Assoluto e Relativo una storia infinita

di Umberto Eco (“laRepubblica”, 10 e 11 luglio 2007)

Una lezione seria sui concetti di Assoluto e Relativo dovrebbe durare almeno duemilacinquecento anni, tanto quanto il dibattito reale. Ai «Conflitti dell’Assoluto» è stata intitolata la Milanesiana di quest’anno, e mi sono naturalmente chiesto che cosa s’intendesse con questo termine. E’ la domanda più elementare che un filosofo deve porre.

Inoltre la nozione di Assoluto mi ha richiamato alla mente uno dei suoi opposti, e cioè la nozione di Relativo, diventata abbastanza di moda da quando ecclesiastici dei massimi livelli e persino pensatori laici hanno iniziato una campagna contro il cosiddetto relativismo, diventato termine denigratorio usato a fini quasi terroristici, così come la parola «comunismo» per Berlusconi. Pertanto, mi limiterò non a chiarirvi ma a confondervi le idee, cercando di suggerirvi come ciascuno di questi termini significhi - secondo le circostanze e i contesti - cose molto diverse tra loro, e come pertanto essi non vadano usati come mazze da baseball.

Secondo i dizionari di filosofia Assoluto sarebbe tutto ciò che è ab solutus, sciolto da legami o limiti, qualcosa che non dipende da altro, che ha la propria ragione, causa e spiegazione in se stesso. Qualcosa dunque di molto simile a Dio, nel senso in cui Egli si definiva «io sono colui che è», ego sum qui sum, rispetto al quale tutto il resto è contingente, e cioè non ha la propria causa in se stesso e - anche se per accidente esiste - potrebbe benissimo non esistere, o non esistere più domani, come accade al sistema solare o a ciascuno di noi.

Essendo esseri contingenti, e pertanto destinati a morire, noi abbiamo un disperato bisogno di pensare che ci si possa ancorare a qualcosa che non perisce, e cioè di Assoluto. Questo Assoluto, però, può essere trascendente, come la divinità biblica, o immanente. Per non parlare di Spinoza o Bruno, coi filosofi idealisti anche noi entriamo a far parte dell’Assoluto perché l’Assoluto sarebbe (per esempio in Schelling) l’unità indissolubile del soggetto che conosce e di ciò che una volta era considerato estraneo al soggetto, come la natura, o il mondo. Nell’Assoluto ci identifichiamo con Dio, siamo parte di qualcosa che non si è ancora pienamente compiuto, processo, sviluppo, crescita infinita e infinita autodefinizione. Ma se così stanno le cose noi non potremo mai né definire né conoscere l’Assoluto perché ne facciamo parte, e tentare di concepirlo sarebbe fare come il barone di Münchausen che usciva dalla palude tirandosi per i capelli.

L’alternativa è allora pensare all’Assoluto come qualcosa che noi non siamo e che sta altrove, non dipendendo da noi, come il Dio di Aristotele che pensa se stesso pensante e che, come voleva Joyce nel Dedalus, «rimane dentro e dietro o al di là o al di sopra dell’opera sua, in visibile, sottilizzato fino a sparire, indifferente, occupato a curarsi le unghie)). Infatti nel XV secolo Niccolò Cusano in De docta ignorantia già diceva: Deus est absolutus. Ma per Cusano, in quanto Assoluto, Dio non è mai pienamente attingibile. Il rapporto tra la nostra conoscenza e Dio è lo stesso che si instaura tra un poligono inscritto e la circonferenza nella quale è inscritto: a mano a mano che si moltiplicano i lati del poligono, ci si avvicina sempre di più alla circonferenza, ma il poligono e la circonferenza non saranno mai uguali. Diceva Cusano che Dio è come un cerchio il cui centro è dappertutto e la circonferenza non è da nessuna parte.

Si può pensare un cerchio con il centro ovunque e la circonferenza da nessuna parte? Evidentemente no. Eppure possiamo nominarlo, ed è quello che sto facendo in questo momento, e ciascuno di voi capisce che sto parlando di qualcosa che ha a che fare con la geometria, salvo che è geometricamente impossibile e inconcepibile. Dunque c’è una differenza tra poter concepire o meno qualcosa e poterlo tuttavia nominare attribuendogli un qualche significato. Che cosa vuole dire usare una parola e attribuirle un significato? Vuole dire molte cose: (1) possedere istruzioni per riconoscere l’eventuale oggetto o situazione o evento. Per esempio fanno parte del significato delle parole cane o inciampare una serie di descrizioni, anche sotto forma di immagini, per riconoscere un cane e distinguerlo da un gatto, e distinguere l’inciampare dal saltare; (2) disporre di una definizione e/o classificazione, e ho definizione e classificazione del cane ma anche di eventi o situazioni come omicidio colposo, che per definizione so distinguere da omicidio preterintenzionale; (3) conoscere di una data entità altre proprietà, dette fattuali o enciclopediche, così che per esempio del cane so che è fedele, che è buono per la caccia o per la guardia, dell’omicidio colposo che secondo il codice può condurre a una determinata condanna eccetera; (4) infine possibilmente possedere istruzioni su come produrre l’oggetto o evento corrispondente. Conosco il significato del termine vaso perché so come si dovrebbe produrre un vaso  e così accade anche per il termine decapitazione o acido solforico. Invece per un termine come cervello conosco i significati A e B, alcune delle proprietà C, ma non so come potrei produrlo.

(...) Molte espressioni hanno significati brumosi e imprecisi - e per gradi di chiarezza decrescente. Per esempio anche l’espressione il più alto numero pari ha un significato, tanto è vero che sappiamo distinguerlo per definizione dal più alto numero dispari (per esempio, a differenza di quest’ultimo, ha la proprietà di essere divisibile per due) e possediamo persino una vaga istruzione per la sua produzione, nel senso che possiamo immaginare di contare numeri sempre più alti, separando i dispari dai pari... Salvo che avvertiamo che non ci arriveremo mai, come se in un sogno avvertissimo di poter afferrare qualcosa senza però riuscirci.

Un’espressione come cerchio con il centro ovunque e la circonferenza da nessuna parte non suggerisce invece alcuna regola per produrre un oggetto corrispondente, non solo non sopporta alcuna definizione ma frustra ogni nostro sforzo di immaginarlo, salvo provocarci un senso di vertigine. Un’espressione come Assoluto ha una definizione tutto sommato tautologica (è assoluto ciò che non è contingente ma è contingente ciò che non è assoluto) ma non suggerisce descrizioni, definizioni e classificazioni, né possiamo pensare a istruzioni per produrre qualcosa di corrispondente, non ne conosciamo alcuna proprietà, salvo supporre che le abbia tutte e sia probabilmente quel id cujus nihil majus cogitari possit di cui parlava sant’Anselmo d’Aosta (e mi viene in mente la frase attribuita a Rubinstein: «Se credo in Dio? No, io credo in qualcosa ... di molto più grande...»).

Certo, esistono immagini che producono illusioni ottiche, come gli oggetti impossibili disegnati da Escher: ma quelle immagini non rappresentano l’inconcepibile: semplicemente ci invitano a cercare di immaginare qualcosa d’ inconcepibile, e poi frustrano la nostra attesa. Quello che ci coglie nel cercare di capirle è proprio il senso di impotenza espresso da Dante dell’ultimo canto del Paradiso quando vorrebbe dirci che cosa ha visto quando ha potuto fissare lo sguardo nella divinità, ma non riesce a dirci altro se non che non riesce a dirlo, e ricorre alla metafora affascinante di un libro dalle pagine infinite: «Nel suo profondo vidi che s’interna / legato con amore in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna: / sustanze e accidenti e lor costume, / quasi conflati insieme, per tal modo / che ciò ch’i’ dico è un semplice lume».

Ed ecco perché in questa rassegna della Milanesiana si sono visti, a parlar dell’Assoluto, gli artisti. Già lo pseudo Dionigi Areopagita ricordava che, poiché l’Uno divino è talmente lontano da noi da non poter essere né compreso né attinto, si deve parlarne per metafore e allusioni, ma specialmente, per rendere evidente la pochezza del nostro discorso, attraverso simboli negativi, espressioni dissimili, attribuendogli persino «una forma ferina adattandole le caratteristiche del leone e della pantera e dicendo che sarà come un leopardo e un’orsa inferocita».

Alcuni filosofi ingenui hanno avanzato la proposta che solo i poeti sappiano dirci che cosa sia l’Essere o l’Assoluto, ma essi di fatto esprimono soltanto l’indefinito. Era la poetica di Mallarmé, che ha speso la vita per cercare di esprimere una «spiegazione orfica della terra»: «Io dico un fiore, e al di fuori dell’oblio dove la mia voce relega alcun contorno, in quanto qualcosa di diverso dai calici noti, musicalmente si leva, idea stessa e soave, l’assenza di ogni fascio e profumo». Pessima traduzione, è ovvio, perché l’ originale è imprendibile: «Nominare un oggetto è sopprimere tre quarti della potenza della poesia, che è fatta della felicità di indovinare a poco a poco: suggerire, ecco il sogno». Tutta la vita di Mallarmé si pone all’insegna di questo sogno ma al tempo stesso all’insegna dello scacco. Scacco che Dante aveva dato per accettato sin dall’inizio, comprendendo che è orgoglio luciferino pretendere di esprimere finitamente l’infinito, e aveva evitato lo scacco della poesia proprio facendo poesia dello scacco, non poesia che vuole dire l’indicibile ma poesia dell’impossibilità di dirlo.

Si rifletta sul fatto che Dante (come del resto lo pseudo Dionigi e Nicolò Cusano) erano credenti. Si può credere in un Assoluto e affermare che è impensabile e indefinibile? Certo, accettando che all’impossibile pensiero dell’Assoluto si sostituisca il sentimento dell’Assoluto e dunque la fede, come "sustanzia di cose sperate ed argumento delle non parventi". Se l’Assoluto è filosoficamente una notte in cui tutte le vacche sono nere, per il mistico che, come Giovanni della Croce, lo avverte come noche oscura («Notte che mi hai guidato, / notte più compiacente dell’aurora»), esso è fonte di emozioni ineffabili.

Juan de la Cruz esprime la sua esperienza mistica attraverso la poesia: di fronte all’indicibilità dell’Assoluto può apparirci come garanzia il fatto che questa tensione insoddisfatta possa risolversi materialmente in una forma compiuta. Il che permetteva a Keats nella sua Ode sopra un’urna greca di vedere la Bellezza come sostituto dell’esperienza dell’Assoluto: «La bellezza è verità, la verità è bellezza: questo è tutto ciò che voi sapete in terra e tutto ciò che vi occorre sapere».

E questo va bene per chi ha deciso di praticare una religione estetica. Ma san Juan ci avrebbe detto che in realtà era solo la sua esperienza mistica dell’Assoluto a garantirgli la sola verità possibile. Di qui la persuasione di molti uomini di fede che ritengono che quelle filosofie che negano la possibilità di conoscere l’Assoluto, neghino automaticamente ogni criterio di verità o, negando che ci sia un criterio assoluto di verità, neghino la possibilità di avere esperienza dell’Assoluto. Ma un conto è dire che una filosofia neghi la possibilità di conoscere l’assoluto e un conto dire che essa neghi ogni criterio di verità - anche per quello che riguarda il mondo contingente. Verità ed esperienza dell’Assoluto sono poi così inseparabili?

La fiducia che ci sia qualcosa di vero è fondamentale perla sopravvivenza degli esseri umani.

Se non pensassimo che, quando ci parlano, gli altri ci dicono o il vero o il falso, non sarebbe possibile la vita associata. Non potremmo neppure dar fiducia al fatto che, se su una scatola c’è scritto "aspirina", possiamo escludere che si tratti di stricnina.

Una teoria speculare della verità è quella per cui essa è adaequatio rei et intellectus, come se la nostra mente fosse uno specchio che, se funziona bene e non è deformante o appannato, deve riflettere fedelmente le cose come stanno. E’ la teoria sostenuta per esempio da san Tommaso ma anche dal Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo, e siccome Tommaso non poteva essere leninista ne consegue che Lenin in filosofia era un neo-tomista. Però, salvo stati estatici, noi siamo obbligati a parlare e a dire che cosa il nostro intelletto riflette. Pertanto noi definiamo vere (o false) non le cose bensì le asserzioni che facciamo su come stiano le cose. La celebre definizione di Tarski dice che l’enunciato "la neve è bianca" è vero solo se la neve è bianca. Ora lasciamo pure perdere la bianchezza della neve che, se Bush non si deciderà ad accettare il protocollo di Kyoto, diventerà assai discutibile, e consideriamo un altro esempio: l’enunciato "sta piovendo" è vero solo se fuori sta piovendo.

La prima parte della definizione (quella tra virgolette) è un enunciato verbale e non rappresenta altro che se stesso, ma la seconda parte dovrebbe esprimere come stiano di fatto le cose. Ma ciò che dovrebbe essere uno stato di cose viene di nuovo espresso in parole. Per evitare questa mediazione linguistica dovremmo dire che "sta piovendo" è vero se "quella cosa là" (e senza dir niente additassimo la pioggia che cade). Ma, se ci pare possibile attuare questo ricorso indicale all’evidenza dei sensi con la pioggia, sarebbe più difficile farlo con l’enunciato la terra gira intorno al sole (perché caso mai i sensi ci direbbero proprio il contrario).

Per stabilire se l’enunciato corrisponde a uno stato di cose bisogna aver interpretato il termine piovere e averne stipulato una definizione. Bisogna aver stabilito che per parlare di pioggia non basta avvertire gocce d’acqua che cadono dall’alto, perché potrebbe trattarsi di qualcuno che sta innaffiando fiori da un balcone, che la consistenza delle gocce deve essere di una certa portata, altrimenti parleremmo di rugiada o di brina, che la sensazione deve essere continua (altrimenti diremmo che c’è stato un accenno di pioggia subito abortito), e così via. Questo stipulato, si deve poi passare a una verifica empirica, che nel caso della pioggia è a disposizione di tutti (basta tendere la mano e prestar fiducia ai propri sensi).

Ma nel caso dell’enunciato la terra gira intorno al sole le procedure di verifica sono più complicate. Quale senso assume la parola vero per ciascuno degli enunciati che seguono? 1. Ho male alla pancia. 2. Stanotte ho sognato che mi appariva Padre Pio. 3. Domani pioverà certamente. 4. I1 mondo terminerà nel 2536. 5. C’è una vita dopo la morte.

Gli enunciati 1 e 2 esprimono una evidenza soggettiva, ma il mal di pancia è sensazione evidente e insopprimibile, mentre ricordando un sogno fatto la notte prima potrei non essere sicuro di quel che ricordo. Inoltre i due enunciati non possono essere immediatamente verificati da altri. Certo, un medico che voglia capire se ho davvero una colite o sono ipocondriaco avrebbe alcuni strumenti di verifica, ma maggiori difficoltà avrebbe uno psicanalista a cui dicessi di aver sognato Padre Pio, perché potrei benissimo mentirgli.

Le affermazioni 3, 4 e 5 non sono immediatamente verificabili. Però che domani pioverà potrà essere verificata domani mentre che il mondo finisca nel 2536 ci porrebbe qualche problema (ed ecco perché distinguiamo l’attendibilità di un colonnello dell’aeronautica da quella di un profeta). La differenza tra 4 e 5 è che il 4 diverrà vero o falso almeno nel 2536, mentre il 5 continuerà a rimanere empiricamente indecidibile per saecula saeculorum.

Continuiamo: 6. Ogni angolo retto ha necessariamente novanta gradi. 7. L’acqua bolle sempre a cento gradi. 8. La mela è un angiosperma. 9. Napoleone è morto il 15 maggio 1821. 10. Si raggiunge la costa seguendo il corso del sole. 11. Gesù è il Figlio di Dio. 12. La retta interpretazione delle Sacre Scritture è definita dal Magistero della Chiesa. 13. Gli embrioni sono già esseri umani e hanno un’anima.

Alcuni di questi enunciati sono veri o falsi in relazione a regole che ci siamo date: l’angolo retto ha 90 gradi solo nell’ambito di un sistema di postulati euclidei, che l’ acqua bolla a cento gradi è vero non solo se diamo credito a una legge fisica elaborata per generalizzazione induttiva ma anche sulla base della definizione di grado centigrado, una mela è un angiosperma solo in base ad alcune regole di classificazione botanica.

Alcuni prevedono la fiducia in verifiche fatte da altri prima di noi: crediamo sia vero che Napoleone è morto il 5 maggio 1821 perché accettiamo quanto ci dicono i libri di storia, ma dobbiamo sempre ammettere la possibilità che un documento inedito scoperto domani negli archivi dell’ammiragliato britannico testifichi che è morto in altra data. Talora per ragioni utilitaristiche adottiamo come se fosse vera una idea che sappiamo essere falsa: per esempio, per orientarci nel deserto, ci comportiamo come se fosse vero che il sole si muove da est a ovest.

Quanto alle affermazioni di carattere religioso non diremo che sono indecidibili. Se si accetta come storica la testimonianza dei Vangeli, le prove della divinità del Cristo troverebbero consenziente anche un protestante. Ma ciò non accade per quanto riguarda il magistero della chiesa. Invece l’affermazione su un’anima degli embrioni dipende solo da una stipulazione dei significati di espressioni come vita, umano e anima. San Tommaso, per esempio, riteneva che essi avessero solo un’anima sensitiva, come gli animali, e pertanto non essendo ancora esseri umani dotati di anima razionale non partecipassero alla resurrezione della carne. Oggi sarebbe imputato di eresia, ma in quella civilissima epoca lo hanno fatto santo.

Si tratta dunque di decidere come contrattare volta per volta i criteri di verità che stiamo usando. E proprio sul riconoscimento dei diversi gradi di verificabilità o accettabilità di una verità che si fonda il nostro senso della tolleranza. Posso avere il dovere scientifico e didattico di bocciare uno studente che sostenga che l’acqua bolle a novanta gradi come l’angolo retto pare sia stato detto a un esame – ma anche un cristiano dovrebbe accettare che per qualcuno non ci sia altro dio che Allah e Maometto sia il suo profeta (e chiediamo che i musulmani facciano l’inverso). Invece alla luce di alcune polemiche recenti sembra che questa distinzione tra diversi criteri di verità, tipica del pensiero moderno e in particolare di quello logico-scientifico, dia luogo a un relativismo inteso come malattia storica della cultura contemporanea, che nega ogni idea di verità. Ma che cosa intendono per relativismo gli antirelativisti?

Si è visto che un conto è parlare dell’Assoluto e un conto parlare dei vari modi di intendere la verità. E si è visto che a questo proposito sembra che questa distinzione tra diversi criteri di verità, tipica del pensiero moderno e in particolare di quello logico-scientifico, dia luogo a un relativismo inteso come malattia storica della cultura contemporanea, che nega ogni idea di verità. Ma che cosa intendono per relativismo gli antirelativisti?

Alcune enciclopedie filosofiche ci dicono che c’è un relativismo conoscitivo, per cui gli oggetti possono essere conosciuti solo sotto condizioni determinate dalle facoltà umane. Ma in questo senso sarebbe stato relativista anche Kant, il quale non negava affatto che si potessero enunciare leggi di valore universale e inoltre, sia pure su basi morali, credeva in Dio.

In un’altra enciclopedia filosofica trovo invece che per relativismo si intende "ogni concezione che non ammette principi assoluti nel campo del conoscere e dell’agire". Ma è diverso negare principi assoluti nel campo del conoscere o nel campo dell’agire. Ci sono persone disposte a sostenere che la pedofilia è male sia verità relativa solo a un determinato sistema di valori, visto che in certe culture era o è ammessa o tollerata, e tuttavia pronti a sostenere che il teorema di Pitagora deve essere valido in ogni tempo e per ogni cultura.

Nessuna persona seria porrebbe sotto l’etichetta del relativismo la teoria einsteniana della relatività. Dire che una misurazione dipende dalle condizioni di moto dell’osservatore, si presenta come principio valido per ogni essere umano in ogni tempo e luogo.

Il relativismo come dottrina filosofica di tal nome nasce col positivismo ottocentesco, dove si sostiene l’inconoscibilità dell’Assoluto, al massimo inteso come limite mobile di una ricerca scientifica continua. Ma nessun positivista ha mai sostenuto che non siano raggiungibili verità scientifiche oggettivamente testabili e valide per tutti.

Una posizione filosofica che, a una lettura frettolosa dei manuali, potrebbe essere definita come relativistica è il cosiddetto olismo, secondo il quale ogni enunciato è vero o falso (e acquista un significato) solo all’interno di un sistema organico di assunzioni, un dato schema concettuale o, come altri hanno detto, all’interno di un dato paradigma scientifico. Un olista sostiene (giustamente) che la nozione di spazio ha un senso diverso nel sistema aristotelico e in quello newtoniano, così che i due sistemi sono incommensurabili, e che un sistema scientifico vale l’altro nella misura in cui riesce a rendere ragione di un insieme di fenomeni. Ma gli olisti sono i primi a dirci che ci sono sistemi che non riescono affatto a rendere ragione di un insieme di fenomeni, e che alcuni alla lunga prevalgono perché ci riescono meglio degli altri. Quindi anche l’olista, nella sua apparente tolleranza, si confronta con qualcosa di cui bisogna rendere ragione e, anche quando non lo dice, si attiene a quello che definirei un realismo minimo, per il quale ci deve essere un modo in cui le cose stanno o vanno. Forse non potremo conoscerlo mai ma, se non crediamo che ci sia, la nostra ricerca non avrebbe senso e non avrebbe senso tentare sempre nuovi sistemi di spiegazione del mondo.

L’olista si dice di solito pragmatista, ma anche qui non bisogna leggere frettolosamente i manuali di filosofia: il vero pragmatista, come lo era Peirce, non diceva che le idee sono vere solo se dimostrano di essere efficaci, ma che esse mostrano la loro efficacia quando sono vere. E quando sosteneva il fallibilismo, e cioè la possibilità che tutte le nostre conoscenze possano sempre essere revocate in dubbio, al tempo stesso affermava che attraverso la continua correzione delle sue conoscenze la comunità umana porta avanti "la torcia della verità".

Quello che induce a sospettare di relativismo queste teorie è il fatto che i diversi sistemi siano mutuamente incommensurabili. Certamente il sistema tolemaico è incommensurabile rispetto a quello copernicano, e solo nel primo assumono un senso preciso le nozioni di epiciclo e deferente. Ma che i due sistemi siano incommensurabili non significa che non siano comparabili, ed è proprio confrontandoli che noi comprendiamo quali siano i fenomeni celesti che Tolomeo spiegava con le nozioni di epiciclo e deferente, e comprendiamo che erano gli stessi fenomeni di cui i copernicani volevano rendere ragione secondo un diverso schema concettuale.

L’olismo dei filosofi è simile all’olismo linguistico, per cui una data lingua, attraverso la sua struttura semantica e sintattica, imporrebbe una determinata visione del mondo, di cui il parlante è per così dire prigioniero. Ricordava Benjamin Lee Whorf che per esempio nelle lingue occidentali si tende ad analizzare molti eventi come oggetti, e un’espressione come tre giorni è grammaticalmente equivalente a tre mele, mentre alcune lingue dei nativi americani sono invece orientate al processo e vedono eventi là dove noi vediamo cose — così che la lingua Hopi sarebbe più attrezzata dell’inglese per definire certi fenomeni studiati dalla fisica moderna. E Whorf ricordava anche che gli eschimesi avrebbero in luogo della parola neve quattro termini diversi a seconda della consistenza della neve stessa e pertanto essi vedrebbero più cose diverse dove noi ne vediamo solo una. A parte che questa notizia è stata contestata, anche uno sciatore occidentale sa distinguere tra diversi tipi di neve di diversa consistenza, e basta che un eschimese venga in contatto con noi perché capisca benissimo che quando noi diciamo neve per le presunte quattro cose che lui chiama in modi diversi, ci comportiamo come un francese che chiama glace il ghiaccio, il ghiacciolo, il gelato, lo specchio, il cristallo di una vetrina, e tuttavia alla mattina non è così prigioniero della propria lingua da farsi la barba guardandosi in un gelato.

Infine, a parte il fatto che non tutto il pensiero contemporaneo accetta la prospettiva olistica, essa si pone nel solco di tutte quelle teorie della prospetticità della conoscenza, che sostengono che della realtà si possono dare prospettive diverse e ogni prospettiva ne adegua un aspetto anche se non ne esaurisce l’insondabile ricchezza - come in questa scultura che può essere vista da punti di vista diversi. Non vi è nulla di relativistico nel sostenere che la realtà è sempre definita da un punto di vista particolare (il che non significa soggettivo e individuale), né asserire che la vediamo sempre e soltanto sotto una certa descrizione ci esime dal credere e sperare che quello che ci rappresentiamo sia sempre la stessa cosa.

Le enciclopedie registrano, accanto al relativismo conoscitivo, il relativismo culturale. Che diverse culture abbiano non solo lingue o mitologie diverse ma diverse concezioni morali (tutte ragionevoli nel loro ambito) hanno cominciato a capirlo prima Montaigne e poi Locke, quando l’Europa è venuta più criticamente in contatto con altre culture. Che un primitivo della Nuova Guinea consideri ancora oggi legittimo e raccomandabile il cannibalismo e un inglese no, mi pare osservazione inoppugnabile, come è inoppugnabile che in certi paesi si riservi alle adultere un tipo di riprovazione diverso dal nostro. Ma il riconoscimento della varietà delle culture in primo luogo non nega che vi siano certi comportamenti più universali (per esempio l’amore di una madre per i propri piccoli, o il fatto che di solito si usino le stesse espressioni facciali per esprimere disgusto o ilarità), e in secondo luogo non implica automaticamente il relativismo morale, per cui non esistendo valori etici uguali per tutte le culture possiamo liberamente adattare il nostro comportamento ai nostri desideri o interessi. Riconoscere che una cultura altra sia diversa, e debba essere rispettata nella sua diversità, non significa abdicare alla nostra identità culturale.

Come si è arrivati allora a costruire il fantasma del relativismo come ideologia omogenea, cancro della civiltà contemporanea?

C’è una critica laica al relativismo, che si appunta in massima parte contro gli eccessi del relativismo culturale. Marcello Pera, che presenta le sue tesi in libro a due mani con Ratzinger (Senza radici), sa bene che vi sono differenze tra le culture ma sostiene che ci sono alcuni valori della cultura occidentale (come la democrazia, la separazione tra stato e religione, il liberalismo) che si sono dimostrati superiori ai valori di altre culture. Ora la cultura occidentale ha buone ragioni per ritenersi più evoluta di altre su questi argomenti ma, nel sostenere che questa superiorità dovrebbe essere universalmente evidente, Pera usa un argomento contestabile. Egli dice: "se membri della cultura B mostrano liberamente di preferire la cultura A e non viceversa - se per esempio i flussi migratori vanno dall’islam all’Occidente e non viceversa - allora c’è ragione di credere che A sia migliore di B. L’argomento è debole perché gli irlandesi nell’Ottocento non sono emigrati in massa negli Stati Uniti perché preferissero quel paese protestante alla loro amata Irlanda cattolica, ma perché a casa loro morivano di fame a causa della peronospera delle patate. Il rifiuto del relativismo culturale da parte di Pera è dettato dalla preoccupazione che la tolleranza per le altre culture degeneri in arrendevolezza e l’Occidente ceda sotto la pressione dei flussi migratori alla prepotenza di culture estranee. Il problema di Pera non è la difesa dell’Assoluto ma la difesa dell’Occidente.

Nel suo Contro il relativismo Giovanni Jervis si costruisce un relativista di comodo, strano connubio tra un tardo romantico, un pensatore post-moderno di origine nicciana, e un seguace del New Age, per cui il relativismo sarebbe una forma di irrazionalismo che si oppone alla scienza. Jervis denuncia una natura reazionaria del relativismo culturale: se si sostiene che ogni forma di società va rispettata e giustificata, se non idealizzata, si incoraggia la ghettizzazione dei popoli. Non solo, ma quegli antropologi culturali che, anziché cercare di individuare caratteristiche biologiche e comportamenti costanti tra i popoli, ne hanno sottolineato la diversità dovuta soltanto alla cultura - nel dare troppa importanza alla cultura e nel trascurare i fattori biologici - hanno indirettamente sostenuto ancora una volta il primato dello spirito sulla materia, e dunque sono stati solidali con le istanze di un pensiero religioso.

Questa affermazione dovrebbe lasciare fortemente perplessi quei credenti il cui duplice timore è (1) che il relativismo culturale porti necessariamente al relativismo morale  come se riconoscere ai Papua il diritto di infilarsi un chiodo nel naso significasse necessariamente che un sacerdote di Boston ha diritto di abusare di un seminarista; e (2) che il sostenere che vi sono diversi modi di verificare la verità di una proposizione metta in questione la possibilità di riconoscere una verità assoluta. Evidentemente non è vero, e c’è chi crede che l’Immacolata Concezione sia veramente apparsa a Lourdes, ma al tempo stesso ritiene che il cormorano della Nuova Zelanda sia un Phalacrocorax carbo per convenzione classificatoria.

Sul relativismo culturale l’allora cardinal Ratzinger in alcune note dottrinali della Congregazione della Fede, poneva una stretta relazione tra relativismo culturale e relativismo etico: «(il) relativismo culturale (...) offre evidenti segni di sé nella teorizzazione e difesa del pluralismo etico che sancisce la decadenza e la dissoluzione della ragione e dei principi della legge morale naturale. A seguito di questa tendenza non è inusuale, purtroppo, riscontrare in dichiarazioni pubbliche affermazioni in cui si sostiene che tale pluralismo etico è la condizione per la democrazia».

Giovanni Paolo II, nell’enciclica Fides et ratio affermava che "la filosofia moderna, dimenticando di orientare la sua indagine sull’essere, ha concentrato la propria ricerca sulla conoscenza umana. Invece di far leva sulla capacità che l’uomo ha di conoscere la verità, ha preferito sottolinearne i limiti e i condizionamenti. Ne sono derivate varie forme di agnosticismo e di relativismo, che hanno portato la ricerca filosofica a smarrirsi nelle sabbie mobili di un generale scetticismo". E Ratzinger, in una omelia del 2003: "Si va costituendo una dittatura del relativismo, che non riconosce nulla come definitivo o che lascia come unica misura solo il proprio io e le sue voglie. Noi abbiamo invece un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo".

Qui si oppongono due nozioni di verità, una come proprietà semantica degli enunciati e l’altro come proprietà della divinità. Questo è dovuto al fatto che già nelle sacre scritture (almeno secondo le traduzioni attraverso cui le conosciamo) appaiono entrambe le nozioni di verità. Talora si usa verità come corrispondenza tra qualcosa che si dice e il modo in cui stanno le cose ("in verità in verità vi dico", nel senso di "dico davvero"), e talora invece la verità è proprietà intrinseca alla divinità ("lo sono la via, la verità e la vita"). Questo ha portato molti padri della chiesa a posizioni che oggi Ratzinger definirebbe relativistiche, poiché essi dicevano che non era importante preoccuparsi se una data affermazione sul mondo corrispondesse al modo in cui le cose stavano, purché si ponesse attenzione all’unica verità degna di questo nome, il messaggio della salvezza. Sant’Agostino, di fronte alla disputa se la terra fosse sferica o piatta, sembrava propendere per la sfericità, ma ricordava che il saperlo non serviva a salvare l’anima, e pertanto giudicava che in pratica una teoria valesse l’altra.

Invece è difficile trovare nei molti scritti del cardinal Ratzinger una definizione di verità che non sia quella di verità rivelata e incarnata nel Cristo. Ma, se la verità della fede è verità rivelata, perché opporla alla verità dei filosofi e degli scienziati, che è concetto con altri fini e natura? Basterebbe attenersi a San Tommaso il quale, nel De aeternitate mundi, sapendo benissimo che sostenere la tesi averroistica dell’eternità del mondo era terribile eresia, accettava per fede che il mondo fosse creato, ma dal punto di vista cosmologico ammetteva che non si potesse dimostrare razionalmente né che fosse creato né che fosse eterno.

Invece per Ratzinger, nell’intervento in un volume sul Monoteismo del 2002, l’essenza di tutto il pensiero filosofico e scientifico moderno è che «la verità in quanto tale - così si pensa - non

può essere conosciuta, ma si può avanzare a poco a poco solo con i piccoli passi della verificazione e della falsificazione. Si rafforza la tendenza a sostituire il concetto di verità con quello di consenso. Ma ciò significa che l’uomo. si separa dalla verità e così anche dalla distinzione tra il bene e il male, sottomettendosi completamente al principio della maggioranza... L’uomo progetta e "monta" il mondo senza criteri prestabiliti e così supera necessariamente anche il concetto di dignità umana, sicché anche i diritti umani diventano problematici. In una siffatta concezione della ragione e della razionalità non rimane spazio alcuno per il concetto di Dio».

Questa estrapolazione per cui, da un prudente concetto di verità scientifica come oggetto di verifica e correzione continua, si passa a una denuncia della distruzione di ogni umana dignità, non è sostenibile, a meno che non si identifichi, come vedremo, tutto il pensiero moderno con l’affermazione per cui non vi sono fatti bensì solo interpretazioni, da qui si passi all’affermazione che non vi è fondamento dell’essere, quindi che Dio è morto, e infine che, se Dio non c’è, allora tutto è possibile.

Ora né Ratzinger né gli antirelativisti in genere sono dei visionari o dei complottardi. Semplicemente gli antirelativisti che definirò moderati o critici identificano il loro nemico solo con quella specifica forma di relativismo estremo per cui non esistono fatti ma solo interpretazioni, mentre gli antirelativisti che dirò radicali estendono la pretesa che non esistano fatti ma solo interpretazioni a tutto il pensiero moderno, compiendo un errore che  almeno nell’università dei tempi miei  non avrebbe permesso di passare un esame di storia della filosofia.

L’idea che non ci siano fatti ma solo interpretazioni nasce con Nietzsche e la si trova spiegata con molta chiarezza in Su verità e menzogna in senso extra-morale (1873). Poiché la natura ha gettato via la chiave, l’intelletto gioca su finzioni concettuali che chiama verità. Noi crediamo di parlare di alberi, colori, neve e fiori, ma sono metafore che non corrispondono alle essenze originarie. A fronte della molteplicità delle foglie individue non esiste una "foglia" primordiale "sul modello della quale sarebbero tessute, disegnate, circoscritte, colorate, increspate, dipinte  ma da mani maldestre - tutte le foglie". L’uccello o l’insetto percepiscono il mondo in un modo diverso dal nostro, e non ha senso dire quale delle percezioni sia la più giusta, perché occorrerebbe quel criterio di "percezione esatta" che non esiste. La natura "non conosce nessuna forma e nessun concetto, e quindi neppure alcun genere, ma soltanto una x, per noi inattingibile e indefinibile". La verità diventa allora"un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi", di invenzioni poetiche che poi si sono irrigidite in sapere, "illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria".

Nietzsche evita però di prendere in considerazione due fenomeni. Uno è che, adeguandoci alle costrizioni di questo nostro discutibile sapere, si riesce in qualche modo a fare i conti con la natura: se qualcuno è stato morso da un cane, il medico sa che sorta di iniezione fargli, anche se non ha avuto esperienza del cane individuale che lo ha morso. L’altro è che ogni tanto la natura ci costringe a denunciare come illusorio il nostro sapere e a sceglierne una forma alternativa (che è poi il problema della rivoluzione dei paradigmi conoscitivi). Nietzsche avverte l’esistenza di costrizioni naturali che gli appaiono come "forze terribili" le quali premono continuamente su di noi, opponendosi alle nostre verità "scientifiche". Ma rifiuta di concettualizzarle, visto che è stato per sfuggire ad esse che ci saremmo costruiti, quale difesa, l’armatura concettuale. Il cambiamento è possibile, ma non come ristrutturazione, bensì come rivoluzione poetica permanente "se ciascuno di noi, per sé, avesse una differente sensazione, se noi stessi potessimo percepire ora come uccelli, ora come vermi, ora come piante, oppure se uno di noi vedesse il medesimo stimolo come rosso e un altro lo vedesse come azzurro, se un terzo udisse addirittura tale stimolo come suono, nessuno potrebbe allora parlare di una tale regolarità della natura".

Pertanto l’arte (e con essa il mito) "confonde continuamente le rubriche e gli scomparti dei concetti, presentando nuove trasposizioni, metafore, metonimie; continuamente svela il desiderio di dare al mondo sussistente dell’uomo desto una figura così variopinta, irregolare, priva di conseguenze, incoerente, eccitante ed eternamente nuova, quale è data dal mondo del sogno".

Se queste sono le premesse, la prima possibilità sarebbe di rifugiarci nel sogno come fuga dalla realtà. Ma lo stesso Nietzsche ammette che questo dominio dell’arte sulla vita sarebbe un inganno, anche se supremamente giocondo. Oppure, ed è quello che la posterità nietzschiana ha accolto come vera lezione, l’arte può dire quello che dice perché è l’Essere stesso che accetta qualsiasi definizione, perché non ha fondamento. Questo svanire dell’ Essere coincideva per Nietzsche con la morte di Dio. Il che permette pertanto ad alcuni credenti di trarre da questa morte annunciata la falsa conseguenza dostoevskiana: se Dio non c’è o non c’è più, allora tutto è permesso — quando (se mai) il non credente sa che, se non ci sono inferno e paradiso, allora è indispensabile salvarci in terra stabilendo benevolenza, comprensione e legge morale.

E’ uscito l’anno scorso un libro di Eugenio Lecaldano (Un’etica senza Dio), dove con ampia documentazione antologica si sostiene che è solo mettendo da parte Dio che si può veramente avere una vita morale. Non voglio certamente questa sera stabilire se Lecaldano e gli autori che antologizza abbiano ragione, voglio solo ricordare che c’è chi sostiene che l’assenza di Dio non elimina il problema etico—e ben se ne era accorto il cardinal Martini che aveva istituito proprio qui a Milano la cattedra dei non credenti. Ricordo inoltre che Elie Wiesel una decina di giorni fa (qui alla Milanesiana) ci ha detto che coloro che pensavano che tutto fosse permesso non erano coloro che credevano che Dio fosse morto, ma coloro che credevano di essere Dio.

Però l’idea che non ci siano fatti ma solo interpretazioni non è affatto condivisa da tutto il pensiero contemporaneo, che in gran parte rivolge a Nietzsche e ai sui seguaci le seguenti obiezioni: (1) se non ci fossero fatti ma solo interpretazioni allora di che cosa un’interpretazione sarebbe interpretazione? (2) E se le interpretazioni s’interpretassero tra loro ci dovrebbe essere pur stato un oggetto o un evento iniziale che ci ha spinto a interpretare. (3) Inoltre, anche se l’essere non fosse definibile, bisognerebbe dire chi siamo noi che ne parliamo metaforicamente, e il problema di dire qualcosa di vero si sposterebbe dall’oggetto al soggetto della conoscenza. Dio sarà anche morto ma Nietzsche no. Su quale fondamento giustifichiamo la presenza di Nietzsche? Dicendo che è solo una metafora? Ma se lo è, chi la pronuncia? Non solo, ma anche se della realtà si parlasse spesso per metafore, per elaborarle occorre che esistano parole che abbiano un significato letterale e denotino cose che conosciamo per esperienza: non posso chiamare gamba il sostegno del tavolo se non ho una nozione non metaforica della gamba umana, conoscendone forma e funzione. (4) Infine, ad affermare che non esiste più un criterio intersoggettivo di verifica, si dimentica che ogni tanto ciò che sta fuori di noi (e che Nietzsche chiamava le forze terribili) si oppone ai nostri tentativi di esprimerlo sia pure metaforicamente; che ad applicare, che so, la teoria del flogisto a un’infiammazione non si riesce a guarirla, mentre ricorrendo agli antibiotici sì; e che dunque esiste una teoria medica migliore di un’altra.

Dunque l’Assoluto non sarà né pensabile né attingibile, ma esistono delle forze naturali che assecondano o sfidano le nostre interpretazioni. Se io interpreto una porta aperta dipinta in trompe l’oeil come una porta vera e vado dritto per attraversarla, quel fatto che il muro è impenetrabile delegittimerà la mia interpretazione.

Ci deve essere un modo in cui le cose stanno o vanno — e la prova è non solo che tutti gli uomini sono mortali ma anche che, se tento di passare attraverso un muro, mi rompo il setto nasale. La morte e quel muro sono l’unica forma di Assoluto di cui non possiamo dubitare.

L’evidenza di quel muro, che ci dice "no" quando noi vogliamo interpretarlo come se non ci fosse, sarà forse criterio di verità assai modesto per i custodi dell’Assoluto, ma, per parafrasare Keats, "questo è tutto ciò che voi sapete in terra e tutto ciò che vi occorre sapere".



Mercoledì, 18 luglio 2007