Stampa estera
Come il mondo intero ha seppellito la Palestina

Al di là degli scontri fra Hamas e Fatah


di Alain Gresh - Le Monde Diplomatique, luglio 2007, pag. 10
(traduzione dal francese di José F. Padova)

Gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno ripreso gli aiuti all’Autorità palestinese dopo l’estromissione di Hamas, vincitore delle elezioni di gennaio 2006. Tuttavia il problema-chiave resta quello postosi dopo l’insabbiamento del processo di Oslo: Israele è pronto a ritirarsi da tutti i territori occupati nel 1967 e a permettere la formazione di uno Stato palestinese indipendente? La condiscendenza da una dozzina d’anni della «comunità internazionale» verso lo Stato israeliano lascia poco spazio all’ottimismo.

Bisogna salvare il presidente Mahmud Abbas! All’unanimità la «comunità internazionale» lo proclama alto e forte. E avanza audaci proposte: sbloccare l’aiuto all’Autorità palestinese; alleviare le sofferenze della popolazione civile; aprire negoziati per rafforzare i «moderati» palestinesi. Perfino Ehud Olmert scopre all’improvviso in M. Abbas un «partner» per la pace. Sordi per anni alle opprimenti notizie ufficiali [rapporti, relazioni, studi…] circa la situazione della Cisgiordania e di Gaza pubblicate da istituzioni tanto diverse fra loro come lo sono la Banca Mondiale, Amnesty International o l’Organizzazione Mondiale della Sanità, Casa Bianca e Unione Europea sarebbero finalmente uscite dal loro profondo letargo?

Questo risveglio repentino è stato suscitato dalla vittoria senza appello di Hamas a Gaza. Eppure né gli Stati Uniti né Israele avevano lesinato sui mezzi militari dati a Fatah per vincere le elezioni, autorizzando a più riprese il passaggio d’armi destinate alla Guardia presidenziale e alla Sicurezza preventiva (1). Non è servito a nulla. La defezione della maggior parte dei responsabili militari di Fatah (Mohammed Dahlan, Rachid Abou Shabak, Samir Masharawi) , che hanno preferito rintanarsi in Cisgiordania o in Egitto invece di rimanere al fianco delle loro truppe, è uno dei tanti elementi che spiegano una cocente disfatta. L’incapacità di Fatah di riformarsi, di abbandonare il proprio status di Partito-Stato di uno Stato che non esiste per quello di forza politica «normale» ne è un altro: nepotismo, corruzione, spirito di casta continuano a incancrenire l’organizzazione fondata da Yasser Arafat.

Ma l’ingiustificabile ferocia degli scontri fra Hamas e Fatah a Gaza illustra anche lo smembramento della società palestinese, accelerato da quindici mesi di boicottaggio internazionale. Esecuzioni sommarie, vendette, saccheggi hanno segnato i combattimenti, mentre l’un campo accusava l’altro di essere al soldo dello straniero. Già il 12 gennaio, nel corso di un grande meeting a Gaza con Mohammed Dahlan, la folla sbeffeggiava gli «sciiti» di Hamas (2) [vedi riquadro]. L’organizzazione islamica da parte sua denuncia i suoi nemici come agenti d’Israele e degli Stati Uniti o, semplicemente, come kuffar («infedeli»). La giornalista israeliana Amira Hass nota che «i due campi trasformano i civili in ostaggi e li condannano a morte nei combattimenti di strada, sacrificando la causa palestinese sull’altare della loro rivalità (3)». La Palestina paga la militarizzazione della lotta politica, che si accompagna con il culto della violenza e di un esasperato machismo.

Una disgregazione programmata

In un messaggio disperato, inviato via Internet il 12 giugno, lo psichiatra palestinese Eyad Serraj deplora: «Quanto odio e appelli tribali alla vendetta. Non si tratta soltanto di una lotta politico-militare per il potere (…). Noi siamo stati tutti sconfitti da Israele e questo sentimento di umiliazione si ritorce contro nemici più piccoli al nostro interno. Israele ci ha brutalizzati con l’oppressione e la tortura e ha provocato dolori e traumi che ora mostrano la loro orripilante immagine attraverso una violenza tossica e cronica».

Da parte sua, il giornalista israeliano Gideon Levy descrive così il retaggio di quarant’anni d’occupazione: «Questi giovani che abbiamo visto ammazzarsi tanto crudelmente fra loro sono i figli dell’inverno 1987, i figli della prima Intifada. La maggior parte di loro non ha mai lasciato Gaza. Per anni hanno visto i loro fieri fratelli maggiori battuti e ingiuriati, i loro genitori imprigionati nelle loro stesse case, senza lavoro e senza speranza. Essi hanno vissuto tutta la loro vita all’ombra della violenza israeliana (4)».

Questo naufragio della Palestina può essere fermato? Forse, se le dichiarazioni americane ed europee fossero, una volta tanto, seguite da fatti, se la «comunità internazionale» decidesse infine d’imporre la creazione di uno Stato palestinese. Cinque anni fa, nel giugno del 2002, lo stesso presidente Gorge W. Bush aderiva a una pace fondata su due Stati che vivessero fianco a fianco. Tuttavia, in seguito, non è successo nulla.

Ricordiamolo. Il governo israeliano non ha mai smesso, durante gli anni 2003 e 2004, di proclamare che il solo ostacolo alla pace era Arafat. Il vecchio leader era stato assediato nei pochi metri quadrati del suo quartiere generale della Moqata a Ramallah. Ariel Sharon proferiva: «Il nostro Bin Laden è Yasser Arafat». La «comunità internazionale» lasciava fare.

Scomparso Arafat l’11 novembre 2004, Mahmud Abbas lo sostituiva alla testa dell’Autorità palestinese. Il più «moderato» dei dirigenti dell’organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) era ben deciso a rilanciare il «processo di pace», ma i suoi gesti d’apertura non portarono a niente: la colonizzazione si accelerò e così anche la costruzione del muro di separazione: i posti di blocco trasformarono qualsiasi spostamento di qualche chilometro fra due villaggi in una odissea dall’esito incerto. Un terreno fertile per la vittoria di Hamas alle elezioni del Consiglio legislativo del gennaio 2006.

Hamas ha saputo utilizzare tre grandi atout presso la popolazione: la sua partecipazione alla resistenza contro l’occupazione, la sua rete di aiuti sociali, l’incontestabile dedizione dei suoi quadri. Per questo gli elettori hanno votato per gli islamici, perché rifiutavano l’idea di una pace con Israele? Perché auspicavano un maggior numero di attentati suicidi? No, tutti i sondaggi d’opinione lo confermano, la popolazione aspirava in maggioranza a una soluzione fondata su due Stati. Hamas, d’altra parte, lo aveva capito bene: la sua piattaforma politica elettorale era ben diversa dalla sua Carta che, come quella dell’OLP negli anni ’60, esaltava la distruzione delle Stato d’Israele. Molti suoi dirigenti affermavano che, a certe condizioni, il loro Movimento era pronto ad aderire alla creazione di uno Stato palestinese sui soli territori occupati nel 1967.

Immediatamente dopo le elezioni al Consiglio legislativo de gennaio 2006 si stabiliva una strategia orchestrata dagli Stati Uniti e da Israele, avallata dall’Unione Europea e ripresa da una frazione di Fatah, allo scopo di inverire con ogni mezzo i risultati delle urne. Mentre Hamas auspicava la costituzione di un Governo d’unione nazionale, le pressioni americane impedirono un simile accordo. Il boicottaggio economico puniva la popolazione per avere «votato male»: non toccava per nulla le capacità finanziarie e militari di Hamas, come hanno dimostrato i combattimenti a Gaza, ma impoveriva la Palestina e, soprattutto, accelerava la disgregazione delle istituzioni.

La «comunità internazionale» ha dimenticato la lezione dell’Iraq: una dozzina d’anni di sanzioni contro Saddam Hussein non aveva compromesso né la stabilità del regime né il livello di vita dei suoi dirigenti. Al contrario, l’embargo aveva penalizzato la popolazione e soprattutto aveva contribuito a svuotare lo Stato della sua sostanza: i funzionari disertavano i loro uffici per tentare di guadagnarsi di che vivere, le istituzioni di base s’inceppavano, la solidarietà tribale si sostituiva ai servizi sociali. Quando gli Stati Uniti invasero il Paese, nel marzo 2003, lo Stato crollò come un castello di carte. Certamente, lo Stato palestinese non esiste, ma le poche strutture dell’Autorità, messe su con difficoltà dal 1993 in poi, non hanno resistito oltre al boicottaggio internazionale.

Una via d’uscita si aprì nel febbraio 2007 con la firma degli accordi della Mecca, fra Hamas e Fatah, sotto l’egida del re Abdallah dell’Arabia saudita. Il 12 febbraio, durante un’intervista alla televisione saudita Al-Ikhbariya, Khaled Meshal, capo dell’Ufficio politico di Hamas, spiegava il programma del governo d’unità nazionale. «Non è quello di un gruppo particolare. (…) ogni fazione ha le sue proprie convinzioni ma, come governo d’unità nazionale, noi ci siamo messi d’accordo su basi politiche, che definiscono le nostre mete nazionali e ciò cui noi aspiriamo: uno Stato palestinese nelle frontiere del 4 giugno 1967». Questa dichiarazione, fra le molte altre, confermava un’evoluzione di Hamas (5), che avrebbe potuto essere «testata» dalla «comunità internazionale». Tanto più che questa flessibilità era accompagnata dal rilancio dell’iniziativa di pace araba che proponeva a Israele una normalizzazione delle sue relazioni con i suoi vicini in cambio della creazione di uno Stato palestinese (6).

Robert Malley, direttore del Programma per il Medio Oriente dell’ International Crisis Group ed ex consigliere del presidente Clinton, scriveva questi concetti premonitori: «Il successo della Mecca dipenderà (…) molto dall’atteggiamento internazionale. Già si levano voci che, mentre salutano ipocritamente lo sforzo saudita, reclamano dal futuro Governo che rispetti le condizioni imposte precedentemente. Dall’Amministrazione Bush non ci si attendeva di meglio. Ma l’Europa? Non ha proprio imparato nulla da questo fallimento collettivo? Se in Arabia saudita c’è stato accordo è proprio perché a Hamas non si è imposto di compiere una rivoluzione ideologica che non farà, ma lo si è  piuttosto incoraggiato a realizzare un’evoluzione pragmatica che forse farà (…). Il percorso di Hamas è tale da giustificare che lo si metta alla prova: è disposto ad accettare e a imporre un cessate il fuoco reciproco? È disposto a lasciare mano libera al presidente Abbas, debitamente incaricato in quanto dirigente dell’OLP a negoziare con Israele? È d’accordo perché sia sottoposto a referendum qualsiasi accordo Mahmud Abbas avrà concluso? E si impegna a rispettarne i risultati (7)?».

Ciecamente la «comunità internazionale» si è ancor più infilata in un impasse. Essa ha mantenuto il boicottaggio, che non poteva altro che rafforzare gli elementi più radicali di hamas. Osservò indifferente la società palestinese che si disintegrava. Questo partito preso trova la sua giustificazione in una logica che Alvaro de Soto, coordinatore per le Nazioni Unite del processo di pace in Medio Oriente, ha denunciato in un rapporto confidenziale e opprimente (8). Trattiamo Israele, egli spiega, «con una grande considerazione, quasi con tenerezza». Il Quartetto (9) si è trasformato in «un organismo che impone le sue sanzioni contro il governo eletto di un popolo sotto occupazione e che pone condizioni impossibili da adempiere per il dialogo» e ha evitato ogni pressione sul governo israeliano, particolarmente per ciò che riguarda la colonizzazione e l’avanzata del muro.

«Legittima difesa» d’Israele?

Un soldato israeliano è rapito nel giugno 2006? La «comunità internazionale» praticamente non reagisce alla distruzione come rappresaglia della centrale elettrica e di costruzioni civili di Gaza e a un’offensiva militare che farà centinaia di vittime. Due soldati israeliani sono catturati nel luglio 2006 alla frontiera col Libano? Durante trenta giorni la «comunità internazionale» lascia distruggere il Paese dei Cedri e le sue infrastrutture. Israele esercita, così pare, il suo diritto di «legittima difesa». E durante questo tempo l’estensione delle colonie rende ogni giorno più improbabile la creazione di uno Stato palestinese.

Eppure il caos che si diffonde non garantisce per niente la sicurezza degli israeliani. La guerra del Libano dell’estate del 2006 aveva già dimostrato la loro vulnerabilità di fronte a una guerriglia determinata e bene armata. La prosecuzione dei tiri di missili su Sderot e l’incapacità dell’esercito israeliano di fare cessare i tiri costituiscono una seria disfatta, come ammetteva Zeev Schiff, cronista militare di Haaretz (morto da poco), qualche giono prima del passaggio della striscia di Gaza sotto il controllo di Hamas: «Israele è stato effettivamente battuto. (…). A Sderot Israele ha vissuto qualcosa senza precedenti dalla guerra d’indipendenza e forse in assoluto: il nemico è arrivato fino a ridurre al silenzio una intera città e vi ha fatto cessare ogni forma di vita normale (19)». Ciò che accade a Nahr Al-Bared e negli altri campi per rifugiati del Libano, o addirittura a Gaza, vale a dire la formazione di cellule radicali legate ad Al-Quaeda, dovrebbe ricordare a tutti che il naufragio della Palestina porterà con sé una radicalizzazione incontrollata e altri cataclismi per Israele e per tutta la regione.

 

(1) Amos Harel e Avi Issacharoff, « Fatah to Israel : Let us get arms to fight Hamas », Haaretz, Tel-Aviv, 6 juin 2007.

(2) Tutti i Palestinesi di Gaza sono sunniti. Ma il sostegno fornito da Teheran a Hamas «giustifica» questo tipo di accusa.

(3) « Sacrificing the Palestinian struggle », Haaretz, Tel-Aviv, 14 juin 2007.

(4) Gideon Levy, « Flight from Gaza. Last to leave did turn out the lights », Haaretz, Tel-Aviv, 17 juin 2007.

(5) Si legga Paul Delmotte, «Le Hamas et la reconnaissance de l’Etat d’Israël », Le Monde diplomatique, gennaio 2007.

(6) Contrariamente a quanto afferma la propaganda del governo israeliano, sovente riportata senza verifiche dai media, questa iniziativa non prevede il «diritto al ritorno» per i rifugiati palestinesi. Essa richiede una soluzione «giusta» e «negoziata» del problema dei rifugiati sulla base della risoluzione 194 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

(7) « Palestine, l’Europe face à ses responsabilités », Le Monde, 13 marzo 2007.

(8)http:/image.guardian.co.uk/sys-files/Guardian/documents,2007,06; I2’DeSotoReport.pdf

(9) Struttura creata nel 2003 per coordinare l’azione in Medio oriente, che raggruppa Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Nazioni Unite.

(10) « An Israeli defeat in Sderot », Haaretz, Tel-Aviv, 8 giugno 2007.

 

Gli sciiti, il nuovo nemico

Stupefatto, il mondo ha scoperto dopo l’11 settembre che i «combattenti della libertà» afgani, celebrati dal presidente Ronald Reagan per la loro resistenza all’ Impero del Male (sovietico) avevano una visione molto originale della «libertà». Al-Quaeda è nato da questa cecità americana. Vent’anni più tardi Washington ha tratto la lezione da questo «sviamento»? No, se si crede alle informazioni date dal celebre giornalista americano Seymour Hersh: gli Stati Uniti hanno messo in piedi una coalizione di Paesi arabi sanniti moderati allo scopo di aiutare tutti i movimenti anti-iraniani e anti-sciiti – compresi i più «radicali» (a).

Caso emblematico il Libano, dove il governo di Fouad Sinora fronteggia un’opposizione dominata da Hezbollah, sciita. Nella sua inchiesta Hersh si preoccupava, prima ancora che Fatah Al-Islam facesse parlare di sé, dello sviluppo dei gruppi sanniti radicali legati a Al-Quaedache ricevevano certi finanziamenti da forze vicine alla maggioranza e al partito di Hariri. «E noi, gli Stati Uniti, guardiamo da un’altra parte mentre il nostro denaro e quello dell’Arabia saudita passa a quella gente sotto il tavolo. (…) Perché sosteniamo gente, voglio dire i salatiti, che avremmo arrestato e messo a Guantanamo soltano due o tre anni fa? Perché sono alleati potenziali contro Hezbollah».

Queste rivelazioni sono confermate dal giornalista David Samuels (b). Quando il successo dei democratici alle elezioni di novembre 2006 al Congresso aveva suscitato un vivo dibattito a Washington fra coloro che credevano in una vittoria in Iraq e coloro che erano favorevoli al negoziato con l’Iran e la Siria, «[la signora Condoleeza] Rice e i suoi colleghi dell’Amministrazione decisero di impegnarsi su una audace e rischiosa terza via. (…) l’Amministrazione scelse una sottile miscela di diplomazia e di pressioni economiche, di esercitazioni militari su grande scala, di guerra psicologica e di azioni clandestine. Il costo per le azioni clandestine, che comprendono il finanziamento di movimenti confessionali e paramilitari in Iraq, in Iran, in Libano e nei Territori palestinesi, ammonterebbe a 300 milioni di dollari, che sono pagati dall’Arabia saudita e da altri Paesi del Golfo, coinvolti». Ormai l’Iran ha sostituito Al-Quaeda nel ruolo di nemico pubblico numero uno.

A.G.

(a) Seymour Hersh, « The redirection : A strategic shift », The New Yorker, 5 marzo 2007. Le citazioni sono tratte dall’intervista concessa al sito Antiwar.com il 13 marzo 2007.

(b) David Samuels, « Grand illusions », The Atlantic Monihly, Washington, DC, giugno 2007.

Testo originale :

Comment le monde a enterré la Palestine

Au-delà des affrontements entre le Hamas et le Fatah

par Alain Gresh – Le Monde Diplomatique, juillet 2007, page 10

 

Les Etats-Unis et l’Union européenne ont repris l’aide à l’Autorité palestinienne après l’éviction du Hamas, vainqueur des élections de janvier 2006. La question-clé reste néanmoins la même que celle posée depuis l’enlisement du processus d’Oslo : Israël est-il prêt à se retirer de tous les territoires occupés en 1967 et à permettre la création d’un Etat palestinien indépendant ? La complaisance de la «communauté internationale» à l’égard du gouvernement israélien depuis une dizaine d’années laisse peu de place à l’optimisme.

Il faut sauver le président Mahmoud Abbas ! Unanime, la « communauté internationale » le proclame haut et fort. Et elle avance d’audacieuses propositions : débloquer l’aide à l’Autorité palestinienne ; alléger les souffrances des populations civiles ; ouvrir des négociations pour renforcer les « modérés » palestiniens. Même M. Ehoud Olmert découvre soudain en M. Abbas un « partenaire » pour la paix. Sourds durant des années aux rapports accablants sur la situation de la Cisjordanie et de Gaza publiés par des institutions aussi différentes que la Banque mondiale, Amnesty International ou l’Organisation mondiale de la santé, la Maison Blanche et l’Union européenne se seraient-elles enfin sorties de leur profonde léthargie ?

Ce réveil subit a été suscité par la victoire sans appel du Hamas à Gaza. Pourtant, ni les Etats-Unis ni Israël n’avaient lésiné sur les moyens militaires donnés au Fatah pour l’emporter, autorisant à plusieurs reprises le passage d’armes destinées à la garde présidentielle comme à la Sécurité préventive (1). Rien n’y a fait. La désertion de la plupart des responsables militaires du Fatah (MM. Mohammed Dahlan, Rachid Abou Shabak, Samir Masharawi), qui ont préféré se terrer en Cisjordanie ou en Egypte  plutôt que d’être aux côtés de leurs troupes, n’est qu’un des éléments d’explication d’une cuisante déroute. L’incapacité du Fatah à se réformer, à abandonner son statut de parti-Etat d’un Etat qui n’existe pas pour celui de force politique « normale » en est un autre : népotisme, corruption, clanisme continuent de gangrener l’organisation fondée par Yasser Arafat.

Mais la férocité injustifiable des affrontements entre le Hamas et le Fatah à Gaza illustre aussi la dislocation de la société palestinienne, accélérée par quinze mois de boycottage international. Exécutions sommaires, vengeances, pillages ont marqué les combats, chacun des deux camps accusant l’autre d’être à la solde de l’étranger. Déjà, le 12 janvier, au cours d’un grand meeting à Gaza avec M. Dahlan, la foule conspuait les «chiites» du Hamas (2) (lire l’encadré page 12). Quant à l’organisation islamiste, elle dénonce ses ennemis comme des agents d’Israël et des Etats-Unis ou, tout simplement, comme des kouffar (« infidèles »). La journaliste israélienne Amira Hass note que « les deux camps transforment les civils en otages et les condamnent à mort dans les combats de rue, sacrifiant la cause palestinienne sur l’autel de leur rivalité (3) ». La Palestine paie la militarisation de la lutte politique – militarisation qui s’accompagne d’un culte de la violence et d’un machisme exacerbé.

Un délitement programmé

Dans un texte désespéré envoyé via Internet le 12 juin, le psychiatre palestinien Eyad Serraj déplore : « Que de haine et d’appels tribaux à la vengeance. Ce n ’est pas seulement une lutte politico-militaire pour le pouvoir. (...) Nous avons tous été défaits par Israël, et ce sentiment d ’humiliation se retourne contre des ennemis plus petits en notre sein. Israël nous a brutalisés par l’oppression et la torture et a provoqué une douleur et des traumatismes qui montrent maintenant leur vilaine figure à travers une violence toxique et chronique. »

Pour sa part, le journaliste israélien Gideon Levy décrit ainsi le legs de quarante années d’occupation : « Ces jeunes gens que nous avons vus s’entretuer si cruellement sont les enfants de l’hiver 1987, les enfants de la première Intifàda. La plupart n’ont jamais quitté Gaza. Ils ont vu, des années durant, leurs fières aînés battus et injuriés, leurs parents emprisonnés dans leur propre maison, sans travail et sans espoir. Ils ont vécu toute leur vie à l’ombre de la violence israélienne (4)».

Ce naufrage de la Palestine peut-il être arrêté ? Peut-être, si les déclarations américaines et européennes étaient, pour une fois, suivies d’effets, si la « communauté internationale » décidait enfin d’imposer la création d’un Etat palestinien. Il y a cinq ans, en juin 2002, le président George W. Bush lui-même se ralliait à une paix fondée sur deux Etats vivant côte à côte. Pourtant, depuis, rien ne s’est passé.

Rappelons-nous. Le gouvernement israélien n’a eu de cesse, durant les années 2003-2004, de proclamer que le seul obstacle à la paix était Arafat. Le vieux leader avait été assiégé dans les quelques mètres carrés de son quartier général de la Mouqata’a à Ramallah. M. Ariel Sharon lançait : « Notre Ben Laden, c’est Yasser Arafat. » La « communauté internationale » laissait faire.

Quand Arafat disparut, le 11 novembre 2004, M. Abbas le remplaça à la tête de l’Autorité palestinienne. Le plus « modéré » des dirigeants de l’Organisation de libération de la Palestine (OLP) était bien décidé à relancer le « processus de paix », mais ses gestes d’ouverture n’aboutirent à rien : la colonisation s’accéléra, la construction du mur de séparation aussi ; les checkpoints transformèrent tout déplacement de quelques kilomètres entre deux villages en une odyssée incertaine. Un terreau fertile pour la victoire du Hamas aux élections du Conseil législatif de janvier 2006.

Le Hamas a su utiliser trois atouts majeurs auprès de la population : sa participation à la résistance à l’occupation ; son réseau d’aide sociale ; le dévouement incontestable de ses cadres. Les électeurs ont-ils, pour autant, voté pour les islamistes parce qu’ils rejetaient l’idée d’une paix avec Israël ? Parce qu’ils souhaitaient plus d’attentats-suicides ? Non, toutes les enquêtes d’opinion le confirmaient, la population aspirait en majorité à une solution fondée sur deux Etats. Le Hamas, d’ailleurs, l’avait bien compris : sa plate-forme politique électorale était bien différente de sa Charte, qui, comme celle de l’OLP des années 1960, prônait la destruction de l’Etat d’Israël. Plusieurs de ses dirigeants affirmaient que, sous certaines conditions, leur mouvement était prêt à se rallier à la création d’un Etat palestinien sur les seuls territoires occupés en 1967.

Immédiatement après les élections au Conseil législatif de janvier 2006 se mettait en place une stratégie orchestrée par les Etats-Unis et Israël, cautionnée par l’Union européenne et relayée par une fraction du Fatah, afin d’inverser par tous les moyens le résultat des urnes. Tandis que le Hamas souhaitait constituer un gouvernement d’union nationale, les pressions américaines empêchèrent un tel accord. Le boycottage économique punissait la population pour avoir «mal voté ». Il n’affectait nullement les capacités financières et militaires du Hamas, comme l’ont prouvé les combats à Gaza, mais il appauvrissait la Palestine ; surtout, il accélérait le délitement des institutions.

La « communauté internationale » a oublié les leçons de l’Irak : une douzaine d’années de sanctions contre le régime de Saddam Hussein n’avait affecté ni la stabilité du régime ni le niveau de vie de ses dirigeants. En revanche, l’embargo avait pénalisé la population et, surtout, avait contribué à vider l’Etat de sa substance : les fonctionnaires désertaient leur bureau pour tenter de gagner leur vie, les institutions de base s’enrayaient, la solidarité tribale se substituait aux services sociaux. Quand les Etats-Unis envahirent le pays, en mars 2003, l’Etat s’effondra comme un château de cartes. Bien sûr, il n’existe pas d’Etat palestinien, mais les quelques structures de l’Autorité difficilement édifiées depuis 1993 n’ont pas résisté davantage au boycottage international.

Une porte de sortie s’offrit en février 2007 avec la signature des accords de La Mecque, entre le Hamas et le Fatah, sous l’égide du roi Abdallah d’Arabie saoudite. Le 12 février, dans un entretien à la télévision saoudienne Al-Ikhbariya, M. Khaled Meshal, chef du bureau politique du Hamas, expliquait le programme du gouvernement d’union nationale. « Ce n’est pas celui d’un groupe particulier. (...) Chaque faction a ses convictions, mais, comme gouvernement d’union nationale, nous nous sommes mis d’accord sur des bases politiques, et celles-ci définissent nos buts nationaux et ce à quoi nous aspirons : un Etat palestinien dans les frontières du 4 juin 1967. » Cette déclaration, parmi bien d’autres, confirmait une évolution du Hamas (5), qui pouvait être « testée » par la «.communauté internationale ». D’autant que cette souplesse était relayée par la relance de l’initiative de paix arabe proposant à Israël une normalisation de ses relations avec son environnement en échange de la création d’un Etat palestinien (6).

M. Robert Malley, directeur du programme Proche-Orient de l’International Crisis Group et ancien conseiller du président William Clinton, écrivait, prémonitoire : « Le succès de La Mecque dépendra (...) pour beaucoup de l’attitude internationale. Déjà s’élèvent des voix qui, tout en saluant hypocritement l’effort saoudien, réclament du gouvernement à venir qu’il respecte les conditions précédemment imposées. De l’administration Bush on ne s’attendait guère à mieux. Mais de l’Europe ? N’aura-t-elle rien appris de cette faillite collective ? Si accord il y a eu en Arabie saoudite, c’est bien parce que le Hamas n’a pas été sommé d’accomplir une révolution idéologique qu’il ne fera pas, mais plutôt encouragé à réaliser une évolution pragmatique qu’il fera peut-être. (...) Le parcours du Hamas est tel qu’il justifie qu’on le mette à l’essai : est-il prêt à accepter et à imposer un cessez-le-feu réciproque ? Est-il disposé à laisser les mains libres au président Abbas, dûment mandaté en tant que dirigeant de 1’OLP à négocier avec Israël ? Est-il d’accord pour que soit soumis à référendum tout accord que Mahmoud Abbas aura conclu ? Et s’engage-t-il à en respecter les résultats (7) ? »

Aveugle, la « communauté internationale » s’est enfoncée plus avant dans une impasse. Elle maintint le boycottage, qui ne pouvait que renforcer les éléments les plus radicaux du Hamas.

Elle regarda, indifférente, la société palestinienne se déliter. Ce parti pris trouve sa justification dans une logique que vient de dénoncer, dans un rapport confidentiel et accablant, M. Alvaro de Soto, coordinateur pour les Nations unies du processus de paix au Proche-Orient (8). Nous traitons Israël, explique-t-il, « avec une grande considération, presque avec de la tendresse ». Le Quartet (9) s’est transformé en « un organe qui impose des sanctions contre le gouvernement élu d’un peuple vivant sous occupation et qui met des conditions impossibles à remplir pour le dialogue », et il a évité toute pression sur le le gouvernement israélien, notamment en ce qui concerne la colonisation et l’avancée du mur.

« Légitime défense » d’Israël ?

Un soldat israélien est-il enlevé en juin 2006 ? La « communauté internationale » ne réagit pratiquement pas à la destruction en représailles de la centrale électrique et de bâtiments civils de Gaza et à une offensive militaire qui fera des centaines de victimes. Deux soldats israéliens sont-ils capturés en juillet 2006 à la frontière libanaise ? Pendant trente-trois jours, la «communauté internationale» laisse détruire le pays du Cèdre et ses infrastructures. Israël exerce ainsi, paraît-il, son droit de « légitime défense ». Et, pendant ce temps, l’extension des colonies rend chaque jour plus improbable la création d’un Etat palestinien.

Pourtant, le chaos qui s’étend ne garantit nullement la sécurité des Israéliens. La guerre du Liban de l’été 2006 avait déjà démontré leur vulnérabilité face à une guérilla déterminée et bien armée. La poursuite de tirs de roquettes sur Sderot et l’incapacité de l’armée israélienne à les faire cesser constituent une sérieuse défaite, comme le concédait Zeev Schiff, chroniqueur militaire de Haaretz (qui vient de décéder), quelques jours avant que la bande de Gaza ne passe sous le contrôle du Hamas : « Israël a été effectivement battu. (...) Israël a vécu à Sderot quelque chose de sans précédent depuis la guerre d’indépendance, et peut-être jamais : l’ennemi est arrivé à réduire au silence une ville entière et y a stoppé toute vie normale (10). » Ce qui se passe à Nahr Al-Bared et dans les autres camps de réfugiés du Liban, ou même à Gaza, c’est-à-dire l’implantation de cellules radicales liées à Al-Qaida, devrait rappeler à tous que le naufrage de la Palestine entraînera une radicalisation incontrôlée et des cataclysmes pour Israël et pour toute la région.

(1) Amos Harel et Avi Issacharoff, « Fatah to Israel : Let us get arms to fight Hamas », Haaretz, Tel-Aviv, 6juin 2007.

(2) Tous les Palestiniens de Gaza sont sunnites. Mais le soutien apporté par Téhéran au Hamas « justifie » ce type d’accusation.

(3) « Sacrificing the Palestinian struggle », Haaretz, Tel-Aviv, 14 juin 2007.

(4) Gideon Levy, « Flight from Gaza. Last to leave did turn out the lights », Haaretz, Tel-Aviv, 17 juin 2007.

(5) Lire Paul Delmotte, «Le Hamas et la reconnaissance de l’Etat d’Israël », Le Monde diplomatique, janvier 2007.

(6) Contrairement à ce qu’affirme la propagande du gouvernement israélien, souvent relayée sansvérification par les médias, cette initiative ne prévoit pas le « droit au retour » des réfugiés palestiniens. Elle demande une solution «juste» et « négociée » du problème des réfugiés sur la base de la résolution 194 de l’Assemblée générale des Nations unies.

(7) « Palestine, l’Europe face à ses responsabilités », Le Monde, 13 mars 2007.

(8)       http:/image.guardian.co.uk/sys-files/Guardian/documents,2007,06; I2’DeSotoReport.pdf

(9) Structure créée en 2003 pour coordonner l’action au Proche-Orient, qui regroupe les Etats-Unis, la Russie, l’Union européenne et les Nations unies.

(10) « An Israeli defeat in Sderot », Haaretz, Tel-Aviv, 8 juin 2007.

 

Les chiites, le nouvel ennemi

STUPÉFAIT, le monde a découvert après le 11 Septembre que les «combattants de la liberté» afghans, célébrés par le président Ronald Reagan pour leur résistance à l’empire du Mal (soviétique), avaient une vision très originale de la « liberté ». Al-Qaida est né de cet aveuglement américain. Vingt ans plus tard, Washington a-t-il tiré les leçons de ce «fourvoiement» ? Non, si l’on en croit les informations données par le célèbre journaliste américain Seymour Hersh : les Etats-Unis ont mis sur pied une coalition de pays arabes sunnites modérés dans le but d’aider tous les mouvements anti-iraniens et antichiites — y compris les plus « radicaux» (1).

Cas d’école, le Liban, où le gouvernement de M. Fouad Siniora fait face à une opposition dominée par le Hezbollah chiite. Dans son enquête, Hersh s’inquiétait, avant même que le Fatah AI-Islam ait fait parler de lui, du développement de groupes sunnites radicaux liés à Al-Qaida et dont certains financements provenaient des forces proches de la majorité et du parti de M. Hariri. « Et nous, les Etats-Unis, nous regardons ailleurs alors que notre argent et celui de l’Arabie saoudite passent à ces gens sous la table. (...) Pourquoi soutenons-nous des gens, je veux dire les salafistes, que nous aurions arrêtés il y a deux ou trois ans et mis à Guantánamo ? Parce qu’ils sont des alliés potentiels contre le Hezbollah. »

Ces révélations sont confirmées par le journaliste David Samuels (2). Alors que le succès des démocrates aux élections de novembre 2006 au Congrès avait suscité un vif débat à Washington entre ceux qui croyaient à une victoire en Irak et ceux qui étaient favorables à la négociation avec l’Iran et la Syrie, « [Mme Condoleezza] Rice et ses col-lègues de l’administration décidèrent de s’engager dans une troisième voie audacieuse et risquée. (...) L’administration choisit un mélange subtil de diplomatie et de pressions économiques, d’exercices militaires à grande échelle, de guerre psychologique et d’actions clandestines. La facture pour les actions clandestines, qui comprennent le financement de mouvements confessionnels et paramilitaires en Irak, en Iran, au Liban et dans les territoires palestiniens, se monterait à 300 millions de dollars. Ils sont payés par l’Arabie saoudite et d’autres pays concernés du Golfe.» Désormais, l’Iran a remplacé Al-Qaida dans le rôle d’ennemi public numéro un.

A. G.

(1) Seymour Hersh, « The redirection : A strategic shift », The New Yorker, 5 mars 2007. Les citations sont tirées de l’entretien donné au site Antiwar.com, le 13 mars 2007.

(2) David Samuels, « Grand illusions », The Atlantic Monihly, Washington, DC, juin 2007.



Giovedì, 06 settembre 2007