I cinque miti della transizione verso gli agro-carburanti

di Eric Holtz-Giménez,
Direttore generale del Food First - Institute for Food and Development Policy, Oackland (Etats-Unis).
(traduzione dal francese di José F. Padova)

Le Monde Diplomatique, giugno 2007, pagg. 26-27


Un’energia verde?
Mai la ricerca di nuove fonti d’energia è parsa tanto urgente. Petrolio, carbone e gas contribuiscono al riscaldamento del pianeta, soprattutto i primi due. Inoltre alcuni esperti stimano che le riserve di combustibile fossile non dureranno più di quaranta o cinquant’anni. Se pure sbagliassero di qualche decina d’anni, il problema dell’energia dell’avvenire non ne sarebbe per questo risolto. Nell’attesa il prezzo del petrolio va alle stelle… ma come uscirne?
Anche senza risalire al 1890, anno nel corso del quale fu progettato il primo motore funzionante con olio d’arachide, si sa che è possibile produrre bio-combustibili partendo da una miriade di materie agricole: alberi a crescita rapida, canna da zucchero, mais, colza, soia, ecc. Precursori in materia dal 1975, all’indomani del primo shock petrolifero, milioni di brasiliani utilizzano automobili che marciano a etanolo – ricavato dalla canna da zucchero -, a benzina o con entrambi. Di che mettere all’ordine del giorno queste fonti d’energia.
In questa ottica gli Stati Uniti hanno appena deciso una riduzione del 10% della loro dipendenza dal petrolio per i prossimi dieci anni, mediante l’inserimento del 10% di etanolo nella benzina venduta nel Paese. L’Unione Europea intende sostituire il 5,75% del suo consumo di benzina e di diesel con i bio-combustibili da ora al 2010, mentre questa percentuale deve passare al 20% nel 2020.
Tuttavia la visita di Gorge W. Bush in Brasile, nel marzo 2007, ha provocato l’emergere di una polemica sugli agro-carburanti. Proponendo la creazione di una «OPEP dei bio-combustibili» - Brasile e Stati Uniti controllano il 72% della produzione mondiale – l’inquilino della Casa Bianca ha trovato orecchio attento presso il suo omologo brasiliano, Luiz Inácio Lula da Silva. Quest’ultimo ha magnificato una «alleanza strategica [con gli Stati Uniti] che ci permette di convincere il mondo che è possibile cambiare le abitudini energetiche». Certamente animano il capo di Stato americano altre considerazioni che non la protezione dell’ambiente: ridurre la dipendenza petrolifera degli Stati Uniti dal Medio Oriente e da un Paese «non amico» come il Venezuela, opporre «Lula» a Hugo Chávez, frenare il progetto d’integrazione energetica dell’America del Sud propugnato da quest’ultimo. Ma la discussione va ben oltre. Per i loro difensori, questi carburanti alternativi non esauriscono le preziose risorse naturali del pianeta. Mentre partecipano al rafforzamento dell’indipendenza energetica dei loro Paesi offrono prospettive interessanti per gli agricoltori, particolarmente nei Paesi in via di sviluppo. In Europa permetterebbero di valorizzare le terre «congelate» dalla politica agricola comunitaria (la coltura a maggese a fini non alimentari è accettata dall’Unione).
Fra gli oppositori il primo capo di Stato che è insorto, nel nome delle «masse sottoalimentate del Sud» è stato Fidel Castro, il 9 maggio scorso: «Il fatto è che l’alternativa c’è proprio già: si destina la terra sia alla produzione di alimenti sia alla fabbricazione di bio-carburanti». Tenuto conto dei loro livelli di consumo, i Paesi sviluppati non dispongono di superfici agricole sufficienti per una simile trasformazione. Da qui l’idea di ricorrere ai paesi del Sud per fornire loro dell’energia a buon mercato. Ma a che prezzo per questi ultimi?
Un documento intitolato«Sustainable energy : A framework for decision makers», preparato da UN-Energy, gruppo che riunisce le istituzioni e i programmi delle Nazioni Unite che si occupano d’energia, e reso pubblico il 9 maggio, sottolinea i numerosi vantaggi che derivano dai sistemi bio-energetici considerando la riduzione della povertà, l’accesso all’energia, allo sviluppo e alle infrastrutture rurali. Tuttavia mette in guardia: «gli impatti economici e sociali della bio-energia devono essere valutati con cura prima di prendere decisioni sullo sviluppo di questo settore e sulla natura delle tecnologie, delle politiche e delle strategie d’investimento da adottare».

I cinque miti della transizione verso gli agro-carburanti
di Eric Holtz-Giménez,  Direttore generale del Food First - Institute for Food and Development Policy, Oackland (Etats-Unis). (traduzione dal francese di José F. Padova)
Le Monde Diplomatique, giugno 2007, pagg. 26-27

Bio-carburanti… la parola evoca l’immagine lusinghiera di un’energia rinnovabile pulita e inesauribile, una fiducia nella tecnologia e la forza di un progresso compatibile con la durevole protezione dell’ambiente. Permette all’industria, agli uomini e donne politici, alla Banca Mondiale, alle Nazioni Unite e perfino al gruppo di esperti intergovernativi sull’evoluzione del clima (GIEC) di presentare i carburanti fabbricati partendo dal mais, dalla canna da zucchero, dalla soia e da altre colture come la prossima tappa di una transizione dolce, dal picco della produzione petrolifera a un’economia energetica derivante da risorse rinnovabili, che resta ancora da definire.

I programmi sono sin d’ora ambiziosi. In Europa si prevede che i combustibili provenienti dalla biomassa coprano il 5,75% del fabbisogno di carburanti per l’autotrazione nel 2010 e il 20% nel 2020. Gli Stati Uniti mirano a trentacinque miliardi di galloni (1) per anno. Questi obiettivi superano di gran lunga le capacità produttive dell’agricoltura dei Paesi industrializzati dell’emisfero Nord. L’Europa dovrebbe mobilitare il 70% delle sue terre arabili per stare alla pari; la totalità dei raccolti di mais e di soia degli Stati Uniti dovrebbe essere trasformata in etanolo e in bio-diesel. Una simile conversione metterebbe sottosopra il sistema alimentare delle nazioni del Nord. Anche i paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCDE) s’interessano all’emisfero Sud per coprire i loro fabbisogni.

Indonesia e Malesia accrescono rapidamente le loro piantagioni di palme da olio, per essere in grado di approvvigionare il mercato europeo del bio-diesel fino alla misura del 20%. In Brasile – dove la superficie delle terre arabili dedicata alle colture per i carburanti occupa già una porzione di territorio della grandezza di Regno Unito, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo presi insieme – il governo prevede di moltiplicare per cinque la superficie consacrata alla canna da zucchero. Il suo obiettivo: sostituire il 10% del consumo mondiale di benzina da oggi al 2025.

La rapidità alla quale si effettua la mobilitazione dei capitali e la concentrazione del potere nell’ambito dell’industria degli agro-carburanti è stupefacente. Nei tre ultimi anni gli investimenti di capitale a rischio vi sono stati moltiplicati per otto. I finanziamenti privati inondano le istituzioni pubbliche di ricerca, come attesta il mezzo miliardo di dollari di sovvenzioni accordato da BP (ex British Petroleum) all’Università di California.

I grandi gruppi petrolieri, cerealicoli, dell’industria automobilistica e d’ingegneria genetica concludono potenti accordi di partnership: Archer Daniels Midland Company (ADM) e Monsanto, Chevron e Volkswagen, BP, DuPont e Toyota. Queste multinazionali cercano di concentrare le loro attività di ricerca, produzione, trasformazione e distribuzione in relazione ai nostri sistemi alimentari e di approvvigionamento di carburanti.

Ragione di più, questa, perché i miti soggiacenti alla transizione verso gli agro-carburanti siano posti in piena luce prima di prendere questo treno già in marcia.

1. Gli agro-carburanti sono puliti e proteggono l’ambiente
Poiché la fotosintesi messa in atto da queste colture sottrae dall’atmosfera gas a effetto serra e poiché gli agro-carburanti possono ridurre il consumo d’energia fossile, si pretende che essi proteggano l’ambiente. Quando si analizza il loro impatto «dalla culla alla tomba» - dal dissodamento fino al loro utilizzo nel trasporto su strada – la limitata riduzione delle emissioni di gas a effetto serra è annullata dalle emissioni molto più ingenti dovute alla deforestazioni, agli incendi, al drenaggio delle zone umide, alla pratica delle colture e alla perdita di carbonio nel suolo. Ogni tonnellata di olio di palma emette altrettanto, se non più, gas di carbonio dell’equivalente quantità di petrolio (2). L’etanolo prodotto a partire dalla canna da zucchero coltivata su zone di foresta tropicale dissodata emette più della metà del gas a effetto serra della produzione e utilizzazione dell’equivalente quantità di benzina (3). Quando commenta l’equilibrio planetario del carbonio Doug Parr, capo responsabile scientifico di Greenpeace, dichiara categoricamente: «Se si producesse solamente il 5% di bio-carburanti annientando foreste primarie ancora esistenti si perderebbe la totalità del vantaggio sul carbone».
Le colture industriali destinate ai carburanti hanno bisogno dello spargimento massiccio di fertilizzanti prodotti a partire dal petrolio, il cui consumo mondiale – attualmente di 45 milioni di tonnellate all’anno – ha fatto più che raddoppiare il livello di azoto biologicamente disponibile sul pianeta, contribuendo così fortemente alle emissioni di ossido nitroso, un gas a effetto serra il cui potenziale di riscaldamento globale è trecento volte superiore di quello del CO2 (diossido di carbonio). Nelle regioni tropicali – da dove presto arriverà la maggior parte degli agro-carburanti – i fertilizzanti chimici hanno sul riscaldamento planetario un effetto da dieci a cento volte superiore a quello che si verifica nelle regioni temperate (4).

Ottenere un litro di etanolo richiede da tre a cinque litri di acqua per l’irrigazione e produce fino a tredici litri di acque usate. Occorre l’equivalente energetico di centotredici litri di gas naturale per trattare queste acque di scarto, ciò che aumenta le probabilità che esse siano semplicemente rilasciate nell’ambiente, inquinando torrenti, fiumi e falde freatiche (5).
L’intensificazione delle colture energetiche per i carburanti porta anche come conseguenza quella di aggravare il ritmo dell’erosione del suolo, in particolare nel caso della produzione della soia – 6,5 tonnellate per ettaro e per anno negli Stati Uniti; fino a 12 tonnellate in Brasile e Argentina.

2. Gli agro-carburanti non comportano deforestazione
I promotori degli agro-carburanti sostengono che le colture effettuate su terre ecologicamente degradate migliorano l’ambiente. Può darsi che il governo brasiliano avesse questa idea nella testa quando ha riqualificato buoni 200 milioni di ettari di foreste tropicali disseccate, praterie e paludi come «terre degradate» e adatte alla coltura (6). In realtà si trattava di ecosistemi di grande biodiversità nelle regioni del Mata Atlantica, del Cerrado e del Pantanal, occupati da popolazioni indigene, contadini poveri e grandi aziende per l’allevamento estensivo dei bovini.
L’introduzione di colture destinate agli agro-carburanti avrà semplicemente come risultato quello di respingere queste comunità verso la «frontiera agricola» dell’Amazzonia, dove i devastanti sistemi del dissodamento sono fin troppo ben noti. La soia fornisce già il 40% degli agro-carburanti del Brasile. Secondo la National Aeronautics and Space Administration (NASA) più i prezzi della soia salgono, più si accelera la distruzione della foresta pluviale dell’Amazzonia – 325.000 ettari all’anno, al ritmo attuale.

In Indonesia le piantagioni di palme da olio destinate alla produzione di bio-diesel – chiamato «diesel della deforestazione» - sono la causa principale dell’arretramento delle foreste. Verso il 2020 queste superfici saranno triplicate, per raggiungere 16,5 milioni di ettari – l’Inghilterra e il Galles sommati – con il risultato di una perdita del 98% della superficie forestale (7) la vicina Malesia, primo produttore mondiale di olio di palma, ha già perduto l’87% delle sue foreste tropicali e continua a distruggerle a un ritmo del 7% all’anno.

3. Gli agro-carburanti permetteranno lo sviluppo rurale
Ai tropici 100 ettari dedicati all’agricolture familiare creano trentacinque posti di lavoro, alle palme da olio e alla canna da zucchero dieci, agli eucalipti due, alla soia appena mezzo. Fino ai tempi più recenti gli agro-carburanti rifornivano principalmente i mercati locali e sub-regionali. Perfino negli Stati Uniti la maggior parte delle fabbriche per la produzione di etanolo, di dimensioni relativamente modeste, appartenevano agli agricoltori. Con l’attuale boom entra in gioco la grande industria, che crea economie di scala gigantesche e centralizza lo sfruttamento.

I gruppi petrolieri, cerealicoli e i produttori di colture transgeniche rafforzano la loro presenza  su tutta la catena di valore aggiunto degli agro-carburanti. Cargill e ADM controllano il 65% del mercato mondiale dei cereali; Monsanto e Sygenta dominano il mercato dei prodotti geneticamente modificati. Per le loro sementi, i loro know-how, i servizi, le trasformazioni e la vendita dei loro prodotti i contadini che coltivano per gli agro-carburanti saranno sempre più dipendenti da una alleanza fra società fortemente organizzate. È poco probabile che ne ricavino vantaggi (8). Più verosimilmente i piccoli produttori agricoli saranno espulsi dal mercato e dalle loro terre. A centinaia di migliaia sono stati già spostati nella «repubblica della soia», una regione di più di 50 milioni di ettari che copre il sud del Brasile, il nord dell’Argentina e l’est della Bolivia (9).

4. Gli agro-carburanti non causeranno la fame
Secondo la Food and Agricultural Organization (FAO) nel mondo vi è nutrimento sufficiente per alimentare tutti gli abitanti con una razione giornaliera di 2.200 calorie sotto forma di frutta fresca e secca, legumi, prodotti del latte e carne. Tuttavia, per il fatto che sono povere, 824 milioni di persone continuano a soffrire la fame. Ora, la transizione che si annuncia mette in concorrenza la produzione alimentare e quella dei carburanti nell’accesso alla terra, all’acqua e alle risorse. Un esempio concreto è dato attualmente dal Messico. Poiché le sue barriere doganali sono state smantellate nel quadro dell’Accordo di libero scambio nord-americano (Alena) (10), il Messico importa ormai il 30% del suo mais dagli Stati Uniti (11). La crescente domanda di etanolo in questo Paese ha provocato un’enorme pressione sul prezzo di questo cereale che ha raggiunto, nel febbraio 2007, il suo livello più alto in dieci anni, provocando un aumento drammatico del prezzo della tortilla – piatto base della popolazione messicana. Messo di fronte alle manifestazioni di malcontento di una popolazione povera colpita allo stomaco, il governo di Felipe Calderón, al termine di una riunione con le transnazionali dell’industria e della distribuzione, ha dovuto limitare l’aumento del prezzo della tortilla al 40% fino al prossimo mese di agosto.
Approfittando della congiuntura, il Centro di studi economici del settore privato (CEESP) ha pubblicato una serie di «studi» affermando che l’uscita dalla crisi, per il Messico, passa attraverso la produzione di mais per agro-combustibili e che esso «deve essere transgenico» (12).
Su scala planetaria le persone più povere spendono già dal 50% all’80% del loro reddito famigliare per alimentarsi. Esse soffrono quando i prezzi elevati delle colture per carburanti fanno salire i costi degli alimenti. L’International Food Policy Research Institute (Istituto internazionale di ricerca sulle politiche per l’alimentazione) di Washington ha stimato che il prezzo degli alimenti di base si accrescerà dal 20% al 33% nel 2010 e dal 26% al 135% nel 2020. ora, ogni volta che il costo del cibo aumenta dell’1% 16 milioni di persone cadono nell’insicurezza alimentare. Se la tendenza attuale continua, 1,2 miliardi di abitanti potrebbero soffrire cronicamente di fame nel 2025 (13). In questo caso l’aiuto alimentare internazionale non sarà probabilmente di grande aiuto, perché le nostre eccedenze agricole finiranno… nei serbatoi dei nostri veicoli.

5. Gli agro-carburanti di «seconda generazione» sono a portata di mano
I fautori degli agro-carburanti amano rassicurare gli scettici affermando che questi, prodotti attualmente a partire da colture di uso alimentare, saranno presto sostituiti da latri più compatibili con l’ambiente, come gli alberi a crescita rapida e il Panicum virgatum (graminacea il cui fogliame raggiunge m 1,80 di altezza). Questo permette loro di rendere più accettabili gli agro-carburanti di prima generazione.

Sapere quali colture saranno trasformate in carburante non è pertinente. Le piante selvatiche non avranno la minima «matrice ambientale», perché la loro commercializzazione trasformerà la loro ecologia. Coltivate in modo intensivo esse migreranno rapidamente dalle siepi e dai terreni boscosi verso le terre arabili – con le relative conseguenze ambientali. L’industria mira a produrre piante cellulosiche, geneticamente modificate – in particolare alberi a crescita rapida – che si decomporrebbero facilmente per liberare zuccheri. Tenuto conto della tendenza alla disseminazione già dimostrata per le colture geneticamente modificate, ci si può aspettare che sopraggiungano contaminazioni massicce.
Nei cinque/otto anni a venire ogni tecnologia il cui potenziale permetta di evitare i peggiori impatti del cambiamento climatico deve essere commercializzata su ampia scala. Prospettiva questa molto poco probabile nel caso dell’etanolo ricavato dalla cellulosa, prodotto che finora non ha dimostrato alcuna riduzione nell’emissione del carbonio (14). L’industria degli agro-carburanti sta scommettendo su dei miracoli.

L’Agenzia internazionale dell’energia calcola che, nei ventitre anni futuri, il mondo potrebbe fabbricare fino a 147 milioni di tonnellate di agro-carburanti (15). Un simile volume produrrà molto carbonio, ossido nitroso, causerà erosione e più di 2 miliardi di tonnellate di acque di scarto. Per quanto sorprendente possa apparire, questo quantitativo non farà altro che compensare la crescita della domanda mondiale di petrolio, attualmente valutata intorno a 136 milioni di tonnellate all’anno. Il gioco vale la candela?

Per le grandi società cerealicole, certamente. Che si chiamino ADM, Cargill o Bunge, sono i pilastri dell’agro-alimentare. Esse sono attorniate da una coorte altrettanto potente di trasformatori di materie prime e di distributori, a loro volta associati a catene di supermercati da una parte e, dall’altra, alle società dell’agro-chimica, delle sementi e del macchinario agricolo. Su 5 dollari consumati per il nutrimento 4 dollari corrispondono all’attività di questo insieme di società. Ora, da qualche tempo, la parte produttiva ha sofferto di una «involuzione»: poiché quantità crescenti d’investimenti (know-how chimico, ingegneria genetica e meccanizzazione) non hanno aumentato i tassi di produttività dell’agricoltura, il complesso agro-alimentare deve spendere di più per raccogliere meno.

Gli agro-carburanti sono la risposta perfetta a questa involuzione. Sovvenzionati e in fase di crescita mentre il petrolio scarseggia, essi facilitano la concentrazione nelle meni dei protagonisti più potenti dell’industria di alimentazione ed energia.

Purtroppo la transizione verso gli agro-carburanti soffre di una tara congenita. Essi entrano in competizione con la nutrizione, sia per le terre come per l’acqua e le risorse. Sviluppato all’estremo, lo sfruttamento di questi ultimi sarò utilizzato per produrre… agro-carburanti. Una proposta patetica dal punto di vista termodinamico. Essi ci obbligano a vivere al dispora dei nostri mezzi. «Rinnovabile» in effetti non significa «senza limiti». Anche se le colture possono essere ripiantate, terra, acqua e risorse restano limitate.

Di fatto, l’attrattiva di questi bio-combustibili sta nel fatto che potrebbero prolungare l’economia basata sul petrolio. Con una stima di circa 1.000 miliardi di barili come riserve mondiali residue di petrolio, un barile a 100 dollari non è molto lontano (16). E più il prezzo del petrolio sarà elevato, più il costo dell’etanolo potrà salire rimanendo competitivo. D’altra parte è qui che sta la contraddizione per gli agro-carburanti di seconda generazione.: a mano a mano che il costo degli idrocarburi aumenta, gli agro-carburanti di prima generazione diventano più redditizi, scoraggiando così gli investimenti nello sviluppo di quelli che potrebbero diventare i loro successori. Se il petrolio raggiunge 80 dollari al barile, i produttori di etanolo possono permettersi di pagare più di 5 dollari il moggio (circa 127 kg) di mais, facendolo diventare così competitivo anche rispetto alla canna da zucchero. Potenzialmente la crisi energetica mondiale è una cuccagna da 80.000 miliardi a 100.000 miliardi di dollari per i gruppi alimentari e petrolieri. Non c’è da meravigliarsi se non siamo incitati a derogare dalle nostre abitudini di «superconsumatori».
La transizione verso gli agro-carburanti non ha nulla d’inevitabile. Un gran numero di soluzioni locali condotte con successo sul terreno, efficaci a livello energetico e centrate sui bisogni degli abitanti, sono già operative e producono nutrimenti ed energia senza minacciare l’ambiente o i mezzi di sussistenza.
Negli Stati Uniti decine di piccole cooperative locali producono bio-diesel – sovente partendo da olio vegetale riciclato. La maggior parte delle cooperative del Middle West sono – per il momento – nelle mani degli imprenditori locali. Sempre questi possiedono quasi tre quarti delle raffinerie di etanolo del Minnesota e importanti sovvenzioni sono state loro attribuite.
Sarebbe inaccettabile che i Paesi del Nord spostino il fardello dei loro superconsumi verso il Sud del pianeta, semplicemente perché i Paesi subtropicali beneficiano di più sole, pioggia e terre arabili.

Eric Holtz-Giménez.

(1) 1 gallone americano equivale a 3,785 litri.
(2) George Monbiot. «If we want to save the planet, we need a five-year freeze on biofuels », The Guardian, Londres, 27 marzo 2007.
(3) The Washington Post, 25 marzo 2007.
(4) Miguel Altieri e Elizabeth Bravo, « The ecological and social tragedy of biofuels », 1. gennaio 2007, www.foodfirst.org
(5) The Ecologist, Londres, maggio 2007.
(6) « Plano Nacional de Agroenergia 2006-2011 », in Camila Moreno, « Agroenergia X soberania alimentar : A questão agrária do século XXI », Brésil, 2006.
(7) The Ecologist, ibid.
(8) Annie Dufey, « International trade in biofuels : Good for development . „And good for environment"», International Institute for Environment and Development, Londra, 2006.
(9) Elizabeth Bravo, «Biocombustibles, cultivos energéticos y soberanía alimentaria en América Latina : Encendiendo el debate sobre biocomustibles », Acción Ecólogica, Quito (Equateur), 2006.
(10) L’Alena raggruppa il Canada, gli Etats-Unis e il Mexique.
(11) Dal momento dell’entrata in vigore dell’Alena l’agricoltura messicana, che impiegava un quinto della popolazione, ha perduto 1,3 milioni di posti di lavoro.
(12) Silvia Ribeiro, ALAI-Amlatina, Quito, 17 maggio 2007, http://alainet.org
(13) C. Ford Runge e Benjamin Senauer, « How biofuels could starve the poor », Foreign.Affairs, Londra, maggio-giugno 2007.
(14) Farne un prodotto verde e valido non è semplicemente un problema di estrapolazione di tecnologie esistenti, ma di scoperte fondamentali nelkla fisiologia delle piante che permetterebbero di ottenere in modo economico ed efficace la decomposizione della cellulosa, l’emicellulosa e la lignina.
(15) www.iea.org/Textbase/subjectqueries/index.asp
(16) Caroline Lucas (sotto la dir. del.
« Fuelling a food crisis : The impact of peak oil on food security », Groupe des Verts - Alliance libre européenne, Parlement européen, décembre 2006.

LIBRI…
Biofuels for Transportation : Global Potential and Implications for Sustainable Agriculture and Energy in the 21st Century. — Worldwatch Institute,
Earthscan, Londres, 2007.
Une évaluation des risques liés à l’utilisation massive d’agro-carburants, avec des études de cas sur la Chine, le Brésil,
l’Allemagne, l’Inde et la Tanzanie.

Les Biocarburants. Etat des lieux, perspectives et enjeux du
développement.
— Daniel Ballerini et Nathalie Alazard-Toux (sous la dir. de), Technip, Paris, 2006.
Quest’opera, pubblicata sotto l’egida dell’Istituto francese del petrolio, analizza le poste in gioco per i biocarburanti nel contesto energetico mondiale e passa in rivista le diverse filiere di produzione, le tecnologie applicate, gli aspetti economici, ecc.

L’Optimisation du dispositif de soutien à la filière biocarburants.
— La Documentation_ française, Paris, 2005.
Secondo questo Rapporto, consegnato al primo Ministro nel 2005, sarà difficile nel 2007 «raggiungere gli obiettivi [di riduzione delle emissioni di CO2] senza ricorrere all’importazione di biocarburanti».

... E SITI
Biofuelwatch
Questa coalizione di gruppi ecologisti reclama l’abbandono degli obiettivi fissati dall’Unione Europea (10% di automobili funzionanti con biocarburanti entro il 2020), visto il rischio di «scatenare la deforestazione, di perdere le biodiversità e di esacerbare i conflitti locali connessi all’uso del terreno».
www.biofuelwatch.org.uk

Biocarburants : une catastrophe écologique et sociale programmée ! Dossier d’information réalisé par la branche française des Amis de la Terre
(Friends of the Earth International).
http://www.amisdelaterre.org/Biocarburants-une-catastrophe.html
Agence européenne de l’environnement (AEE)
L’AEE ha compilato la lista delle precauzioni indispensabili per conciliare colture energetiche e protezione dell’ambiente.
 
www.eea.europa.eu/themes/energy/listfeed?feed=reports_energy

Testo originale:

Une énergie verte ?
Jamais la recherche de nouvelles sources d’énergie n’a paru aussi urgente. Pétrole, charbon et gaz contribuent au réchauffement de la planète, surtout les deux premiers. En
outre, certains experts estiment que les réserves de combustibles fossiles ne dureront encore que quarante ou cinquante ans. Quand bien même ils se tromperaient de quelques dizaines d’années, le problème de l’énergie de l’avenir n’en serait pas résolu pour autant. En attendant, les prix du pétrole flambent... Mais comment s’en passer ?
Sans remonter à 1890, année au cours de laquelle fut conçu le premier moteur fonctionnant à l’huile d’arachide, on sait qu’il est possible de produire des biocombustibles à partir d’une variété infinie de matières agricoles : arbres à croissance rapide, canne à sucre, mais, colza, soja, etc. Précurseurs en la matière depuis 1975, au lendemain du premier choc pétrolier, des millions de Brésiliens utilisent des automobiles qui roulent à l’éthanol — issu de la canne à sucre —, à l’essence ou aux deux à la fois. De quoi mettre à l’ordre du jour ces sources d’énergie.
Dans ce registre, les Etats-Unis viennent de décider une réduction de 10 % de leur dépendance pétrolière au cours des dix prochaines années, à travers l’incorporation de 10 % d’éthanol dans l’essence vendue dans le pays. L’Union européenne entend remplacer 5,75 % de sa consommation d’essence et de diesel par les biocombustibles d’ici à 2010, ce pourcentage devant passer à 20 % en 2020.
Toutefois, la visite de M. George W. Bush au Brésil, en mars 2007, a provoqué l’émergence d’une polémique sur les agro-carburants. Proposant la création d’une « OPEP des biocombustibles » — le Brésil et les Etats-Unis contrôlent 72 % de la production mondiale —, le locataire de la Maison Blanche a trouvé un écho favorable chez son homologue brésilien, M. Luiz Inácio Lula da Silva. Ce dernier a prôné une « alliance stratégique [avec les Etats-Unis] qui nous permette de convaincre le monde qu’il est possible de changer les habitudes énergétiques ». Certes, des considérations autres que la protection de l’environnement animent le chef d’Etat américain : réduire la dépendance pétrolière des Etats-Unis à l’égard du Proche-Orient et d’un pays « non ami» comme le Venezuela, opposer « Lula » à M. Hugo Chávez, freiner le projet d’intégration énergétique de l’Amérique du Sud défendu par ce dernier. Mais le débat va bien au-delà.
Pour leurs défenseurs, ces carburants alternatifs n’épuisent pas les précieuses ressources naturelles de la planète. Tout en participant à renforcer l’indépendance énergétique de leurs pays, ils offrent des perspectives intéressantes pour les agriculteurs, particulièrement dans les pays en voie de développement. En Europe, ils permettraient de valoriser les terres « gelées » par la politique agricole commune (la culture sur jachère à des fins non alimentaires étant acceptée par l’Union).
Parmi les opposants, le premier chef d’Etat à s’insurger, au nom des « masses sous-alimentées du Sud », a été M. Fidel Castro, le 9 mai : « Le fait est que l’alternative est bel et bien là : on destine la terre soit à la production d’aliments soit à la fabrication de biocarburants. » Compte tenu de leur niveau de consommation, les pays développés ne disposent pas de surfaces agricoles suffisantes pour une telle mutation. D’où l’idée d’avoir recours aux pays du Sud pour leur fournir une énergie bon marché. Mais à quel prix pour ces derniers ?
Un document intitulé « Sustainable energy : A framework for decision makers » préparé par UN-Energy, groupe rassemblant les institutions et programmes des Nations unies s’occupant d’énergie, et rendu public le 9 mai, souligne les nombreux avantages dérivant des systèmes bioénergétiques eu égard à la réduction de la pauvreté, à l’accès à l’énergie, au développement et aux infrastructures rurales. Toute fois, il met en garde : « Les impacts économiques et sociaux de la bioénergie doivent être évalués avec soin avant de prendre des décisions sur le développement du secteur et sur la nature des technologies, des politiques et des stratégies d’investissement à adopter. »
Les cinq mythes de la transition vers les agro-carburants
par Eric Holtz-Giménez ** Directeur général du Food First - Institute for Food and Development Policy, Oackland (Etats-Unis).
Biocarburants... Le mot évoque l’image flatteuse d’une énergie renouvelable propre et inépuisable, une confiance dans la technologie et la puissance d’un progrès compatible avec la protection durable de l’environnement. Il permet à l’industrie, aux hommes et femmes politiques, à la Banque mondiale, aux Nations unies et même au Groupe d’experts intergouvernemental sur l’évolution du climat (GIEC) de présenter les carburants fabriqués à partir du maïs, de la canne à sucre, du soja et d’autres cultures comme la prochaine étape d’une transition douce, du pic de la production pétrolière à une économie énergétique issue de ressources renouvelables, qui reste encore à définir.

Les programmes sont d’ores et déjà ambitieux. En Europe, il est prévu que ces combustibles issus de la biomasse couvrent 5,75 % des besoins en carburants routiers en 2010 et 20 % en 2020. Les Etats-Unis visent trente-cinq milliards de gallons (I) par an. Ces objectifs dépassent de loin les capacités de production de l’agriculture des pays industrialisés de l’hémisphère Nord. L’Europe serait tenue de mobiliser 70 % de ses terres arables pour tenir son pari ; la totalité des récoltes de mais et de soja des Etats-Unis devrait être transformée en éthanol et en biodiesel. Une telle conversion mettrait sens dessus dessous le système alimentaire des nations du Nord. Aussi les pays de l’Organisation de coopération et de développement économiques (OCDE) s’intéressent-ils à l’hémisphère Sud pour couvrir leurs besoins.

L’Indonésie et la Malaisie accroissent rapidement leurs plantations de palmiers à huile pour être capables d’approvisionner le marché européen du biodiesel à hauteur de 20 %. Au Brésil – où la superficie de terres arables consacrées aux cultures pour les carburants occupe déjà une portion de territoire de la taille du Royaume-Uni, des Pays-Bas, de la Belgique, et du Luxembourg réunis –, le gouvernement prévoit de multiplier par cinq la superficie consacrée à la canne à sucre. Son objectif est de remplacer 10 % de la consommation mondiale d’essence d’ici à 2025.

La rapidité à laquelle s’opèrent la mobilisation des capitaux et la concentration de pouvoir au sein de l’industrie des agro-carburants est stupéfiante. Sur les trois dernières années, les investissements de capital-risque y ont été multipliés par huit. Les financements privés inondent les institutions publiques de recherche, comme l’atteste le demi-milliard de dollars de subventions accordé par BP (ex-British Petroleum) à l’université de Californie.

Les grands groupes pétroliers, céréaliers, automobiles et d’ingénierie génétique passent de puissants accords de partenariat : Archer Daniels Midland Company (ADM) et Monsanto, Chevron et Volkswagen, BP, DuPont et Toyota. Ces multinationales cherchent à concentrer leurs activités de recherche, de production, de transformation et de distribution relatives à nos systèmes alimentaires et d’approvisionnement en carburants.

Raison de plus pour que, avant de prendre le train en marche, les mythes sous-jacents à la transition vers les agro-carburants soient mis en pleine lumière.


I. Les agro-carburants sont propres et protègent l’environnement
Parce que la photosynthèse mise à contribution pour ces cultures soustrait des gaz à effet de serre de l’atmosphère et que les agro-carburants peuvent réduire la consommation d’énergie fossile, on prétend qu’ils protègent l’environnement. Lorsqu’on analyse leur impact « du berceau à la tombe » — du défrichage jusqu’à leur utilisation dans les transports routiers —, les réductions limitées d’émissions de gaz à effet de serre sont annulées par celles beaucoup plus importantes dues à la déforestation, aux incendies, au drainage des zones humides, aux pratiques culturales et aux perte de carbone du sol. Chaque tonne d’huile de palme émet autant, sinon plus, de gaz carbonique que le pétrole (2). L’éthanol produit à partir de canne à sucre cultivée sur des forêts tropicales défrichées émet moitié plus de gaz à effet de serre que la production et l’utilisation de la quantité équivalente d’essence (3). Lorsqu’il commente l’équilibre planétaire du carbone, Doug Parr, responsable scientifique en chef de Greenpeace, déclare catégoriquement : « Si l’on produisait seulement S % de biocarburants en anéantissant des forêts primaires encore existantes, on perdrait la totalité du gain sur le carbone. »
Les cultures industrielles destinées aux carburants nécessitent des épandages massifs d’engrais produits à partir du pétrole, dont la consommation mondiale — actuellement de 45 millions de tonnes par an — a fait plus que doubler le niveau d’azote biologiquement disponible sur la planète, contribuant ainsi fortement aux émissions d’oxyde nitreux, un gaz à effet de serre dont le potentiel de réchauffement global est trois cents fois plus élevé que celui du CO2 [dioxyde de carbone]. Dans les régions tropicales — d’où la plus grande part des agro-carburants seront bientôt issus —, les engrais chimiques ont dix à cent fois plus d’effet sur le réchauffement planétaire que dans les régions tempérées (4).

Obtenir un litre d’éthanol requiert trois à cinq litres d’eau d’irrigation et produit jusqu’à treize litres d’eau usée. II faut l’équivalent énergétique de cent treize litres de gaz naturel pour traiter ces eaux usées, ce qui augmente la probabilité qu’elles soient tout simplement relâchées dans l’environnement en polluant les rivières, les fleuves et les nappes phréatiques (5). L’intensification des cultures énergétiques pour les carburants a aussi pour conséquences d’aggraver le rythme de l’érosion des sols, en particulier dans le cas de la production du soja — 6,5 tonnes par hectare et par an aux Etats Unis ; jusqu’à 12 tonnes au Brésil et en Argentine.

2. Les agro-carburants n’entraînent pas de déforestation
Les promoteurs des agro-carburants soutiennent que les cultures effectuées sur des terres écologiquement dégradées amélioreront l’environnement. Peut-être le gouvernement brésilien avait-il cela en tête quand il a requalifié quelque 200 millions d’hectares de forêts tropicales sèches, prairies et marais, en « terres dégradées » et aptes à la culture (6). En réalité, il s’agissait d’écosystèmes d’une grande biodiversité dans les régions du Mata Atlántica, du Cerrado et du Pantanal, occupées par des populations indigènes, des paysans pauvres et de grandes exploitations d’élevage extensif de bovins.
L’introduction de cultures destinées aux agro-carburants aura tout simplement pour résultat de repousser ces communautés vers la «frontière agricole » de l’Amazonie, là où les modes dévastateurs de défrichement sont trop bien connus. Le soja fournit déjà 40 % des agro-carburants du Brésil. Selon la National Aeronautics and Space Administration (NASA), plus les prix du soja grimpent, plus s’accélère la destruction de la forêt humide de l’Amazonie — 325 000 hectares par an, au rythme actuel.

En Indonésie, les plantations de palmiers à huile destinés à la production de biodiesel – appelé « diesel de la déforestation » – sont la principale cause du recul de la forêt. Vers 2020, ces surfaces y auront triplé, pour atteindre 16,5 millions d’hectares – l’Angleterre et le Pays de Galle réunis –, avec comme résultat une perte de 98 % du couvert forestier (7). La Malaisie voisine, premier producteur mondial d’huile de palme, a déjà perdu 87 % de ses forêts tropicales et continue à les défricher à un rythme de 7 % par an.

3. Les agro-carburants permettront le développement rural
Sous les tropiques, 100 hectares dédiés à l’agriculture familiale créent trente-cinq emplois ; les palmiers à huile et la canne à sucre dix, les eucalyptus deux, le soja à peine un demi. Jusqu’à récemment, les agro-carburants desservaient principalement des marchés locaux et sous-régionaux. Même aux Etats-Unis, la plupart des usines’ de production d’éthanol, de taille relativement modeste, appartenaient aux agriculteurs. Avec le boom actuel, la grande industrie entre dans le jeu, créant des économies d’échelles gigantesques et centralisant l’exploitation.

Les groupes pétroliers, céréaliers, et les producteurs de cultures transgéniques renforcent leur présence sur toute la chaîne de valeur ajoutée des agro-carburants. Cargill etADM contrôlent 65 % du marché mondial des céréales ; Monsanto et Sygenta dominent le marché des produits génétiquement modifiés. Pour leurs semences, leurs intrants, les services, les transformations et la vente de leurs produits, les paysans cultivant pour les agro-carburants seront de plus en plus dépendants d’une alliance de sociétés fortement organisées. Il est peu probable qu’ils en tirent des bénéfices (8). Plus vraisemblablement, les petits exploitants agricoles seront expulsés du marché et de leurs terres. Des centaines de milliers ont déjà été déplacés dans la « république du soja », une région de plus de 50 millions d’hectares couvrant le sud du Brésil, le nord de l’Argentine, le Paraguay et l’est de la Bolivie (9).

4. Les agro-carburants ne causeront pas la faim
Selon la Food and Agricultural Organization (FAO), il y a assez de nourriture dans le monde pour alimenter tous les habitants avec une ration journalière de 2 200 calories sous forme de fruits frais et secs, de légumes, de produits laitiers et de viande. Pourtant, parce qu’elles sont pauvres, 824 millions de personnes continuent à souffrir de la faim. Or, la transition qui s’annonce met en concurrence la production alimentaire et celle de carburants dans l’accès à la terre, à l’eau et aux ressources. Un exemple concret en est actuellement donné au Mexique. Ses barrières douanières ayant été démantelées dans le cadre de l’Accord de libre-échange nord-américain (Alena) (IO), le Mexique importe désormais 30 % de son maïs des Etats-Unis (I 1). La croissante demande d’éthanol dans ce pays a provoqué une énorme pression sur le prix de cette céréale, qui est monté, en février 2007, à son plus haut niveau en dix ans, provoquant une augmentation dramatique du prix de la tortilla — plat de base de la population mexicaine. Confronté aux manifestations de mécontentement d’une population pauvre frappée à l’estomac, le gouvernement de M. Felipe Calderón, au terme d’une réunion avec les transnationales de l’industrialisation et de la distribution, a dû limiter l’augmentation du prix de la tortilla à 40 % jusqu’en août prochain.
Profitant de la conjoncture, le Centre d’études économiques du secteur privé (CEESP) a publié une série d’« études » affirmant que la sortie de crise, pour le Mexique, passe par la production de maïs pour agro-combustibles et que celui-ci «doit être transgénique (12) ».
A l’échelle de la planète, les personnes les plus pauvres dépensent déjà 50 à 80 % de leur revenu familial pour leur alimentation. Elles souffrent quand les prix élevés des cultures pour carburants font monter le prix des aliments. L’International Food Policy Research Institute (lfpri, Institut international de recherche sur les politiques de l’alimentation) de Washington a estimé que le prix des aliments de base s’accroîtra de 20 % à 33 % en 2010 et de 26 % à 135 % en 2020. Or, chaque fois que le coût de la nourriture augmente de I %, 16 millions de personnes tombent dans l’insécurité alimentaire. Si la tendance actuelle continue, 1,2 milliard d’habitants pourraient souffrir chroniquement de la faim en 2025 (13). Dans ce cas, l’aide alimentaire internationale ne sera probablement pas d’un grand secours, nos surplus agricoles allant... dans nos réservoirs d’essence.
5. Les agro-carburants de «deuxième génération» sont à portée de main
Les promoteurs des agro-carburants aiment à rassurer les sceptiques en affirmant que ces derniers, actuellement produits à partir de cultures vivrières, seront bientôt remplacés par d’autres plus compatibles avec l’environnement, comme des arbres à pousse rapide et le Panicum virgatum (graminée dont la touffe de feuillage atteint 1,80 mètre de haut). Cela leur permet de rendre plus acceptables les agro-carburants de première génération.

Savoir quelles cultures seront transformées en carburant n’est pas pertinent. Les plantes sauvages n’auront pas une moindre «empreinte environnementale » car leur commercialisation transformera leur écologie. Cultivées de façon intensive, elles migreront rapidement des haies et des terrains boisés vers les terres arables – avec les conséquences environnementales associées.
L’industrie vise à produire des plantes cellulosiques, génétiquement modifiées – en particulier des arbres à croissance rapide —, qui se décomposeraient facilement pour libérer des sucres. Compte tenu de l’aptitude à la dissémination déjà démontrée des culture génétiquement modifiées, on peut s’attendre à des contaminations massives.
Toute technologie dont le potentiel permet d’éviter les pires impacts du changement climatique doit être commercialisée à grande échelle dans les cinq à huit ans qui viennent. Perspective très peu probable dans le cas de l’éthanol issu de la cellulose, produit qui, jusqu’à présent, n’a démontré aucune réduction d’émission de carbone (14). L’industrie des agro-carburants est en train de parier sur des miracles.

L’Agence internationale de l’énergie estime que, dans les vingt-trois ans à venir, le monde pourrait fabriquer jusqu’à 147 millions de tonnes d’agro-carburants (15). Un tel volume produira beaucoup de carbone, d’oxyde nitreux, d’érosion, et plus de 2 milliards de tonnes d’eaux usées. Aussi étonnant que cela puisse paraître, il ne compensera que l’accroissement annuel de la demande mondiale de pétrole, actuellement évaluée à 136 millions de tonnes par an. Le jeu en vaut-il la chandelle ?

Pour les grandes sociétés céréalières, certainement. Qu’elles s’appellent ADM, Cargill ou Bunge, elles sont les piliers de l’agroalimentaire. Elles sont entourées d’une cohorte tout aussi puissante de transformateurs de matières premières et de distributeurs, eux-mêmes associés à des chaînes de supermarchés d’un côté et, de l’autre, aux sociétés de l’agrochimie, des semences et du machinisme agricole. Sur 5 dollars consommés pour la nourriture, 4 dollars correspondent à l’activité de l’ensemble de ces sociétés. Or, depuis un certain temps, la partie production a souffert d’une « involution » : des quantités croissantes d’investissements (intrants chimiques, ingénierie génétique et machinisme) n’ayant pas augmenté les taux de productivité de l’agriculture, le complexe agroalimentaire doit dépenser plus pour récolter moins.

Les agro-carburants sont la réponse parfaite à cette involution. Subventionnés et en phase de croissance alors que le pétrole recule, ils facilitent la concentration entre les mains des acteurs les plus puissants des industries de l’alimentation et de l’énergie.

Malheureusement, la transition vers les agro-carburants souffre d’une tare congénitale. Ceux-ci entrent en compétition avec la nourriture pour les terres, pour l’eau et pour les ressources. Développés à leur extrême, ils seront utilisés pour produire... des agro-carburants. Une proposition pathétique au point de vue thermodynamique. Ils nous obligent à vivre au-dessus de nos moyens. « Renouvelable » ne veut en effet pas dire « sans limites ». Même si les cultures peuvent être replantées, la terre, l’eau et les nutriments demeurent limités.

En fait, l’attractivité de ces biocombustibles réside dans le fait qu’ils pourraient prolonger l’économie fondée sur le pétrole. Avec une estimation de quelque 1 000 milliards de barils de réserves mondiales restantes de pétrole conventionnel, un baril de pétrole à 100 dollars n’est pas loin (16). Et plus le prix du pétrole sera élevé, plus le prix de revient de l’éthanol pourra s’accroître tout en restant compétitif. C’est d’ailleurs là que réside la contradiction pour les agro-carburants de deuxième génération : au fur et à mesure que le coût des hydrocarbures augmente, les agro-carburants de première génération deviennent plus rentables, décourageant ainsi d’investir dans le développement de ceux qui pourraient leur succéder. Si le pétrole atteint 80 dollars par baril, les producteurs d’éthanol peuvent se permettre de payer au-delà de 5 dollars le boisseau (environ 127 kg) de mais, le rendant ainsi compétitif y compris vis-à-vis de la canne à sucre. La crise énergétique mondiale est potentiellement un pactole de 80 000 milliards à 100 000 milliards de dollars pour les groupes alimentaires et pétroliers. Pas étonnant que nous ne soyons pas incités à déroger à nos habitudes de «surconsommation ».
La transition vers les agro-carburants n’a rien d’inévitable. Nombre de solutions de remplacement locales menées avec succès sur le terrain, tout en étant efficaces au niveau énergétique et en restant centrées sur les besoins des habitants, sont déjà opérationnelles pour produire de la nourriture et de l’énergie sans menacer l’environnement, ou les moyens d’existence.
Aux Etats-Unis, des dizaines de petites coopératives locales produisent du biodiesel – souvent à partir d’huile végétale recyclée. La majorité des coopératives d’éthanol du Middle West sont — pour le moment — entre les mains des agriculteurs locaux. De même, ceux-ci possèdent près des trois quarts des raffineries d’éthanol du Minnesota, et d’importantes subventions leur ont été attribuées.
II serait inacceptable pour les pays du Nord de déplacer le fardeau de leur surconsommation vers le sud de la planète tout simplement parce que les pays intertropicaux bénéficient de plus de soleil, de pluie et de terres arables.
ERIC HOLTZ-GIMÉNEZ.

(1) 1 gallon américain équivaut á 3,785 litres.
(2) George Monbiot. «If we want to save the planet, we need a five-year freeze on biofuels », The Guardian, Londres, 27 mars 2007.
(3) The Washington Post, 25 mars 2007.
(4) Miguel Altieri et Elizabeth Bravo, « The ecological and social tragedy of biofuels », 1" janvier 2007, www.foodfirst.org
(5) The Ecologist, Londres, mai 2007.
(6) « Plano Nacional de Agroenergia 2006-2011 », dans Camila Moreno, « Agroenergia X soberania alimentar : A questào agrária do século XXI », Brésil, 2006.
(7) The Ecologist, ibid.
(8) Annie Dufey, « International trade in biofuels : Good for development .’
And good for environment"», International Institute for Environment and Development, Londres, 2006.
(9) Elizabeth Bravo, «Biocombustibles, cutlivos energéticos y soberanía alimentaria en América Latina : Encendiendo el debate sobre biocomustibles », Acción Ecólogica, Quito (Equateur), 2006.
(IO) UAlena regroupe le Canada, les Etats-Unis et le Mexique.
(1l) Depuis l’entrée en vigueur de l’Alena, l’agriculture mexicaine, qui employait un cinquième de la population, a perdu 1,3 million d’emplois.
(12) Silvia Ribeiro, ALAI-Amlatina, Quito, 17 mai 2007, http://alainet.org
(13) C. Ford Runge et Benjamin Senauer, « How biofuels could starve the poor », Foreign.4ffairs, Londres, mai-juin 2007.
(141 En faire un produit vert et viable n’est pas simplement un problème d’extrapolation de technologies existantes, mais de percées fondamentales dans la physiologie des plantes qui permettraient d’aboutir de manière économique et efficace à décomposer la cellulose, l’hémicellulose et la lignine.
(15) www.iea.org/Textbase/subjectqueries/index.asp
(16) Caroline Lucas (sous la dir. del. « Fuelling a food crisis : The impact of peak oil on food security », Groupe des Verts - Alliance libre européenne, Parlement européen, décembre 2006.


DES LIVRES
Biofuels for Transportation : Global Potential and Implications for Sustainable Agriculture and Energy in the 21st Century. — Worldwatch Institute,
Earthscan, Londres, 2007.
Une évaluation des risques liés à l’utilisation massive d’agrocarburants, avec des études de cas sur la Chine, le Brésil,
l’Allemagne, l’Inde et la Tanzanie.

Les Biocarburants. Etat des lieux, perspectives et enjeux du
développement.
— Daniel Ballerini
et Nathalie Alazard-Toux (sous la dir. de), Technip, Paris, 2006.
Cet ouvrage publié sous l’égide de l’Institut français du pétrole (IFP) analyse les enjeux des biocarburants dans le contexte énergétique mondial et passe en revue les différentes filières de production, les technologies mises en oeuvre, les aspects économiques, etc.

L’Optimisation du dispositif
de soutien à la filière biocarburants
.
— La Documentation_ française, Paris, 2005. Selon ce rapport, remis au premier ministre en 2005, il sera difficile, en 2007, « d’atteindre les objectifs [de réduction d’émissions de CO2] sans recourir à des importations de biocarburants ».

... ET DES SITES
Biofuelwatch
Cette coalition de groupes écologistes réclame l’abandon des objectifs fixés par l’Union européenne (10 % d’automobiles fonctionnant aux biocarburants d’ici à 2020), au risque de « déclencher de la déforestation et des pertes de biodiversité et [d’]exacerber les conflits locaux liés à l’usage du sol ». www.biofuelwatch.org.uk

Biocarburants : une catastrophe écologique et sociale programmée ! Dossier d’information réalisé par la branche française des Amis de la Terre
(Friends of the Earth International). http://www.amisdelaterre.org/Biocarburants-une-catastrophe.html
Agence européenne
de l’environnement (AEE)
L’AEE a dressé la liste des précautions indispensables pour concilier cultures énergétiques et protection de l’environnement. www.eea.europa.eu/themes/energy/listfeed?feed=reports_energy



Sabato, 04 agosto 2007