Palermo, terra promessa

I «viddani» aspirano a proseguire l’assalto al potere


di Alfio Caruso (“Azione”, Lugano – 9 maggio 2006 , n. 19)

La serie di articoli sulla mafia raccontata da Alfio Caruso, autore di romanzi, thriller politici e saggi, prosegue con questa seconda puntata. Che spiega perché dai corleonesi ormai non si poteva più prescindere


Su Palermo piove e le ombre della sera invitano a rientrare in casa. Sono le 19 del 10 dicembre 1969 quando un’Alfa Romeo Giulia blu con il lampeggiante sul tettuccio raggiunge il complesso di viale Lazio. E un gruppo di palazzi sorto in spregio a norme e regolamenti sulla scia della selvaggia speculazione edilizia che da dieci anni sfigura il volto della città. Per fare largo a questi casermoni sono andate distrutte le irripetibili ville Liberty, come villa Deliella, l’espressione più suggestiva del talento di Ernesto Basile, che inframmezzava le sue opere di simboli massonici. I costruttori, e i boss mafiosi che li proteggono, hanno fatto quattrini a palate. Ma i cinque in divisa da poliziotti che scendono dall’auto con i mitra spianati non sono li per fare rispettare la legge dello Stato, bensì dell’Antistato. Infatti non appartengono alle forze dell’ordine, al contrario costituiscono una sorta di nazionale dei killer. Li guida Bernardo Provenzano, il suo vice è Calogero Bagarella, la regia dell’operazione porta la firma di Totò Riina, sullo sfondo aleggia il fantasma di Luciano Leggio.

Due lustri dopo l’omicidio del dottor Michele Navarra, la cosca dei «viddani di Corleone» Salvatore Riina, detto « Totò u curtu » , corleonese, luogotenente della banda di Leggio Veduta di Corleone
riceve la definitiva consacrazione. Le grandi famiglie di Cosa Nostra si sono affidate alla sua sperimentata abilità per regolare un conto vecchio di anni. I cinque falsi poliziotti si precipitano verso la casamatta dentro il cortile interno. Hanno le spalle coperte da altre vetture con uomini armati. La zona è stata completamente circondata: per quelli presi di mira non esiste via di scampo.

Michele Cavataio, il «cobra» guastafeste

L’obiettivo è Michele Cavataio uno dei tanti palermitani senz’arte né parte che si è fatto avanti grazie a una ferocia senza limiti. Lo chiamano «Cobra» sia per il tipo di colt che sfoggia, sia per segnalarne la pericolosità e l’astuzia. Nel 1963 Cavataio aveva intuito che la furibonda contrapposizione tra i clan per una partita di droga avariata poteva rappresentare lo strumento in grado di sottrarlo alla vita agra, cui era destinato dal ruolo di paria in Cosa Nostra. Aveva cominciato a piazzare bombe, ad ammazzare mafiosi di entrambi i fronti. Il suo piano era tanto sanguinario quanto semplice: scatenare una guerra che gli consentisse la scalata sociale fin lì negatagli.

Palermo aveva vissuto mesi da incubo; il numero dei morti era cresciuto in maniera esponenziale, i clan più importanti - Badalamenti, Bontate, i Greco di Ciaculli e i Greco di Giardini Croceverde, Rimi, La Barbera, Torretta - si erano divisi ’ e massacrati. L’uccisione di sette militari, dilaniati dall’esplosione di una Giulietta imbottita di tritolo, aveva finalmente convinto il Governo ad intervenire. Erano volati gli stracci, ma molti capi dei mandamenti (l’associazione che raggruppa le «famiglie» per contiguità geografica) hanno preferito espatriare per evitare gli attentati e le inchieste della procura. Cosa Nostra si è persino salvata, nella primavera del ’69, dal primo maxi processo allestito a Catanzaro con 114 imputati: diverse assoluzioni, molte attenuanti generiche, tantissime scarcerazioni. E l’esito favorevole di questo processo ha trascinato quello di Bari, dove erano alla sbarra molti dei «viddani», ribattezzati dagli organi d’informazione l’ “Anonima Assassini”. Un’altra infornata d’insufficienza di prove che ha restituito alla libertà anche Riina e Leggio.

Ritorna a Palermo pure Cavataio, ormai individuato dai compari quale regista occulto delle stragi. Svaniti i tentativi di un’intesa pacifica, a causa delle intenzioni egemoniche del Cobra, la parola passa ai mitra. Ma Cavataio si attende un colpo di mano dai suoi nemici. È appena sfuggito a un agguato dalle parti di Catania, mentre si recava a visitare i figli in collegio, e ha assunto la precauzione di contornarsi di numerosi angeli custodi. In quella sera di pioggia ne ha cinque dentro la casamatta, che funge da ufficio del costruttore con cui è associato. Eppure la sorpresa dei falsi poliziotti riesce: le sventagliate dei mitra abbattono tre guardaspalle di Cavataio, ma lui fa onore al proprio nome. Si ripara dietro un tavolo, estrae la Cobra, abbatte Bagarella, vorrebbe sparare in faccia a Provenzano, ma ha esaurito le pallottole. A Provenzano, invece, s’inceppa il mitra, allora lui si avventa sul rivale con il calcio dell’arma, lo stordisce, prende la pistola e lo manda al Creatore.

I veri poliziotti allorché arrivano rinvengono quattro morti e due feriti. Ignorano che c’è un quinto morto, Calogero Bagarella, il fratello maggiore di Leoluca e Ninetta, la futura signora Riina. Provenzano l’ha portato via per non lasciare una traccia importante. Seppelliranno il corpo di nascosto e soltanto dopo un quarto di secolo l’autorità giudiziaria scoprirà che Calogero Bagarella non è latitante, ma defunto.

La stagione dei rapimenti

La quiete dura poco. Il ruolo di guastafeste che fu di Cavataio viene assunto dai «viddani». Aspirano a proseguire l’assalto al potere avviato a Corleone rubando le bestie e macellandole clandestinamente. Palermo diventa la terra promessa da conquistare, ma senza spostarsi dai luoghi natii che garantiscono protezione e sicurezza. Provenzano è latitante dal ’63, Leggio e Riina si buttano pure loro alla macchia perché la Giustizia, dopo averli prosciolti, vorrebbe di nuovo mandarli dietro le sbarre. Per tutti e tre l’urgenza sono i piccioli. Ma i Salvatore Riina, detto Totò u Curtu, corleonese, luogotenente della banda Leggio
Bontate, i Badalamenti, gl’Inzerillo, che gestiscono il traffico di droga con gli Stati Uniti, non vogliono saperne di aumentare le fette della torta. Riina e Provenzano rispondono aprendo la stagione dei rapimenti: colpiscono i figli della ricca borghesia, che ha costruito le proprie fortune all’ombra delle cosche.

Mettono così le mani sugli agognati quattrini e hanno l’intelligenza di usarli per allargare il consenso. Riuniscono attorno a sé gli scontenti, quanti mal sopportano la propria indigenza e lo strapotere economico dei soliti noti. Vengono strette alleanze decisive: Pippo Calò di Porta Nuova, i Ganci della Noce, Pippo Gambino di San Lorenzo, i Madonia di Resuttana. Da Palermo la rete dei corleonesi si estende alla provincia e ad altre città della Sicilia: i Brusca di San Giuseppe Jato, i Messina Denaro di Trapa ni, Mariano Agate di Mazara del Vallo (Trapani), i Santapaola di Catania, Piddu Madonia di Vallelunga (Caltanissetta). Sono tutti i futuri protagonisti del decennio di sangue e di ricchezza. Raffaele, il patriarca dei Gangi, è all’epoca proprietario di una macelleria di carne equina: quando sarà arrestato a metà degli anni Novanta gli verrà attribuito un patrimonio di oltre 50 milioni di euro.

Forze dell’ordine e magistratura non si raccapezzano. Interpretano come un attentato all’ordine costituito quelle che, invece, sono le avvisaglie di un’altra guerra di mafia. Nemmeno la clamorosa soppressione del procuratore Scaglione, una vendetta di Leggio, apre gli occhi agli inquirenti. La navigazione nel buio prosegue con il più eclatante dei sequestri ai danni di Nino Corleo. E l’estrema progenie di Simone Corleo filosofo, grande studioso dell’enfiteusi, deputato, rettore universitario, massone, del quale si può ammirare a Salemi, in provincia di Trapani, un’imponente statua. Il dottor Luigi Corleo è anche il siciliano più abbiente grazie a una legge regionale del ’52, che ha attribuito alla sua società la raccolta dei tributi nella regione. Per tradizione familiare i Corleo sono strettamente legati al potere politico, che nel dopoguerra significa la Dc, e al potere mafioso. Eppure Corleo si era opposto al matrimonio della figlia Franca con Nino Salvo, figlio e nipote di mafiosi. Assieme al cugino Ignazio, l’intraprendente Nino ha assunto un ruolo sempre più decisivo nel gruppo e ha curato i rapporti con Salvo Lima, proconsole di Andreotti e ufficiale di collegamento con il governo di Cosa Nostra.

Pare che il cuore di Corleo ceda nelle fasi iniziali del rapimento. Il cadavere non sarà ritrovato e per anni si fantasticherà su una parte del riscatto (la richiesta era di oltre 10 milioni di euro, una cifra enorme per l’epoca) comunque pagata. Il dato più rilevante, però, riguarda il tremendo schiaffo inflitto da Riina e Provenzano (Leggio ha preferito emigrare a Milano dove è stato arrestato nel 1974) alla principale asse di comando in Sicilia. Dai corleonesi non si può più prescindere.

(Continua)



Venerdì, 12 maggio 2006