pas ŕ Turquoise mais ŕ tout ce qui s’était passé avant, et que c’est ce passé qui rendait automatiquement suspect un retour de l’armée française, en plein génocide, sur les lieux où son assistance avait, c’est le moins qu’on puisse dire, produit des effets qu’elle ne souhaitait pas.
Il a ajouté cependant que cette opération n’avait pas été aussi dépourvue d’ambiguïté qu’elle avait été présentée, notamment dans les témoignages de M. Balladur et de M. Juppé. Rappelant que M. Juppé avait fait allusion à la visite d’une délégation du FPR conduite par M. Bihozagara, il a précisé qu’il avait été extrêmement difficile d’obtenir qu’elle soit reçue. En fait, contrairement à ce qui avait été dit, il n’y avait pas de contact entre le gouvernement français et le FPR. Il a ajouté qu’en revanche lui-même était en contact avec le FPR. C’était d’ailleurs assez difficile, car le FPR n’avait qu’une seule ligne de téléphone, à Bruxelles, et ces jours-là, il fallait appeler sans cesse pendant longtemps avant de réussir à trouver un créneau pendant lequel la ligne n’était pas occupée. Il a ajouté que, lorsque, avant Turquoise, on avait invité une délégation du FPR à Paris, on lui avait alors proposé comme interlocuteur Mme Michaux-Chevry, ministre délégué à la francophonie, qui, eu égard aux circonstances de l’époque, n’apparaissait certes pas comme une personnalité politique capable de jouer un rôle déterminant dans la prise de décision à l’égard du Rwanda. Il se rappelait très bien que Jacques Bihozagara lui avait alors dit au téléphone qu’on se moquait de lui et qu’il n’irait pas à Paris. Il a ajouté que lors de sa visite, on lui avait d’abord proposé de rencontrer Mme Boisvineau, sous-directrice de l’Afrique de l’est à la Direction des Affaires africaines et malgaches, c’est-à-dire un interlocuteur qui n’était pas en situation de prendre des décisions politiques, et que ce n’est qu’à la suite de tractations au sein de l’exécutif français que M. Juppé avait accepté de rencontrer la délégation du FPR.
Le Président Paul Quilès a demandé à M. Gérard Prunier si, selon lui, la France était trop intervenue, pas assez intervenue, mal intervenue ou les trois à la fois, et ce qu’il aurait fallu faire. Aurait-il mieux valu ne pas être présent au Rwanda comme cela a été le cas, comme pour beaucoup d’autres pays, au Burundi, où il y a eu des centaines de milliers de morts et où on n’a jamais reproché son absence à la France.
Relevant ensuite que M. Gérard Prunier avait critiqué la participation insuffisante de la France à la négociation des accords d’Arusha, il a rappelé que le FPR l’avait pourtant remerciée et félicitée pour la contribution qu’elle avait apportée à leur conclusion. Il a alors souhaité savoir si M. Gérard Prunier estimait que lorsque le président Habyarimana avait consenti à signer ces accords, il accomplissait un geste authentique, signe d’un tournant politique, début d’une démocratisation, ou s’il se livrait à une manœuvre tactique destinée à gagner du temps, autrement dit s’il avait joué double jeu en permanence. Il a posé la même question pour le FPR.
Relevant qu’à propos des massacres qui ont eu lieu une année après le génocide, en 1995, M. Gérard Prunier avait écrit dans l’ouvrage qu’il avait consacré à la crise rwandaise : “Les massacres du FPR sont moins ambitieux et apparemment beaucoup plus tactiques que ceux des responsables hutus du génocide”, il s’est interrogé sur ce qu’il entendait par “manque d’ambition” et “caractère tactique” d’un massacre.
Enfin, citant le jugement sévère que M. Gérard Prunier portait dans cet ouvrage sur le déroulement de l’opération Amaryllis : “Le personnel rwandais de l’ambassade, principalement tutsi, est abandonné de sang-froid à une mort certaine. Le Pr Guichaoua réussit à détourner l’attention des officiers français et à faire monter en cachette à bord d’un avion en partance pour Paris les cinq enfants du premier ministre assassiné, Agathe Uwilingiyimana ” , il lui a demandé s’il avait eu des renseignements précis à ce propos, s’il avait personnellement rencontré Venuste Raymaé qui a témoigné du refus d’évacuer les Tutsis employés à l’ambassade et si celui-ci lui avait confirmé ces conditions de l’évasion des cinq enfants. Il a indiqué à ce sujet que la mission avait entendu d’autres témoignages, notamment d’officiers français, qui n’allaient pas dans ce sens.
M. Gérard Prunier a d’abord estimé qu’on ne pouvait pas dire que la France était trop ou n’était pas assez intervenue, mais qu’elle était mal intervenue. Considérant que, dans la mesure où elle s’engageait dans la région, elle se créait vis-à-vis d’elle-même un certain nombre de contraintes, et notamment une contrainte de performance, il a jugé que la France était mal intervenue, parce qu’elle n’avait pas fait assez de chantage sur le Président Habyarimana, parce qu’elle avait trop accepté la version rwandaise des faits, voire parce qu’elle n’avait pas été pour ainsi dire assez impérialiste. La France offrait quelque chose de très important au régime, sa sanctuarisation. Elle assurait la sanctuarisation militaire d’un régime dictatorial et d’une dictature raciste. Relevant qu’il s’agissait d’un comportement exceptionnel de la part d’un pays démocratique, il a ajouté qu’une telle exception aurait dû se faire payer et qu’on n’avait pas exigé de contrepartie suffisante alors que c’était le seul moyen d’éviter la catastrophe. Il a précisé que le président Habyarimana n’était en aucun cas un homme obtus, mais au contraire un assez bon politique, un homme de realpolitik, qu’il était sensible à quelques méchancetés gentiment dites, que des pressions pouvaient être exercées, et que la France avait disposé de leviers dont elle n’avait pas joué à plein. Il a ajouté que si elle ne l’avait pas fait, c’est que, dans l’esprit des responsables de cette politique, il y avait un certain accord avec la position rwandaise, notamment sur le caractère exogène de la menace qui pesait sur le gouvernement rwandais. Pour la France, derrière le FPR, il y avait le diable anglo-saxon.
Sur ce point, il a souligné que c’était un hasard que le FPR soit venu d’Ouganda et que ce hasard tenait à la politique ougandaise. La communauté tutsie en exil en Ouganda, en participant à la guerre civile ougandaise, avait pu recevoir des uniformes, des armes et une formation militaire, ce qui n’était le cas ni au Zaïre ni au Burundi. Il a estimé qu’il était faux de dire, comme M. Jean-Christophe Mitterrand ou M. Védrine, que la communauté tutsie d’Ouganda était la plus importante de la diaspora puisque c’est au Burundi qu’on trouvait le plus grand nombre de Tutsis en exil. Il a ajouté que les Tutsis rwandais n’ayant pas eu accès à une formation militaire, ils n’ont pas pu prendre les armes et que sont tout simplement revenus les armes à la main ceux qui avaient des armes dans les mains, à savoir les Tutsis d’Ouganda. Il a fait remarquer qu’il avait toujours pensé que si le FPR avait été formé par des exilés tutsis du Burundi ou du Zaïre et si ses cadres avaient été parfaitement francophones, l’attitude de la France aurait été beaucoup plus nuancée. Il a ajouté que si la France n’avait pas exercé de chantage à l’égard du président Habyarimana, c’est parce que les responsables français partageaient le sentiment profond que la menace qui pesait sur son régime avait un caractère exogène et non endogène.
Il a conclu sur ce point que l’intervention française avait plutôt été mal conduite. La France n’a pas su moduler son aide, elle ne connaissait pas le terrain. Elle a fait des erreurs. Elle s’est aventurée dans un pays où elle ne maîtrisait pas la situation.
S’agissant des félicitations du FPR pour le rôle de la France dans les négociations d’Arusha, il les a qualifiées de politesse diplomatique, et a fait observer que le FPR n’avait aucune raison de s’y refuser.
À propos de l’éventuel double jeu du président Habyarimana, M. Gérard Prunier a déclaré qu’à son sens, celui-ci ne jouait pas un double jeu mais au moins un quintuple jeu. Il a estimé que son attitude était effroyablement compliquée. Il cherchait à garder le pouvoir. Il avait contre lui à la fois son opposition hutue et le FPR venant de l’étranger. Il essayait de séduire une partie des membres de l’opposition hutue en leur disant que, en tant que hutus, ils devaient être avec lui contre les ennemis tutsis. Il devait aussi composer avec un certain nombre de pressions venant du Zaïre, d’un côté, de l’Ouganda, de l’autre. En même temps, il cherchait à éviter la montée en puissance de ses propres extrémistes à l’intérieur de son régime. Sur ce point, M. Gérard Prunier a précisé qu’il demeurait convaincu que ce sont ces extrémistes qui l’ont assassiné, le 7 avril 1994, tout en ajoutant qu’il disposait d’éléments qu’il ne pouvait malheureusement pas communiquer à la mission d’information pour des raisons de sécurité personnelle.
Le Président Paul Quilès a alors relevé que, sur ce sujet, M. Gérard Prunier était le premier à affirmer qu’il avait des convictions alors que tous ceux que la mission avait entendus n’avaient formulé que des hypothèses. Il lui a fait observer que, s’il ne pouvait pas donner les éléments sur lesquels il fondait sa certitude, ses propos n’auraient aucune valeur.
M. Gérard Prunier a convenu, en effet, qu’ils n’avaient aucune valeur, qu’il ne fallait pas que la mission en tienne compte et que c’était effectivement dommage.
Ila ajouté qu’il était parfaitement conscient de l’importance du rôle de cet attentat dans la déclenchement du génocide, et que s’il lui était possible de faite état d’éléments précis à ce sujet, il le ferait.
Reprenant son analyse, il a exposé que le Président Habyarimana était un semi-extrémiste qui, au fur et à mesure qu’il percevait que la situation se dégradait, revenait vers le centre tandis que de manière symétrique, l’aile extrémiste du MRND, l’ancien parti unique qui demeurait le parti dominant, ne cessait de se renforcer. Il a ajouté qu’on ne pouvait pas comprendre la position du président Habyarimana si on ne le voyait pas menacé de plusieurs côtés à la fois. Dans la situation inconfortable et fragile où il se trouvait, il ne pouvait, pour garder le pouvoir, que mener un jeu multiple basé sur la duplicité.
Il a précisé que la conclusion et l’application des accords d’Arusha représentaient avant tout, pour le président Habyarimana un enjeu tactique. Il se préoccupait d’abord des réactions de l’opposition hutue du sud, des extrémistes de la CDR, des Interharamwes ou du FPR. De ce fait, il n’a pas signé tant qu’il a eu l’impression qu’il valait mieux ne pas signer, il a signé quand il a pensé que c’était la meilleure tactique et après avoir signé les accords, il ne les a pas appliqués car il avait peur des conséquences de leur mise en œuvre. Il a fait observer que, alors que ces accords avaient été signés le 3 août 1993, le 6 avril 1994, jour de l’assassinat du président Habyarimana, ils n’avaient toujours pas reçu le plus petit début d’application.
M. Gérard Prunier a estimé que le président Habyarimana ne savait sans doute pas lui-même où cette tactique menait et qu’en fait, il ne s’agissait que de durer. Il a précisé que la situation était devenue extrêmement tendue, qu’à Kigali où il se trouvait lui-même alors, la montée de la tension était physiquement palpable. A 20 heures, il n’y avait plus personne dans les rues. A l’appui de cette considération, il a cité un souvenir personnel. Rentrant un soir chez lui avec un ami, après avoir traversé douze barrages de soldats sur une distance d’environ deux kilomètres, il avait finalement décidé d’aller passer la nuit dans un hôtel hutu d’opposition car son ami craignait de ne pas survivre au prochain barrage. Il a ajouté que dans cet hôtel, ils avaient constaté qu’ils étaient une vingtaine dans la même situation. Il a conclu que, dans un tel contexte, le président Habyarimana ne pouvait pas agir autrement qu’au jour le jour.
M. Bernard Cazeneuve a d’abord relevé que la démonstration de M. Gérard Prunier sur la posture politique du président Habyarimana mettait en évidence le fait que celui-ci avait été confronté à de multiples oppositions, celle du FPR se doublant d’une opposition au sein même de son gouvernement, opposition qui s’était radicalisée à mesure que le temps passait, que les accords d’Arusha se négociaient, que la date de leur application approchait. C’est cette opposition, à laquelle M. Gérard Prunier attribuait la responsabilité de l’assassinat du Président Habyrimana, qui avait été la plus redoutable, la plus extrémiste et à l’origine de la conception et de la mise en œuvre du génocide.
Il a alors fait remarquer que le fait que le président Habyarimana ait été confronté à toutes ces oppositions pouvait justifier la thèse développée par un certain nombre d’acteurs politiques ou diplomatiques français, selon laquelle il occupait une position centrale, voire centriste, dans le système politique rwandais et qu’il était donc en mesure de forger autour de sa personne un certain consensus.
Il a observé qu’on pouvait aussi considérer que le président Habyarimana était le centre de contradictions à ce point fortes qu’il était incapable de susciter le moindre mouvement et que toute la stratégie élaborée par la France était nécessairement vouée à l’échec. Il a alors demandé à M. Gérard Prunier si l’erreur avait été plutôt d’avoir considéré que le président Habyarimana était en position centrale ou centriste ou d’avoir sous-estimé le fait qu’il était nécessairement condamné à l’immobilisme.
M. Gérard Prunier a répondu que la position politique du président Habyarimana n’avait pas été la même durant toute la durée du conflit, qu’au départ, il n’était certainement pas dans une position centriste mais qu’il s’était retrouvé dans cette situation au fur et à mesure que les oppositions, contradictoires en elles-mêmes, se développaient autour de lui.
M. Bernard Cazeneuve s’est alors demandé si ces oppositions contradictoires qui s’étaient cristallisées autour de lui et auxquelles il s’était trouvé confronté étaient dues à son absence d’habileté à les résoudre ou à la pression que la France avait exercée sur lui pour que son régime évolue. Il a ajouté que, dans cette dernière hypothèse, on ne pouvait reprocher à la France de n’avoir pas fait suffisamment pression sur lui.
M. Gérard Prunier a répondu d’abord que la difficulté était que le président Habyarimana ne pouvait pas payer le prix que la France aurait pu demander, à savoir l’abandon du pouvoir. Pour lui, il n’en était évidemment pas question.
Il a ajouté que, s’il s’était retrouvé dans cette situation, ce n’était ni parce qu’il était incapable de la gérer ni à cause des pressions de la France mais à cause de l’évolution de la société rwandaise elle-même, qui était en plein mouvement de transformation et ce, bien avant le sommet de La Baule, contrairement à ce qu’avait dit M. Jean-Christophe Mitterrand lors de son audition.
Sur ce point, il a fait observer que, très souvent, le problème des étrangers en Afrique, ‑et c’était à nouveau le problème des Américains dans la région‑, était de ne pas faire suffisamment confiance à la dynamique interne des sociétés et de penser que si on ne s’en mêle pas, rien ne changera. Or, a-t-il précisé, cette dynamique, on peut la négliger, on peut l’accompagner, mais on ne peut pas la nier. Elle se produit de toute manière, contre l’intervenant extérieur, en dépit de lui ou indépendamment de son action. Il a ajouté que, de ce point de vue, il ne considérait pas que l’action de la France ait été déterminante dans ce qu’on pourrait appeler le glissement centriste du président Habyarimana mais que celui-ci y avait été forcé par le déroulement des événements qui ne correspondait d’ailleurs pas du tout à ce que lui-même aurait souhaité. Il a ajouté que le président était constamment en position défensive et qu’à partir de 1992, il glissait, glissait sans arrêt et que c’est pour demander qu’on le soutienne quoi qu’il arrive qu’il excipait de sa qualité de modéré comparativement à certains autres. Il a précisé cependant que pendant l’extraordinaire procrastination qui va du 3 août 1993 jusqu’à l’explosion du génocide, on sentait la montée de la pression et estimé que, eu égard au fait que, selon l’expression consacrée, on peut tout faire avec des baïonnettes sauf s’asseoir dessus, il lui était devenu impossible de rester dans cette situation.
M. Bernard Cazeneuve a alors considéré que, au point où elle en était de ses investigations, la mission d’information avait le sentiment que le processus de libéralisation du régime procédait bien d’une dynamique propre à la société rwandaise, née bien avant 1990, avec notamment le mouvement de libéralisation de la presse et le développement de l’idée que le pluripartisme pourrait s’imposer un jour.
Il a cependant remarqué que si, avant 1990, on était dans une situation où la dynamique propre de la société rwandaise tendait au pluripartisme et à la démocratisation, à partir de 1990, en revanche, on assistait à une crispation. Il s’est alors étonné que ce soit justement au moment où le FPR attaquait, où les haines augmentaient, où les tensions s’accroissaient, où la haine raciale et les extrémismes s’exacerbaient, bref, où la dynamique était cassée, que le président ait pris une position centriste. Il en a conclu que ce n’était pas la dynamique propre à la société rwandaise qui le lui avait imposé, mais des pressions venant d’ailleurs.
Il a ajouté que les dépêches diplomatiques que M. Gérard Prunier avait regretté de ne pas avoir eu en sa possession montraient que la France n’avait cessé de faire des pressions, peut-être maladroites, entre 1990 et 1994, notamment sur le thème des droits de l’homme.
M. Gérard Prunier a répondu que c’était là toute la différence entre les notes officielles et le sentiment brut sur le terrain. Ajoutant que ces pressions existaient peut-être sous la forme de notes, mais qu’il y avait une sous-conversation qui exprimait exactement le contraire, il a jugé qu’il s’était ainsi creusé un écart considérable entre la position officielle de la France et la perception par la population rwandaise de la présence française aux côtés du régime.
Il a précisé que les extrémistes hutus avaient toujours eu l’impression que la France était derrière eux et a mentionné à ce propos l’accueil extraordinaire fait à l’arrivée de l’opération Turquoise par les responsables du génocide qui applaudissaient et déployaient de gigantesques drapeaux français ‑dont il s’est demandé où ils avaient trouvé le tissu‑ parce qu’ils croyaient que l’armée française était venue les aider.
Il a ajouté que, même si ce n’était pas du tout le message que la France voulait adresser aux Rwandais, c’est ainsi qu’il avait été reçu, a la fois par les extrémistes mais aussi par les Hutus libéraux ou par les Tutsis qui avaient l’impression que la France était leur ennemi. Ajoutant que les gens n’agissaient pas en fonction des intentions profondes que l’on peut avoir mais de la perception qu’ils en ont, il a estimé que, même si cette perception était fausse, elle avait suffit pour contribuer au déroulement des événements.
M. Bernard Cazeneuve a précisé qu’il comprenait parfaitement la démonstration de M. Gérard Prunier selon laquelle une dynamique propre à la société rwandaise aurait obligé le président à changer de posture. Il a cependant observé que, chronologiquement, ce dernier avait adopté une position modérée non pas avant 1990 lorsque la dynamique politique du Rwanda poussait à la démocratisation, mais après, lorsque la situation était devenue inextricable pour lui. Il a demandé comment on pouvait considérer, dans ces conditions, que c’étaient les forces politiques rwandaises qui lui imposaient alors cette posture politique.
M. Gérard Prunier a attiré l’attention de la mission d’information sur le fait que les forces politiques rwandaises qui s’étaient constituées au moment où le président Habyarimana a changé d’attitude, en 1993, n’étaient pas celles qui existaient avant la guerre. Il a précisé que la tension n’avait pas commencé en 1990, mais à la fin des années 80, avec l’effondrement des cours du café, la disparition de l’étain, l’ajustement structurel et la diminution du volume de l’aide internationale et qu’à cette époque, un certain nombre de Hutus voyant en quelque sorte leur gâteau rétrécir, avaient commencé à s’entre-tuer. A ce propos, il a observé que l’expression qui qualifiait le Rwanda de “Suisse de l’Afrique” avait toujours beaucoup fait sourire les gens qui connaissaient le pays et que dans cette Suisse se trouvaient des caves où l’on a assassiné tous les ministres hutus du précédent régime. Il a précisé que les tensions ne concernaient alors qu’un certain nombre de Hutus. On ne pouvait pas considérer que les Hutus étaient au pouvoir comme l’exprimait l’idéologie de propagande, le rubanda nyamwinshi. En fait, il s’agissait de luttes au sein de ce que l’on appelait l’Akazu, c’est-à-dire la petite maison, la cour du pouvoir rwandais. Il a ajouté que cette tension s’était manifestée, par exemple, par l’assassinat du colonel Mayuya, qui était très proche du président Habyarimana. Il a estimé que l’offensive des Tutsis avait alors simplement fait monter la température d’un chaudron qui cuisait déjà à gros bouillons.
Il a fait observer qu’ainsi, en 1993, si le président Habyarimana s’était retrouvé en position centriste, ce n’est pas du tout parce qu’il était centriste, mais parce qu’il avait trouvé plus extrémiste que lui et qu’il commençait à avoir peur de la manière dont il était contourné.
Il a ajouté, qu’à son avis, pour ces extrémistes qui débordaient le Président Habyarimana, le pouvoir devait passer par son élimination.
M. Gérard Prunier a souhaité alors répondre à l’argument selon lequel les extrémistes hutus n’avaient pas pu abattre l’avion présidentiel puisque deux des leurs s’y trouvaient, le colonel Elie Sagatwa et le général Déogratias Nsabimana, chef d’état-major de l’armée rwandaise.

Evoquant d’abord le cas du général Nsabimana, M. Gérard Prunier l’a présenté comme un opposant qui, au printemps 1994, avait donné d’importantes informations sur la préparation du génocide à son cousin, Jean Birara, à l’époque directeur de la banque centrale du Rwanda. Celui-ci les avait ensuite portées à la connaissance des Belges - c’est le fameux épisode qui a été retracé par la commission d’enquête du Sénat belge - mais les Belges avaient refusé de le croire ou lui ont manifesté un intérêt poli sans donner suite à ses avertissements. N’ayant pas de contact à l’extérieur du pays, le général Nsabimana avait communiqué à son cousin une première liste de plus de mille personnes destinées à être assassinées, dont il avait eu connaissance en raison de ses relations avec les extrémistes appartenant aux services secrets. Il lui avait demandé, puisqu’il allait souvent en Europe, d’expliquer aux Blancs la gravité de la situation. Au regard de l’étendue du génocide, le nombre des victimes ainsi désignées pouvait paraître faible mais il s’agissait des hommes politiques, des journalistes, des hommes d’affaires qui appartenaient à l’opposition hutue ou à l’élite tutsie et dont la plupart ont été tués les 7, 8, 9 et 10 avril. Expliquant que le général Nsabimana n’était pas du tout d’accord avec les projets de génocide et que les extrémistes le savaient parfaitement, il a conclu qu’il n’y avait à leurs yeux aucun problème à ce qu’il disparaisse avec le président.
Quant à Elie Sagatwa, il l’a décrit comme un vrai extrémiste, un homme calculateur qui avait choisi le camp d’Habyarimana contre la montée de la CDR et des Interahamwe. Il s’opposait ainsi au clan de Madame, c’est-à-dire Agathe Kansinga, dont il a souligné qu’elle avait eu les honneurs d’une réception quasiment officielle lors de son arrivée à Paris, et ses frères, clan dont il a estimé qu’il avait véritablement été au cœur de l’organisation du génocide. Il a précisé qu’il n’était plus là question de Tutsis, mais uniquement de Hutus et que c’étaient des luttes de pouvoir à l’intérieur même de l’Akazu.
A propos des tensions qui avaient pu se créer entre Hutus, M. Gérard Prunier a cité les propos d’un homme à la mémoire duquel il a voulu rendre hommage, son ami Seth Sendashonga, assassiné quelques semaines plus tôt, à Nairobi, très probablement à l’instigation du nouveau gouvernement rwandais et qui était l’un de ces Hutus libéraux éternelles victimes, c’est-à-dire victimes du régime Habyarimana puis victimes du régime actuel. Seth Sendashonga lui disait : “Si les Tutsis n’avaient pas attaqué le Rwanda, il y aurait eu une guerre civile entre nous, entre Hutus”. M. Gérard Prunier a ajouté qu’il pensait que son ami avait parfaitement raison et que c’était le genre de considération qui passait complètement par-dessus la tête des responsables français.
Il a ensuite exposé que les luttes de pouvoir au sein de l’Akazu amenaient un certain nombre de gens à changer de côté et, qu’ainsi, le colonel Sagatwa avait décidé de devenir l’umugaragu c’est-à-dire le “client”, au sens romain, du président. Il a précisé qu’en fait le président n’était qu’un immigré, un grand type costaud qui avait fait son chemin dans l’armée et dont tout le monde savait qu’il n’était même pas rwandais d’origine mais zaïrois. Il a ajouté qu’en épousant Agathe, issue d’une grande famille hutue du nord, il avait fait un mariage très au-dessus de sa situation et qu’en fait, c’est elle et ses frères qui étaient le cœur du système tandis que le président n’en était que la périphérie. Il a souligné que le président avait toujours perdu ses “clients”, que, lorsque des hommes se rangeaient à ses côtés, ils mouraient et que tel avait été le cas du colonel Mayuya, assassiné en 1988.
M. Gérard Prunier a alors fait valoir que le colonel Sagatwa avait pensé qu’il était possible de jouer ce rôle auprès du président, qu’il avait parié sur le succès des accords d’Arusha, sur le fait que le président irait jusqu’au bout. Le colonel Sagatwa avait donc considéré qu’il lui serait profitable de se mettre du côté du président, en abandonnant son camp précédent, c’est-à-dire, celui de Madame. Il était évident qu’à partir de ce moment-là, ses anciens amis avaient jugé que ce changement de tactique faisait de lui un homme marqué. Le fait qu’il ait été dans l’avion ne garantissait donc absolument plus, du point de vue d’une certaine frange politique de l’Akazu, la sécurité du président. Ce n’était certainement pas lui qu’on allait épargner.
M. Bernard Cazeneuve a alors demandé à M. Gérard Prunier si, comme cela avait été dit à plusieurs reprises à la mission d’information, le colonel Sagatwa était le frère de Madame.
M. Gérard Prunier a répondu que ce n’était absolument pas le cas et rappelé que le terme de “frère” est utilisé de manière très lâche dans la culture africaine. Il a précisé que, personnellement, il ne pensait pas que le colonel Sagatwa ait eu le moindre lien familial avec Mme Kansinga et ajouté qu’il n’y avait pas de doute qu’il soit devenu un homme du président dans le courant de l’hiver 1993-1994.
Revenant sur l’analyse présentée par M. Gérard Prunier sur l’attentat, le Président Paul Quilès lui a demandé comment il expliquait que le FPR n’ait jamais donné de preuves formelles de la responsabilité des extrémistes hutus.
Précisant que lorsqu’on parlait de preuves, il s’agissait d’éléments factuels admissibles devant un tribunal comme des documents, des objets, des témoignages oculaires, M. Gérard Prunier a estimé que le FPR n’en disposait pas.
Evoquant ensuite ce qu’il avait écrit sur les massacres du FPR, à savoir qu’ils étaient moins ambitieux et constituaient une tactique, il a précisé les raisons pour lesquelles il avait employé ces termes. Il ne s’agissait pas en effet d’une solution finale, les actes de violence du FPR, qui ont commencé dès la période du génocide, ne visant pas à exterminer la totalité de la population hutue, ce qui était évidemment une impossibilité physique. Par ailleurs, contrairement à ce qu’il avait cru lui-même un moment, ces massacres n’étaient pas de simples dérapages mais relevaient réellement d’une tactique, d’une politique d’intimidation menée dans l’espoir d’obtenir la soumission de la population hutue.
Il a fait observer que, aujourd’hui, en 1998, du fait de l’élimination des Hutus modérés, qui avaient un moment fait partie du gouvernement d’union nationale, le Rwanda se trouvait dans une situation de coupure quasiment totale entre les deux communautés. Précisant sa pensée, il a estimé que le pouvoir était devenu un bunker ethnique tutsi, de même qu’il y avait eu autrefois un bunker ethnique hutu, et que cela ne signifiait pas plus qu’autrefois que la totalité de la communauté en question était représentée par ces instances gouvernementales. Il a ajouté qu’un certain nombre de Tutsis étaient même épouvantés par la dérive des partisans de ce bunker, qu’il a qualifiés de “parmetutsi”, par référence au “Parmehutu” qui était le nom du parti du président Kayibanda.
Il a précisé que la tactique du massacre avait été employée par le FPR avec une intensité variable. Elle avait été utilisée à plein entre août 1994 et mars 1995. Puis le calme est revenu dans le courant de l’année 1995 ainsi qu’en 1996, avant que les massacres reprennent avec force depuis avril 1997 avec le retour au Rwanda des réfugiés du Zaïre, certains de ces réfugiés, coupables d’actes de génocide, renouvelant leurs attaques contre les Tutsis sans que l’armée et le gouvernement rwandais soient capables de les contrôler, contrairement à ce qu’ils espéraient.
S’agissant du sort des personnels tutsis de l’ambassade de France au moment de l’opération Amaryllis, M. Gérard Prunier a indiqué qu’il disposait de témoignages oculaires et de noms qu’on lui avait demandé de ne pas citer en public mais qui pouvaient être mis à la disposition de la mission. Il indiqué que les interventions avaient surtout été demandées par téléphone et qu’au moment où le génocide avait été déclenché, il y avait eu des coups de téléphone frénétiques de personnes travaillaient à l’ambassade, mais aussi sur certains projets de développement français, à l’Alliance française ou au bureau de la Caisse française de développement.
Bien souvent, en effet, les ONG, les Nations unies, les ambassades des grands pays occidentaux avaient une majorité de personnels tutsis. Beaucoup des employés de l’ambassade de France, des organismes français ou des projets français étaient des Tutsis. Cette situation reflétait simplement l’écart d’éducation qui remontait à l’époque coloniale. En conséquence de la politique belge, les Tutsis étaient beaucoup plus éduqués, même après vingt-cinq à trente ans de régime à base ethnique hutue.
M. Gérard Prunier a expliqué que ces personnes, sachant qu’elles allaient mourir, avaient pensé que c’était leur dernière chance et avaient donc demandé qu’on vienne les chercher. Il a fait valoir que les habitants n’osant pas sortir de chez eux, il était relativement facile de venir à leur secours. Il a cité l’exemple d’un capitaine sénégalais de la MINUAR, tué plus tard dans les combats lors de la prise de Kigali, qui s’était spécialisé dans la recherche des Tutsis : il allait les chercher chez eux et, en plaisantant avec les miliciens ivres, il réussissait à leur faire franchir les barrages. Il a alors indiqué que, malgré ces circonstances, au moment de l’opération Amaryllis, on n’était pas allé chercher les Tutsis qui demandaient de l’aide. Il a ajouté qu’il connaissait le cas d’un couple mixte, qui vit aujourd’hui en France, dont on a essayé de convaincre la femme de ne pas insister pour partir avec son mari, ou encore que, alors que la plus grande pharmacie de Kigali était tenue par un Tutsi marié à une Russe, on avait évacué la femme blanche, mais pas le mari et que l’évacuation des enfants avait donné lieu à une longue et très difficile négociation sur le tarmac de l’aéroport.
M. Pierre Brana, faisant remarquer qu’il avait été dit à la mission que toutes les personnes réfugiées à l’ambassade avaient pu être évacuées mais que les membres du personnel n’avaient pas pu s’y rendre parce qu’ils étaient chez eux, à l’exception d’une personne d’origine Tutsie, M. Gérard Prunier a répondu qu’il avait entendu parler de cette personne, mais qu’il ne la connaissait pas. Il a expliqué, en revanche, qu’il savait que les gens réfugiés à l’ambassade étaient pour la plupart des dignitaires du régime, un certain nombre d’entre eux ayant voulu se mettre à l’abri, parce qu’ils n’étaient pas du tout sûrs, avec juste raison, de l’issue du processus qu’ils venaient de déclencher. Il a précisé qu’un seul opposant politique avait pu entrer dans l’ambassade, Joseph Ngarembe, dont la famille vit à Lille et qui est aujourd’hui employé du tribunal international pour traduire les documents en kinyarwanda. M. Ngarembe, qui était membre et cadre moyen du parti-social démocrate rwandais dont tous les cadres de niveau supérieur ont été assassinés, était entré à l’ambassade en raison d’une amitié personnelle et pas du tout à la suite d’une décision politique.
Il a réaffirmé que les employés de l’ambassade n’avaient pas reçu d’aide pour une possible évacuation, alors même qu’il aurait suffi de les emmener non pas en France, mais simplement au Burundi ou en Ouganda pour les mettre en sécurité.
M. Jacques Myard, demandant à M. Gérard Prunier, où il se trouvait au moment des faits, celui-ci a répondu qu’il était à Paris et qu’il tenait à préciser à M. Myard qu’il n’était en aucun cas un témoin oculaire des événements qu’il exposait.
A propos des évacuations, M. Jacques Myard a précisé que la centaine d’enfants qui avait été sortie d’un orphelinat par l’armée française au moment de ces faits n’appartenait, elle, à aucun parti.
M. Gérard Prunier a objecté que, autant il se réjouissait de l’évacuation de ces orphelins, autant cette opération avait servi de camouflage pour évacuer un certain nombre de personnes fort peu recommandables, qui se sont évaporées dès qu’elles ont mis le pied sur le sol de l’aéroport de Roissy. Il a ajouté qu’il y avait, parmi elles, une quarantaine de soi-disant infirmiers que l’on n’avait jamais vus auparavant à l’orphelinat et que l’on n’a jamais plus revus depuis. Il ne s’agissait donc pas d’une opération de nature entièrement humanitaire.
M. Pierre Brana a rappelé que, dans son ouvrage, M. Gérard Prunier avait écrit avec précaution : “Le colonel Bagosora, directeur des services au ministère de la défense, éminence grise du gouvernement provisoire, semble l’organisateur général de toute l’opération. Il paraît avoir coordonné la solution finale”. Il lui a demandé s’il pouvait fournir à la mission d’information des précisions complémentaires à ce sujet.
Exposant ensuite que le Rwanda avait toujours été présenté comme la clé de voûte de la région et que, de fait, suite aux événements du Rwanda, se sont produits ceux du Zaïre, il a souhaité connaître son point de vue sur cette thèse.
Enfin, il s’est interrogé sur le rôle joué par l’OUA, dont il a estimé qu’il avait été pour le moins d’une extrême discrétion.
M. Gérard Prunier a d’abord répondu que l’OUA [Organisation de l’Unité Africaine]n’avait joué aucun rôle efficace et avait été, comme d’habitude, complètement dépassée par les événements.
Il a ensuite estimé que le rôle du colonel Bagosora était effectivement très important, précisant que celui-ci était un grand survivant, qu’il avait survécu à tous les purges et remaniements ministériels et que son itinéraire illustrait de manière exemplaire les luttes au sein de l’Akazu.
Il a expliqué que, en 1992, le président Habyarimana avait demandé au ministre de la défense James Gasana de le débarrasser d’un certain nombre d’hommes de son entourage, qu’il trouvait peu sûrs, voire dangereux pour lui, en les marginalisant ou en les éliminant de leur poste et que parmi ceux-ci figuraient les colonels Rwagafilita, Serubuga, Sagatwa, avant qu’il ne change de camp, et Bagosora. Il a ajouté que si James Gasana avait réussi pour les colonels Rwagafilita, Serubuga et Sagatwa, il avait toujours échoué dans le cas du colonel Bagosora qui représentait l’ultime point de résistance de Madame et de ses frères. Tant qu’il demeurait secrétaire administratif du ministère de la défense, eux et leur groupe gardaient, dans ce ministère, un accès qu’ils estimaient absolument vital, non seulement pour le contrôle de l’armée, mais aussi parce que l’anse du panier dansait énormément. A ce propos, il a fait observer que le décuplement, en trois ans, de l’effectif de l’armée, de 5 200 à 50 000 hommes, en accroissant de façon considérable le budget de la défense, avait ouvert de façon tout aussi considérable les possibilités de détournement de fonds, d’abord pour financer les milices ‑ainsi les milices comme les Interahamwe ou les Impuzamugambi ont‑elles été financées par de l’argent volé au ministère de la Défense‑ mais aussi dans un but d’enrichissement personnel ou politique, l’argent transféré en Belgique ou au Luxembourg pouvant servir de trésor de guerre pour le futur. M. Gérard Prunier a ajouté que tel était le cas à l’heure actuelle, et que cette circonstance expliquait que les frères de Madame étaient toujours actifs. Il a estimé qu’il ne croyait pas trahir de secret en disant que M. Rwabukumba, frère de Madame, disposait de la signature sur son compte à Bruxelles, permettant le fonctionnement de leur groupement politique. Il a ajouté que c’est ce rôle spécifique d’agent du groupe au sein du ministère de la défense qui avait rendu Bagosora impossible à écarter pour James Gasana, alors même qu’il était allé jusqu’à fracturer les tiroirs du bureau de son ministre, pour y prendre des documents. Il a indiqué, au passage, à quel point cette anecdote montrait que tout ne baignait pas dans la tendresse et l’amour au sein du camp des extrémistes.
A propos du rôle du colonel Bagosora lors de l’attentat contre l’avion du président, M. Gérard Prunier a noté d’abord que celui-ci semblait pour ainsi dire avoir un peu “ perdu les pédales ” dans la nuit du 7, et que, quand il était allé voir l’ambassadeur des Etats-Unis, ou M. Booh-Booh, le représentant des Nations unies, il semblait dans un grand état d’émotion. Il a ajouté que, compte tenu du désordre qui régnait alors, il était très difficile de savoir s’il était le point de contrôle des opérations ou le sommet, le point central de l’affaire. Il a précisé qu’on voyait une nébuleuse de gens, que plusieurs personnes avaient joué des rôles clés et qu’il était possible qu’il n’y ait jamais eu de sommet .
Quant à la thèse du Rwanda, clé de voûte de la région, M. Gérard Prunier a répondu qu’il n’y croyait pas du tout, ou plus exactement, que si la déstabilisation du Rwanda pouvait avoir des conséquences dans la région, la paix au Rwanda n’avait aucune conséquence sur les pays frontaliers. Il a cité l’exemple de l’Ouganda, qui a été en état de guerre civile active ou larvée de 1966 à 1986 sans que le Rwanda ait joué le moindre rôle, sauf à la fin, entre 1981 et 1986, lorsque des réfugiés tutsis sont entrés dans l’organisation de guérilla de Yoweri Museveni. A ce propos, il a précisé que ce n’étaient pas les Tutsis rwandais qui constituaient la majorité de la force de guérilla de Yoweri Museveni en janvier 1986, quand il a pris Kampala, mais les Baganda, c’est-à-dire l’ethnie la plus nombreuse dans la région et que les Tutsis représentaient pour leur part sans doute entre 20 et 30 % de cette force, et en tout cas moins de 40 %.
M. Pierre Brana lui demandant quelle explication il donnait de l’impuissance complète de l’OUA dans le drame du Rwanda, M. Gérard Prunier a évoqué plusieurs moments de l’histoire de cette organisation. Il a d’abord souligné qu’en 1978, quand le président Nyerere avait repoussé l’armée d’Idi Amin Dada qui avait envahi la Tanzanie, mais l’avait aussi pourchassée jusqu’à Kampala dans le but de provoquer l’écroulement du régime, il avait été violemment critiqué par l’OUA, qui avait estimé qu’il s’agissait d’une ingérence dans les affaires d’un Etat souverain. Il a ajouté que le président Nyerere, complètement désabusé, avait dit, à l’époque: “L’OUA n’est pas une organisation internationale, c’est un syndicat de chefs d’Etat, dont le rôle essentiel est de se couvrir les uns les autres”.
Il a ensuite exposé qu’en février 1986, lorsque Yoweri Museveni avait pris le pouvoir en Ouganda, l’un de ses premiers actes avait été de se rendre à l’OUA et d’insulter publiquement l’assemblée générale de l’organisation à laquelle il avait tenu, en substance, les propos suivants : “Où étiez-vous, pendant qu’on nous massacrait ? Où étiez-vous, à l’époque du régime dictatorial d’Idi Amin ? Où étiez-vous pendant la dictature d’Obote ? Quinze ans plus tard, il y a trois cent mille morts en Ouganda. Vous ai-je déjà entendus dénoncer cette dictature de Noirs sur des Noirs ? Je vous ai beaucoup entendu parler de l’apartheid en Afrique du Sud. Je ne vous ai d’ailleurs pas vu faire beaucoup à ce propos. Mais en ce qui concerne ce qui s’est passé en Ouganda, vous n’avez jamais parlé, parce que, pour vous, il n’est pas grave qu’un Africain tue un autre Africain.” Ajoutant qu’il aimait beaucoup le franc parler du président Museveni, et que cette intervention, dont l’impact devant l’assemblée de l’OUA avait été assez impressionnant, lui avait fait un immense plaisir, il a conclu que si le général de Gaulle a qualifié l’ONU, dans un moment d’irritation, de “machin”, il ne savait pas comment il fallait qualifier l’OUA.
Après avoir souligné qu’il avait écouté avec grand intérêt la description de la dynamique interne de la société rwandaise qu’avait présentée M. Gérard Prunier, et estimé qu’elle pouvait laisser penser que, quoi qu’on ait fait, le résultat final aurait peut-être été le même, M. Jacques Myard lui a demandé quelle attitude il aurait recommandée au Président de la République si, en 1990, il avait été son conseiller pour les affaires africaines.
M. Gérard Prunier a répondu, qu’en 1990, il aurait proposé d’envoyer Noroît. Il a ajouté que c’est sur la suite qu’il y avait divergence. Il a estimé que la question était celle du prix que Noroît devait coûter au régime Habyarimana, qu’il aurait fallu le fixer beaucoup plus haut et qu’on avait vendu une marchandise de premier choix à un prix de Prisunic.
Il a jugé qu’il ne fallait à aucun prix que le FPR prenne Kigali car les conséquences auraient été très graves. Il a ajouté que c’était aussi le point de vue de beaucoup d’opposants hutus en février 1993, lorsqu’à la suite d’une autre offensive, le FPR avait été a deux doigts d’atteindre Kigali. Il a précisé que si le FPR s’était arrêté de lui-même, c’est parce qu’il avait noué des contacts avec l’opposition hutue qui lui avait demandé de ne pas prendre Kigali en raison des risques qu’aurait comporté cette action, les extrémistes étant prêts à déclencher des massacres dans le reste du pays.
Il a considéré que la France avait la possibilité d’exercer des pressions réelles plus efficaces que celles qu’elle avait faites, dont il s’est déclaré certain qu’elles avaient existé, et que la mission les recueillerait dans ses archives, mais qui se limitaient à des textes polis. Il a précisé qu’autant il était sûr que toutes les conditions formelles d’un soutien à la démocratisation avaient été remplies, autant il n’y avait pas eu de véritable politique de contrainte et qu’on avait laissé trop de marge au régime.
M. Jacques Myard a alors demandé si cette politique de pressions aurait pu suffire et si, eu égard au caractère ancestral de l’antagonisme entre les communautés hutus et tutsis, la démocratisation aurait pu être maintenue sur la durée.
Relevant que M. Gérard Prunier avait employé des expressions comme “massacres moins ambitieux” et “tactique de massacre”, M. René Galy-Dejean lui a demandé s’il acceptait la conclusion que le massacre était une forme de gouvernement au Rwanda. Il s’est demandé, à l’instar de M. Myard, comment le type de pression qu’il suggérait pouvait avoir la moindre efficacité dans ces conditions, sauf à aller jusqu’à la coercition extérieure complète, afin d’empêcher l’exercice de cette forme de pouvoir que constituait la tactique du massacre.
M. Gérard Prunier a d’abord répondu qu’il y avait eu aussi des moments dans l’Histoire de l’Europe où le massacre avait été une tactique de gouvernement et que depuis les guerres de religion en France jusqu’à l’épisode nazi, on avait vu sur notre continent le massacre utilisé comme un moyen d’action politique.
Il a ensuite déclaré qu’il ne croyait pas à la fatalité de façon générale et encore moins à celle de l’Histoire. Il a relevé qu’avant la période coloniale, on ne trouvait aucune trace de massacres mutuels entre Tutsis et Hutus mais que, au contraire, les multiples guerres qui se déroulaient au Rwanda opposaient chaque fois un lignage tutsi et ses clients hutus à un autre lignage tutsi avec ses clients hutus. Ces guerres ressemblaient ainsi étrangement à celles qu’on a connues au Moyen-âge, opposant des nobles avec leurs vassaux, possesseurs de chevaux, suivis de leur piétaille, de vilains et de serfs.
Il a jugé que l’évolution du Rwanda vers une situation de massacres périodiques entre les communautés hutue et tutsie vers les massacres était le produit d’une histoire et que, comme tout produit, il pouvait être changé, faisant valoir que si une situation a été créée, elle peut également être modifiée ou remplacée. S’agissant de la France, il a estimé qu’elle aurait eu le droit de ne pas intervenir mais que dans la mesure où elle décidait d’intervenir, il fallait le faire bien. A ce propos, il a précisé qu’à l’époque il y avait une marge d’intervention, une marge de manœuvre, qu’il n’y avait pas deux communautés figées face à face, comme c’est le cas à l’heure actuelle mais que des Hutus, comme Seth Sendashonga, pouvaient se retrouver au FPR, tandis qu’on avait vu des chefs miliciens interahamwe tutsis. Il a ajouté que, maintenant, la porte était fermée du fait du génocide et jugé que le but du génocide, et c’est en cela qu’il avait été un acte diabolique, avait été de détruire l’espace de liberté qui existait à l’époque entre les deux communautés. S’agissant du FPR, il a indiqué que le génocide y avait provoqué la marginalisation des libéraux et l’avait transformé en bunker ethnique tutsi. Le génocide a ainsi donné aux extrémistes tutsis l’occasion de faire prévaloir une politique de rupture de tout lien avec les hutus, décrits comme les assassins des tutsis.
Il a ajouté que la France avait l’occasion d’élargir l’espace de liberté entre les deux communautés, de renforcer d’autant la main des libéraux et des modérés, aussi bien tutsis que hutus, dans leur parti respectif, de façon à éviter que la situation soit prise en main par les extrémistes, mais que cette politique nécessitait plus de fermeté. Il a estimé à ce propos qu’il fallait parler au régime du président Habyarimana avec des mots qu’il était capable de comprendre, des mots qui n’étaient pas tendres, qu’il fallait littéralement le soumettre à un chantage et que c’est cette politique qui aurait permis de désamorcer la crise. Il a ajouté que la France n’avait pas compris le Rwanda, mais que, lorsqu’on ne comprenait pas, il ne fallait pas agir.
M. François Lamy s’est interrogé sur la contradiction entre la thèse d’un attentat commis par des extrémistes hutus en vue de prendre le pouvoir et de commettre le génocide et le déroulement des événements puisque, au lieu d’assister au phénomène classique de l’affirmation de responsables politiques, on avait vu, au contraire, la famille du président Habyarimana et les dignitaires du régime se réfugier à l’ambassade de France et donner l’impression d’une déliquescence totale.
Ensuite, rappelant que lors, de son audition, M. Jean-Christophe Mitterrand avait contesté la phrase que M. Gérard Prunier avait citée ainsi que sa présence dans son bureau, il lui a demandé ce qu’il savait des liens entre les responsables politiques français et la famille du président Habyarimana et notamment des relations entre M. Jean-Christophe Mitterrand et le fils du président Habyarimana.
M. Gérard Prunier a répondu que sur la déliquescence du régime qui a suivi l’attentat et le début du génocide, il se posait lui aussi des questions. Il a estimé que, dans ces événements d’une extraordinaire confusion, il s’était passé plusieurs choses à la fois. Au sein même des extrémistes, certains ont été épouvantés par ce qu’ils avaient fait ; ils ont vu qu’ils avaient mis le feu à la maison et qu’ils devaient l’évacuer. D’autres, habitués à une vie très confortable, comme Madame et ses frères, sont partis avec des stratégies assez personnelles et avec l’intention de revenir quand tout serait terminé ; ils estimaient qu’en attendant, ils seraient mieux à Paris. Enfin, des gens comme Kambanda, Sindikubwabo, Bicamumpaka, sont partis à Gitarama parce qu’ils avaient l’impression que la situation militaire ne pouvait pas être maîtrisée à Kigali et sont allés jusqu’au bout.
S’agissant de sa rencontre avec M. Jean-Christophe Mitterrand, il a estimé que la mémoire de ce dernier lui faisait peut-être défaut et déclaré qu’il pouvait donner des détails très précis, qu’il était venu lui parler du Soudan, ce qui n’avait strictement rien à voir avec ce qui venait d’arriver au Rwanda et qu’il ne s’attendait pas, pas plus que M. Mitterrand, d’ailleurs, à ce que le président Habyarimana appelle alors qu’il était dans son bureau.
Concernant les liens de M. Jean-Christophe Mitterrand avec M. Jean-Pierre Habyarimana, il a exposé qu’il y avait des témoins oculaires de leurs relations et qu’on pouvait donner les dates où ils ont été vus ensemble au Rwanda. Il a ajouté qu’il était étonnant que la mémoire de M. Mitterrand soit défaillante au point d’oublier les lieux et dates de ces rencontres et que la dernière fois où il avait été vu en compagnie de M. Jean-Pierre Habyarimana dans un lieu public, c’était en avril 1992. S’interrogeant sur l’attitude extrêmement défensive de M. Jean-Christophe Mitterrand lorsqu’on mentionnait le nom de Jean-Pierre Habyarimana, et sur le fait qu’il dise qu’il ne l’a pas connu, alors qu’il était facile d’apporter la preuve du contraire, il a déclaré, en revanche, que sur la nature de leurs relations, sur le contenu de leurs conversations, il serait bien incapable d’apporter la moindre précision.
Précisant qu’il n’avait pas posé sa question pour en rester à l’anecdote des rencontres de M. Jean-Christophe Mitterrand, M. François Lamy a demandé à M. Gérard Prunier s’il pensait qu’un certain comportement de l’administration et des responsables politiques français avait pu empêcher les autorités politiques d’avoir une vision claire de ce qui se passait réellement au Rwanda.
M. Gérard Prunier a répondu qu’à son avis, on n’avait pas vu ce qui s’y passait et que M. Jean-Christophe Mitterrand n’avait pas le moins du monde aidé à le voir.




Lunedì, 16 maggio 2005