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La giustizia della Chiesa Cattolica: quando il Vaticano protegge un genocida.

I preti, dal canto loro, troppi e poco costumati, spesso e per vari modi facevansi turbatori dell’ordine sociale; e coperti dalla parzialità de’ canoni, esenti per privilegio da ogni giurisdizione de’ secolari, difesi o scusati da’ tribunali degli ecclesiastici, sfuggivano alla regolarità de’ processi e del gastigo (Gino Capponi, “storia di Pietro Leopoldo”, 1823)


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Si sta svolgendo in questi mesi in Tanzania, nella sede del tribunale internazionale appositamente costituito,  uno dei tanti processi per  il genocidio del Ruanda degli anni ‘90.

 

Imputato è Athanase Seromba, ruandese di etnia hutu, prete cattolico.  Nessun giornale italiano ne parla, e le notizie che si trovano su internet sono rare e poco frequenti. Ma perché ci interessa?

Padre Seromba partecipò, secondo le accuse formulate a suo tempo, e redatte con cura dal giudice  Carla del Ponte in persona, ad una massacro di tusti, così come fece parte del clero cattolico hutu del Ruanda e del Burundi, clero che, attraverso le stazioni radio e le piccole trasmittenti di montagna delle quali disponeva, si fece spesso tramite tra i vari gruppi di ribelli e galvanizzò, con trasmissioni di raro fanatismo, le bande di assassini. Naturalmente, non tutti i religiosi si macchiarono di colpe, anzi,  moltissimi furono invece preti, suore e seminaristi che si adoperarono per salvare vite umane, o che furono vittime a loro volta delle immani stragi. Ma Anthanase Seromba non era certo il tipo da martirio.

Nominato come Curato nella parrocchia di Nyange, a Kibungo, accolse con fredda ipocrisia circa 2000 tusti in fuga, e li fece rifugiare all’interno della chiesa. Della quale, però, sprangò porte e finestre. Chiamò quindi le milizie hutu, e consegnò loro il bottino. Su sua stessa “autorizzazione”, la chiesa fu presa a cannonate. Sulle macerie passarono e ripassarono i bulldozer (“non vi preoccupate per la parrocchia! La ricostruiremo!”, raccontano che gridasse). la nuova chiesa cattolica di Kibungo I pochi sopravvissuti furono finiti a colpi di machete, e qualcuno pare lo abbia inferto pure lui. Nella puzza di sangue e di fumo, il prete assassino si levò con autorità, e indicando i morti, i pezzi dei morti, ordinò di “levare di torno quella immondizia”. I miliziani eseguirono. Era l’aprile del 1994, e i 2000 morti di Nyange erano solo tra i primi di un totale che si è avvicinato al milione. Sappiamo poi come andarono le cose:  i tutsi reagirono, e ripresero il potere. Migliaia di assassini genocidi furono arrestati, e, con tutte le pelosissime ipocrisie e prudenze della comunità internazionale, sopraffatta da montagne di  cadaveri e di polemiche, si istituì il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda. Ma di padre Anthanase Seromba, nessuna traccia. Il prete assassino era scomparso, nessuno, neanche i suoi complici del “Comitato Speciale per la Sicurezza” di Nyange ne sapevano più nulla. A Carla del Ponte, Procuratore Capo per il Tribunale ruandese, non rimase che emettere un mandato di arresto internazionale.  E le polizie di tutto il modo lo ricercarono, invano.

 

Firenze, Italia, 1999: Da un paio d’anni era stato nominato, nella chiesa di S. Martino a Montughi , un nuovo vice-la parrocchia di S. Martino a Montughi, Firenzeparroco. Il fatto che fosse straniero, e africano, fece effettivamente un po’ di scalpore, nel borghese quartiere cittadino, abituato a parroci – come dire – più tradizionali. Ma dopo le prime incertezze, fedeli e abitanti in genere della zona hanno imparato ad apprezzare l’efficienza e la cordialità di don Atanasio Sumba Bura, come dice di chiamarsi. Don Atanasio è arrivato nel 1997, con discrezione e con la benevola presentazione della diocesi fiorentina. Anzi, l’arcivescovado ha raccomandato la massima collaborazione e mobilitazione affinché don Atanasio potesse facilmente integrare nella comunità. Per due anni tutto va benissimo, aggraziate palazzine liberty e pesanti palazzoni anni ’50 avvolgono la vecchia chiesa in una normalissima vita di routine. Ma 1 milione di morti pesano sulla coscienza dell’umanità, e una associazione, African Rights, organizzazione simile a quelle ebraiche che non smisero mai di cercare i gerarchi nazisti, arriva fino a Firenze, fino a Montughi, fino a S. Martino, e, insospettita dal nome troppo simile a quello di un latitante irrintracciabile, scatta foto e prende informazioni, confronta dati e convoca testimoni. E riconosce Anthanase Seromba, lì, a S. Martino, a Montughi, a Firenze.

La notizia è una bomba, ma in Italia non esplode. È solo grazie ad un servizio accuratissimo del britannico Sunday Thimes che il caso fa il giro del mondo. Solo a quel punto (siamo nel novembre 1999) si mobilita la magistratura italiana. Don Anthanase nega, si infuria, convoca giornalisti, e rilascia dichiarazioni fiume, nelle quali accenna a  molte cose: alla quasi omonimia; alla sua assenza dal Ruanda ai tempi dei massacri; alla sua ordinazione sacerdotale che sarebbe successiva al 1994, addirittura ad un complotto anglo-americano… insomma, ai cronisti racconta la sua verità. Ad una sola condizione: non scattare fotografie.

Immediatamente, parte la “schermatura” della curia fiorentina. Don “Sumba Bura” viene custodito, difeso, avvolto in un abbraccio protettivo impenetrabile. Arcivescovo, vescovi e parroci esprimono solidarietà e sicurezza di innocenza, e lanciano segnali a magistrati e tribunali: don Atanasio non si tocca.  Per intanto, Atanasio viene trasferito in una parrocchia del circondario, a S. Mauro a Signa, sulle colline. Più tranquillità, meno curiosi, probabilmente una parrocchia più plasmabile. Poi, quando le acque si calmano un poco, semplicemente, sparisce. Tutti immaginano che sia fuggito, si sia dato ad una difficile e drammatica latitanza. Ma non è così, in realtà.  Passerà tempo, prima che si sappia dove si trova: a 25 metri dalla Cattedrale di Firenze, nella sede arcivescovile, che, essendo cardinalizia, è sotto sovranità vaticana, e quindi, diciamo così, extraterritoriale.

Per essere chiari fino in fondo: Anthanase Seromba, alias Atanasio Sumba Bura è stato nascosto dalle autorità ecclesiastiche in una sorta di impenetrabile ed inespugnabile fortino. Mentre l’interpol e le autorità del Tribunale lo ricercano, mentre i parenti degli uccisi lo reclamano, mentre le lettere ufficiali di African Right arrivano a Sua Eminenza il Cardinale e persino a Sua Santità il Papa, lettere che richiedono collaborazione per la giustizia in una vicenda di genocidio e orrore, la Chiesa fiorentina lo nasconde. Lo accudisce. Ne prepara, in un segreto lungo due anni, la difesa.

Poi, nel 2001, nell’agosto del 2001, ecco un comunicato: ’’Don Athanase Seromba non è « fuggito », come hanno scritto alcuni giornali: è tuttora ospite dell’arcidiocesi di Firenze e ribadisce di essere pronto a rispondere di fronte alla legge per tutte le accuse che lo riguardano’’, dichiara il portavoce della Curia fiorentina, Riccardo Bigi.  Anthanase “non intende affatto sottrarsi a un eventuale processo”, anche se, precisa Bigi, ’’A tutt’oggi, non ha ancora ricevuto nessun atto ufficiale di accusa, e non conosce quindi le imputazioni se non attraverso quello che e’ stato pubblicato sui giornali’’. Il comunicato si chiude con la denuncia della “disinformazione in Ruanda’’, e con l’esternazione di  “forti sospetti sulla imparzialità di African Rights.”

La Curia Fiorentina si dimentica però di “comunicare” come mai adesso, a due anni di distanza, il vice parroco ruandese risulti essere proprio Anthanase Seromba, e non Atanasio Sumba Bura, e si dimentica pure di dire come il palazzo dell’arcivescovado di Firenze, sede cardinaliziamai gli fossero state affidate due parrocchie sotto falso nome.

Due anni di attesa, due anni di occultamento dietro le finestre sotto le quali passano ogni giorno migliaia di turisti, dalle quali si vede il Battistero romanico e la cupola brunelleschiana. Due anni duranti i quali ONU e altre autorità avevano ricercato ovunque l’accusato. Una vera missione pastorale, questo tirarla per le lunghe. E non senza scopo. Infatti, nel 2001, in Italia succede qualcosa: Berlusconi torna al governo. Cosa c’entra? C’entra. Vediamo il susseguirsi dei fatti.

Il procuratore generale dei tribunali internazionali per i crimini nel Kosovo e in Ruanda è, appunto, Carla del Ponte, la super-giudice svizzera amica di Falcone e essenziale collaboratrice nelle indagini italiane su mafie e corruzione, indagini nelle quali Berlusconi (o qualche suo amico) è inciampato più volte. Il 12 luglio 2001, rimettendo a punto le denuncie e i precedenti mandati di cattura, la Del Ponte emette un ordine di cattura internazionale per genocidio nei confronti di quattro ruandesi : l’ex ministro delle finanze, un musicista, e due preti cattolici. Uno di essi è Anthanase. In tutta europa scatta una operazione coordinata, e i tre latitanti che si trovavano rispettivamente in Belgio, Olanda e Svizzera sono consegnati alle autorità competenti. L’Italia, al contrario, non esegue. Nonostante una risoluzione specifica dell’ONU (la 955 : "Tutti gli Stati devono cooperare pienamente con il Tribunale internazionale… i Paesi membri delle Nazioni Unite sono obbligati a cooperare senza indugi con ogni richiesta di arresto e consegna di qualsiasi persona incriminata dalla Corte.”), il ministero della Giustizia fa sapere che le relative leggi di ratifica non sono mai state approvate, e quindi una simile estradizione non è possibile. Si risponde dunque ad una legittima richiesta con una confessione di inadempienza giuridica. L’ufficio della Procura Speciale comincia ad innervosirsi: "per il Tribunale dell’ex Jugoslavia ci avete messo due giorni ad adeguare la legge" sbotta l’inviato svizzero ad un funzionario del Ministero di via Arenula. Poi gli rammenta: "Guardi che basta un decreto legge, una cosa che si fa in poche ore". L’incredibile risposta è: "Sa, per un decreto ci vuole tempo, occorre vagliare, vedere. L’ex Jugoslavia è alle porte di Roma. Il Ruanda è migliaia di chilometri lontano" (queste frasi sono state riportate, virgolettate, da Diario, ndr).

Carla Del Ponte non regge l’affronto, e chiede un immediato incontro con Berlusconi. Non se ne farà di nulla. E l’Italia viene ufficialmente biasimata alle Nazioni Unite.

Nel frattempo, dall’arcivescovato fiorentino, continuano a partire comunicati, nei quali si ribadisce che Seromba è “ospitato e protetto” in luogo segreto (l’arcivescovado stesso, come si saprà un mese dopo). Le autorità ecclesiastiche e il governo italiano sembrano andare avanti con una perfetta sincronia. L’avversità  di Berlusconi nei confronti della Del Ponte e quella di Castelli nei confronti di qualsiasi trattato di estradizione vanno a braccetto con la voglia della curia di frenare, rallentare, nascondere, giustificare.

Intanto, dopo l’11 settembre, governo, chiesa ed istituzioni si sbracciano alla ricerca dell’aggettivo più enfatico da affiancare a “terrorismo” “fanatismo” “estremismo” “guerra” “vite spezzate”... Si proclamano principi su “giustizia” “pace” “democrazia”, nonché “severità” “intransigenza” e “immigrazione clandestina”. Nessuno però collabora con l’ONU per consegnare un sospetto genocida a chi di competenza. 

Invece il Vaticano avvia trattative con il Tribunale e con le autorità ruandesi. Ottiene assicurazioni sui seguenti punti: il sacerdote non deve essere trasferito in Ruanda, né incarcerato con altri hutu incriminati nelle prigioni internazionali in Uganda, Burundi e Congo. Non deve essere condannato a morte, e deve avere un trattamento di riguardo.

 

Ben chiara deve essere una cosa: la trattativa per un eventuale consegna (sempre più inevitabile, viste le crescenti pressioni internazionali) deve essere esclusivamente condotta dalla Santa Sede, mentre lo stato Italiano deve esserne tenuto ufficialmente fuori. Infatti, quando, nell’agosto del 2002, il ministro Castelli risponde ad una interrogazione parlamentare dei DS presentatagli un anno prima, rivela due novità: 1),  che l’Italia ha approvato, finalmente, la legge sulla estradizione dei perseguiti dal tribunale internazionale (2 agosto 2002); 2) che Athanase Seromba si è già consegnato al Tribunale stesso, in Tanzania, il 6 febbraio di quell’anno, ovvero prima della approvazione della legge italiana, che ne avrebbe comportato l’arresto, la presa in consegna, il probabile sequestro di documenti e la perquisizione di parrocchie e archivi, nonché l’eventuale incriminazione di complici e fiancheggiatori.

In poche e semplici parole, il Vaticano ha fatto in modo che un suo protetto sfuggisse, se non al processo, alla giurisdizione italiana e alla conseguente giurisdizione internazionale. E l’Italia ha   chiaramente permesso la permanenza ed  il passaggio di un latitante sul suo territorio (conoscendo le date e gli scopi dei suoi spostamenti) senza approvare una legge obbligatoria  se non dopo la sua volontaria partenza.

Uno duplice schiaffo al diritto. Una ulteriore dimostrazione della sudditanza del nostro Paese nei confronti della Santa Sede. Una ulteriore dimostrazione che si condannano i peccati, ma non i peccatori. Una ulteriore differenza tra l’accanimento contro i matrimoni gay e le cellule embrionali, e la morbidezza (storica) verso i criminali di guerra.

Non per nulla, a S. Mauro a Signa, ultima parrocchia del sedicente padre Atanasio, si costituisce un comitato di solidarietà e di sostegno, che, per non farsi mancar nulla, apre pure un sito web. (eccolo) Nello stesso, si può anche soddisfare la curiosità di vedere le rare, rarissime foto del sacerdote.

Vorremmo solo ricordare, in chiusura di questo articolo,  che nel 1998 (quattro anni dopo i fatti ruandesi, un anno dopo l’arrivo clandestino di Seromba a Firenze, e quattro anni prima della sua consegna alle autorità tanzaniane), Karol Woitila aveva beatificato Aloysius Stepinac, arcivescovo di Zagabria durante la seconda guerra mondiale, amico, collaboratore e complice del dittatore ustascia Ante Pavelic, detto “il macellaio”, del quale aveva approvato ed appoggiato la strage (100 mila morti) dei serbi ortodossi. Ante Pavelic, alla fine del conflitto, si era rifugiato in Vaticano, da dove aveva ottenuto un lasciapassare per l’Argentina assieme a decine di gerarchi nazisti e comandanti SS. È una chiosa originale, o la conferma che, qualcosa, a Trastevere, non va?

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Sabato, 07 gennaio 2006