Crisi
La prossima fine della globalizzazione

di Harold James

per Die Zeit, Hamburg – 29 gennaio 2009, n. 06 (traduzione dal tedesco di José F. Padova)



http://www.zeit.de/2009/06/Ende-der-Globalisierung

Ma chi lo dice che la globalizzazione non si può capovolgere? La storia ci insegna il contrario.

Noi stiamo vivendo un crollo finanziario come non c’era più stato dai tempi della Grande Depressione. Le conseguenze saranno drammatiche. Per la prima volta nel Dopoguerra potremmo vivere col 2009 un anno nel quale l’economia mondiale non cresce. La crisi mette in moto drammatici cambiamenti di rotta politici e prepara lo scenario di una resurrezione dello statalismo.

E potrebbe riservarci anche qualcos’altro: l’inversione di marcia della globalizzazione.

Per decenni ci eravamo abituati al mantra che non si sarebbe potuto invertire la globalizzazione – l’integrazione a livello mondiale mediante grandi flussi di merci, capitali e anche persone. Da un punto di vista storico ciò non può essere sostenuto. Nel 18° secolo l’integrazione economica mondiale, sospinta dal commercio di zucchero e caffè, provocò contraccolpi contro gli imperi inglese e francese, che svolgevano questo tipo di globalizzazione. Correnti di traffico commerciale furono indirizzate e intere produzioni spostate altrove dalle guerre della Rivoluzione francese e dell’era napoleonica. Nel 19° secolo la globalizzazione, con la sua integrazione mediante navi a vapore, telegrafo e migrazioni di massa, finì con la Prima guerra mondiale. No, la globalizzazione non è ininvertibile.

L’odierno contraccolpo nella globalizzazione viene accelerato da due forze: da reazioni pratiche e spinte dall’interesse e da argomentazioni moralistiche profondamente sentite. Prese a sé restano in superficie, ma insieme producono un effetto imponente.

Per iniziare dal lato pratico: la crisi porterà a disoccupazione più elevata. La ricerca di strumenti per la lotta alla disoccupazione porta inevitabilmente al protezionismo e in effetti già vi sono alcuni segni inquietanti, malgrado le molte parole tranquillizzanti sul valore dell’apertura internazionale.

Nel novembre 2008 i delegati del vertice economico G20 promisero solennemente che per dodici mesi «si sarebbero astenuti dall’erigere nuove barriere contro gli investimenti o il commercio di merci o servizi». Eppure dopo pochi giorni la Russia stabiliva nuovi dazi doganali sulle automobili e svalutava il rublo, mentre l’India introduceva dazi sui prodotti di ferro e acciaio. La Cina abbassava il cambio del renminb per sostenere le sue esportazioni.

Nell’Eurozona la forte svalutazione del pfund britannico è percepita anch’essa come un’azione mirata, come parte di una guerra dei cambi [delle valute]. Il nuovo Congresso degli Stati Uniti è più aperto di quello precedente al protezionismo commerciale e sembra inverosimile che il presidente Obama ne blocchi i conseguenti orientamenti.

Inoltre vi è una drammatica inclinazione verso una corrente di pensiero che si potrebbe descrivere come «consenso neokeynesiano»: che grandi spese aggiuntive da parte dello Stato sono necessarie per salvare la congiuntura e che grandi indebitamenti statali siano usati per stabilizzare i mercati del credito, perché in tempi di estrema tensione lo Stato è l’unico creditore attendibile.

Che succede se lo Stato non corrisponde alle aspettative? Se i deficit aumentano e non arriva una svolta? Allora si allarga una disillusione: il mercato ha fallito, ma anche lo Stato.

Considerate storicamente, le ripercussioni contro la globalizzazione erano indotte da sdegno morale per la corruttela del commercio sulle lunghe distanze – e sovente da ispirazioni religiose. Il mondo in espansione del Rinascimento ispirò il predicatore penitenziale italiano Savonarola a una reazione di questo genere e i suoi seguaci organizzarono “purgatori delle vanità”, nei quali davano alle fiamme gli eccessi del commercio fiorentino di beni di lusso. Savonarola trovò un’eccezione in Martin Lutero, che scrisse trattati contro il commercio a lunga distanza, nei quali prendeva le mosse da san Paolo e dal suo punto di vista “La cupidigia è una radice di ogni cattiveria” [ndt.: la citazione letterale è in antico alto tedesco].

Integrazione globale, potere globale e una crisi dei valori – queste cose, dal punto di vista storico, sono strettamente collegate fra loro. Non ci sembri strano incontrare la loro interazione nella nostra epoca di globalizzazione. Infatti nel nostro caso la reazione sarà particolarmente potente, ciò che sta soprattutto nelle cause finanziarie della crisi.

Il più recente episodio di globalizzazione è stato accompagnato e favorito da una drammatica espansione dei flussi finanziari. Si può anche intendere l’attuale crisi, questa esplosione del mercato finanziario, come una reazione all’accumularsi di debito, e precisamente dell’indebitamento sia dei Paesi che dei privati. La crisi produce una pressione universale sui prezzi, un processo che per la Grande Depressione degli anni ’30 fu chiamato “deflazione debitoria”. Qui i debiti nominali diminuiscono, però addirittura aumentano i debiti reali, perché i prezzi cadono più rapidamente.

Dagli anni ’30 in poi si considera tutto questo come un problema di ieri. Per esempio, è stato ammesso che un processo di deflazione può facilmente essere evitato mediante una corretta politica monetaria. Si deve soltanto abbassare i tassi e abbassarli ancora. La Bank of England, la Federal Reserve Bank e le Banche centrali europee hanno fatto esattamente questo, singolarmente e in fasi coordinate, per impressionare i mercati. I mercati erano anche loro già scossi, e gli interventi hanno fatto effetto ogni volta per una giornata o giù di lì. Poi il panico è tornato a dominare.

Altri sono partiti dal presupposto che un’espansione della massa monetaria sicuramente avrebbe impedito la deflazione, con il mettere a disposizione liquidità e sempre più liquidità. Molto citata è stata una osservazione del capo della Federal Riserve Bank, Ben Bernanke, che a proposito della persistente deflazione giapponese degli anni ’90 aveva detto: in sostanza si dovrebbe soltanto spargere denaro sulla gente, come da un elicottero. Nell’economia mondiale verso la fine del 2007 questa strategia andò bene. Nel 2008 non funzionò. Le Banche centrali pomparono più di 2,5 miliardi di dollari nell’economia, ma ottennero semplicemente una rassicurazione passeggera. Non si riuscì a portare le banche ad effettuare la loro consueta distribuzione del credito.

Ancora altri credettero che la minaccia deflazionistica sarebbe stata arginata con l’acquisto di titoli infetti da parte delle Banche centrali o dei governi. Questa sarebbe potuta essere una buona idea, originariamente era anche il nucleo del piano di salvataggio del ministro delle Finanze americane Hank Paulson. Tuttavia la conversione si dimostrò troppo macchinosa, perché ogni titolo inquinato lo era alla sua propria maniera e risultò troppo complicato trovargli un prezzo.

È la storia di una lotta vana contro la deflazione.

Sembra essere straordinariamente difficile uscire da una deflazione e ai prolungati periodi di deflazione degli Stati Uniti negli anni ’30 e in Giappone nei ’90 non è seguita una vera ripresa. La deflazione che proviene dal settore finanziario è particolarmente pericolosa. Trattarla è più difficile che farlo con l’inflazione. Per combatterla non si possono abbassare i tassi d’interesse al disotto dello zero.

Nella deflazione non tutti i prezzi si muovono verso il basso. I debiti non si adeguano, perché sono stabiliti in valori nominali. L’inflazione abbassa il valore dei debiti e causa euforia, quando i nuclei famigliari e le imprese vedono ridursi i loro impegni finanziari. La deflazione aumenta il peso dei debiti e ci si sente come oppressi da una coperta di piombo.

Durante la Grande Depressione fra le due guerre mondiali l’economista Irving Fisher descrisse accuratamente il processo della deflazione debitoria. Chi concede un credito, preoccupato per la caduta di valore delle garanzie, ne chiede il rimborso, obbliga il debitore a fornire ulteriori garanzie, questo spinge i prezzi ancor più in basso, porta a una maggiore riduzione dei crediti, alla bancarotta delle imprese e al fallimento delle banche.

Le risposte e le ricette dei nostri economisti per il 20° secolo sono caratteristiche. Si occupano a fondo delle radici della nuova insicurezza. Eppure vi sono risposte molto più antiche. La deflazione produce un radicale anticapitalismo e richieste per una estinzione dei debiti. Il rifiuto dell’economia di mercato prende spesso la forma di una specifica condanna del debito e degli strumenti che lo reggono.

Il Gran Mufti saudita Abdelaziz Al al-Sheikh sostenne l’idea che la causa delle crisi economiche sia l’interesse debitorio in sé e che il principio religioso della Sharia, ovvero la ripartizione del rischio, avrebbe tolto di mezzo il problema. L’Antico Testamento raccomandò l’estinzione a turno del debito, da farsi ogni 49 anni. La chiesa del Medioevo combatté contro l’usura.

Simili risposte comprendono i debiti come la causa di un deficit morale fondamentale. Oggi vi sono molti più debiti che nell’Europa medioevale. Nei Paesi industrializzati i consumatori si procurano i crediti per acquistare. L’interpretazione teologica dei moderni è di prestarci denaro l’un l’altro, sempre più - per un motivo degno di condanna. Noi prestiamo perché siamo convinti che il nostro vantaggio, il nostro piacere sono più grandi e più importanti di quelli delle altre persone. Se vediamo nella vetrina del concessionario l’auto scintillante che non possiamo permetterci, siamo tuttavia profondamente convinti che quell’auto sarebbe guidata al meglio soltanto da noi. In un certo modo, l’avidità si nutre di orgoglio e di egoismo.

Già prima dell’estate 2007 ci furono i segni che entravamo in una nuova epoca, nella quale la «tesi della globalizzazione» si arrotola all’indietro. Le Consultazioni di Doha per la liberalizzazione del commercio mondiale si sono bloccate perché era scoppiato un conflitto fra i Paesi emergenti, arrivati al potere, e i vecchi Paesi industrializzati. Gli Stati autoritari, Cina e Russia, hanno sfruttato la scarsezza di materie prime per aumentare la loro forza politica su piano mondiale. Si è formato scetticismo sui vantaggi della libera circolazione dei capitali.

Mentre la situazione economica si aggrava, in molti Paesi le persone si preoccupano per le conseguenze dell’immigrazione. In questo nuovo mondo la limitazione del numero degli stranieri diventa importante. Gli individui si sentono più esposti ai rischi che vengono dal mondo esterno, invece di vederne le occasioni favorevoli. Vi sono Paesi pronti a fare guerre per il commercio e la valuta e ad opporsi a intromissioni nei loro affari economici.

L’espansione e i costi delle attività dello Stato significano che i contribuenti hanno interesse a che i vantaggi del nuovo keynesianesimo non vadano oltre i confini del Paese. Potere ed egemonia assumono maggiore significato, perché chi decide in politica vede più il gioco a somma zero che i vantaggi della collaborazione. In questo mondo i conflitti tendono a inasprirsi e a distruggere le basi del benessere e dell’ordine internazionale.

Traduzione dall’inglese di Thomas Fischermann

 
Ritratto di Harold James
Lo scienziato britannico Harold James dal 1986 insegna alla Università di Princeton nel New Jersey (USA). Si è specializzato molto presto nella Storia tedesca ed è un esperto di storia dell’economia e della finanza del periodo fra le due Guerre mondiali. James ha scritto fra l’altro La Deutsche Bank nel Terzo Reich e Imprese famigliari in Europa. Come storico è uso, al contrario degli economisti puri, a prendere in considerazione le evoluzioni a lungo termine. In questa prospettiva la globalizzazione appare come un fenomeno vecchio – e come un processo che si ripete costantemente.


Sabato 07 Febbraio,2009 Ore: 16:13