Stampa estera
Le anime morte di Srebrenica

di Thomas Schmid (traduzione dal tedesco di José F. Padova)

Dieci anni dopo: la città del più grande massacro in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale cerca disperatamente un futuro


(c) DIE ZEIT 07.07.2005 Nr.28 tf

Un costume nero con trecce amaranto, fra le mani distese un fazzoletto rosso fuoco: Ahmo Begić dirige un kolo [ndt.: danza folcloristica in cerchio]. Sei ragazze abbigliate nel costume tipico eseguono la tradizionale danza serba. Nella sala piena ai tavoli si beve birra e vino e slivovica, acquavite serba di prugne. L’umore è allegro. Luogo e scena: un hotel malridotto a Srebrenica, una cittadina che fino a dieci anni fa quasi nessuno conosceva. Eppure a Srebrenica è stata scritta una spaventosa pagina della storia mondiale. I serbo-bosniaci in questo luogo uccisero 8.000 bosniaci musulmani. È stato il peggiore massacro in Europa dopo la Seconda guerra mondiale. «Possano le lacrime delle madri diventare preghiere perché non accada mai più una Srebrenica, per nessuno e in nessun luogo», sta scritto su una lapide nel grande cimitero della vicina Potocari, dove sono sepolte le vittime.

Ora sono trascorsi dieci anni. L’11 luglio 1995 i serbi, al comando del generale Radko Mladic, travolsero la zona protetta dell’ONU a Srebrenica, un’enclave nella Bosnia orientale. Circa 25.000 musulmani fuggirono a Potocari, distante circa sei chilometri, dove i Caschi blu olandesi avevano il loro quartiere generale. Sotto ai loro occhi furono selezionati gli uomini idonei alle armi – e tali erano considerati perfino i vegliardi. Le donne e i bambini furono caricati su bus e portati nella terra di nessuno fra i due fronti. Da lì giunsero a piedi fino al territorio controllato dal governo bosniaco e vennero salvati. Gli uomini invece furono portati via e ammazzati, come coloro che avevano cercato scampo nei boschi e durante la fuga erano caduti nelle mani dei soldati serbo-bosniaci.

Dove un tempo invitavano le boutique chic, oggi sbadigliano miseri negozietti
Prima della guerra nei Balcani Srebrenica era considerata la quarta città più ricca della Bosnia. Già 2.000 anni prima i Romani avevano qui estratto l’argento e chiamavano la città Argentaria. In epoca comunista si estrasse soprattutto piombo e zinco, l’argento (in serbo-croato srebro) era passato in secondo piano. Le miniere, come anche le terme note in tutta la regione, avevano portato alla popolazione un ragguardevole benessere. La maggior parte delle famiglie poteva permettersi il videoregistratore e la piccola auto marca Yugo. E molti lavoratori, che trovavano il loro sostentamento nelle miniere sulle alture che circondano la città o nella fabbrica di batterie e di freni giù nella valle, possedevano perfino una casetta per le vacanze.

Oggi nella cittadina di 21.000 abitanti si tocca la miseria con mano. Le vecchie sferruzzano davanti alle facciate crivellate di colpi. Gli uomini se ne stanno seduti in strada sui marciapiedi, come se aspettassero che infine qualcosa succeda. In una nicchia fra le case si arrostisce un agnello sulla brace. Qualcuno spacca la legna. Si provvede per i giorni freddi. Del supermercato è rimasta soltanto l’insegna. Dove un tempo occhieggiavano eleganti negozi si allineano poveri spacci. Sul luogo non vi è letteralmente nulla di bello, nessuna piazza che inviti a soffermarsi. A Srebrenica vivono soltanto degli sconfitti. Alcuni hanno perduto semplicemente il loro lavoro e le loro case, altri anche i loro mariti e figli.

Al luogo dell’orribile evento porta la fine di un tortuoso sentiero campestre. Da settimane in un campo presso Lipje, distante da Srebrenica 50 chilometri, un’antropologa canadese e un’archeologa norvegese dissotterrano ossa, vecchie scarpe e vestiti decomposti.
Frammenti di crani, scapole, ossa pelviche, tutto viene classificato, fotografato, provvisto di numeri identificativi e alla fine posto in un sacco di plastica. Le scienziate contrassegnano le zone già esaminate e ripulite con bandierine rosse. La comunicazione si limita a esigue istruzioni. Ognuno sa quello che ha da fare: il ruspista, il poliziotto, le scienziate, il direttore degli scavi. Solamente una contadina con un foulard in testa non ha un compito. Se ne sta semplicemente lì. Senza muoversi e in silenzio osserva la scena spettrale.

Non è ancora chiaro se in uno strato più profondo giacciano ancora altri resti umani. «Si tratta di una fossa secondaria», dice Murad Hurtic, «gli autori del massacro hanno portato via le salme dalla fossa primitiva, per far sparire le tracce del loro crimine». L’ex insegnante, che dirige i disseppellimenti in tutta la Bosnia orientale, si occupa di questo tremendo lavoro già da nove anni. E sempre si trovano nuove fosse comuni. Hurtićha già fatto dissotterrare 6.500 vittime. Come si sopporta tutto ciò? Si può vivere ancora una vita normale? La sera, dopo il lavoro fatto, bersi una birra? «Essi hanno ucciso mio fratello», è la risposta del direttore delle esumazioni. Di più non dice.

Come nella maggior parte delle “fosse secondarie” anche a Lipje non sono stati trovati scheletri intatti. Le salme esumate furono a suo tempo scaricate alla rinfusa dai camion e poi schiacciate da escavatori cingolati. Il riordino delle ossa è difficile. Oltre 67.000 parenti di persone scomparse durante la guerra di Bosnia (dal 1992 al 1995) si sono fatte fare gli esami del sangue. Solamente le analisi comparate del DNA permettono l’identificazione delle vittime. Si tratta di un procedimento lungo e costoso. Tuttavia soltanto chi è stato identificato è inumato. Oltre 5.500 sacchi mortuari pieni di ossa sono ancora immagazzinati in celle frigorifere, a Tuzla nella Bosnia settentrionale.

Abdullah Purkovic, 57 anni, ricorda bene come iniziò la guerra in Srebrenica, che allora era abitata per tre quarti da musulmani e per un quarto da serbi. Oggi egli manda avanti un ristorante presso l’uscita superiore del centro abitato. La sua minestra ai funghi e all’ortica è molto buona e i tradizionali burek, sorta di ravioli di pasta sfoglia, sono farciti con tarassaco e spinaci selvatici. Lui sa dove trovare gli ingredienti. Con migliaia di altri musulmani ha vissuto per un mese nei boschi, dopo che le “Tigri”, paramilitari serbi [ndt.: comandati dal famigerato
Zeljko Raznjatovic, detto Arkan, poi assassinato a Belgrado], il 17 aprile 1992 avevano attaccato Srebrenica con l’artiglieria pesante, saccheggiato e messo a fuoco le case. Poco dopo unità militari musulmane, al comando di Nasen Oric, già guardia del corpo di Milosevic, ripresero la città e ridussero in cenere diversi villaggi serbi nelle vicinanze, dove centinaia di serbi trovarono la morte. Dopo questi fatti quasi tutti i serbi se ne andarono da Srebrenica.

Poi fu come se si fosse aperto l’inferno. Per tre anni Srebrenica fu tenuta sotto assedio e bersagliata dall’artiglieria delle truppe di Mladic. Nella cittadina, incassata in una valle, che prima della guerra contava 6.000 abitanti, vivevano allora 40.000 profughi musulmani, scacciati dalle altre città della Bosnia orientale. «Non c’era più niente da mangiare», ricorda Purkovic, «un chilo di sale costava 50 DM, un pacchetto di sigarette 100». All’inizio il prezzo era fissato nella vecchia valuta tedesca, alla fine però il sale divenne l’unità di misura di tutto il commercio.
Nelle strade giacevano centinaia di feriti, non si trovava più materiale per le medicazioni. «Intontivamo i feriti con la grappa», racconta Purkovic, che aiutava i medici e conosce non soltanto tarassaco e denti di leone, ma anche le erbe curative. «Ad alcuni feriti gravi abbiamo amputato membra con una sega da macellaio». Molti assediati erano già morti di fame, quando dopo dieci mesi di assedio nel marzo 1993 un convoglio dell’ONU con mezzi di sostentamento entrò finalmente nell’enclave. Non appena i viveri furono scaricati, migliaia di donne e bambini si precipitarono sui camion per scappare dalla città assediata. Durante l’evacuazione di 5.000 persone su automezzi sovraccarichi sei di queste morirono schiacciate.

Begic, il maestro di danza, ha salvato un quaderno con le danze tradizionali
La situazione era tanto allarmante che nell’aprile 1993 l’ONU istituì la prima zona protetta della sua storia. A Srebrenica giunsero caschi blu, prima canadesi, poi olandesi. 750 soldati ONU con armi leggere avrebbero dovuto disarmare i difensori musulmani e intimorire gli aggressori serbi di gran lunga superiori in numero e mezzi. Entrambe le cose fallirono. I musulmani consegnarono le loro poche armi pesanti, fiduciosi di essere protetti dai caschi blu, ma tennero con sé quelle leggere, per precauzione.

Il 6 luglio 1993, senza esserne ostacolati dai caschi blu, i serbi andarono all’attacco dell’enclave. Cinque giorni dopo i loro carri armati scorrazzavano per Srebrenica. In città si scatenò il panico. Tutti fuggivano. «Chi aveva feriti o invalidi a carico li metteva davanti all’ospedale», ricorda Purkovic, che lavorava accanto ai medici come cuoco senza limiti di tempo, «io mi occupavo poi perché venissero trasportati a Potocari». Egli stesso sfuggì alla selezione e alla morte certa soltanto perché aveva potuto dimostrare di essere un collaboratore dell’Organizzazione mondiale di aiuto umanitario. Prima del suo espatrio verso la Croazia i soldati serbi lo costrinsero però a leggere davanti ai microfoni di una radio un messaggio: «I serbi sono venuti come liberatori, adesso tutti sono felici di poter vivere in pace». Dovette balbettare queste frasi sotto la minaccia delle canne di fucile. «A Potocari si sono svolti fatti spaventosi», dice Purkovic, «5.000 persone totalmente terrorizzate si trovavano nella zona ONU e 20.000 fuori, famiglie venivano strappate, anziani torturati in un capannone, una ragazza ripetutamente violentata dai soldati si uccise…». La voce del cuoco si arresta, in silenzio si volta da un’altra parte.

Anche il musulmano Ahmo Begic, che dirige nell’hotel la danza kolo  delle sei ragazze serbe, ebbe fortuna nella disgrazia. Nel 1993, primo anno dell’assedio, era stato ferito. Il proiettile aveva sfiorato l’arteria femorale e la ferita lo aveva bloccato a letto per tre mesi. «Anch’io avrei potuto farmi evacuare allora con gli altri feriti, ma non potevo lasciare mio padre solo». Quando nel 1995 i soldati di Mladićentrarono in Srebrenica, Begic, che allora aveva 24 anni, fu tra gli ultimi a lasciare Srebrenica. «Fuggii nei boschi, dove si erano riunite molte persone», racconta. «Formavano una lunga colonna e ci avviammo in direzione di Tuzla». Tuzla si trovava nel territorio controllato dalle autorità bosniaco-musulmane, a 70 km da Srebrenica. Degli oltre 10.000 uomini, un terzo dei quali aveva comunque un’arma, per lo più una vecchia carabina o una pistola, meno di 5.000 sopravvissero alla marcia della morte durata una settimana. A migliaia morivano sui campi minati, erano fatti a pezzi dalle granate, falciati dalle mitragliatrici, cadevano per esaurimento o erano fucilati dai soldati serbi dopo essersi arresi.

Tre anni fa egli è tornato nella sua città natale, per ricostruire la piccola moschea che suo padre aveva a suo tempo fatto erigere e davanti alle cui rovine è ora sepolto. Dell’orrore anche Begićdesidera non parlare. Egli farfuglia qualcosa come «indescrivibile», «una catastrofe senza paragone» e fa capire che alcuni profughi feriti gravemente avevano pregato i loro compagni di sparare loro, per non essere di peso. «Per favore non chiedete particolari», implora, «non voglio ricordarmi di tutto quello, voglio cancellarlo dalla memoria, come se non fosse mai accaduto».
Poi tira fuori un grosso, logoro quaderno. «Durante la fuga ho gettato via giacca e spazzolino da denti», racconta, «me mi sono tenuto stretto questo». Durante i tre anni di assedio di Srebrenica si era incontrato sovente con persone anziane, per imparare da loro le danze tradizionali. Dalla catastrofe voleva portare in salvo qualcosa. «I triangoli indicano gli uomini e i cerchi delle donne», spiega Begići suoi schizzi, che mostrano dove devono stare i danzatori e quali passi di danza devono compiere. Egli stesso ha progettato alcune nuove danze e durante l’assedio aveva diretto un gruppo di danza. Il macellaio racconta: «I membri erano 38, dei quali 15 donne. Degli uomini soltanto tre sono sopravvissuti, mentre le donne restarono tutte in vita, salvo una che fu colpita da una granata».

Quando nel novembre 1955 la guerra giunse al termine, a Srebrenica non viveva più un solo musulmano. Oggi la città , che dopo gli accordi di pace di Dayton è stata annessa alla Repubblica Serba di Bosnia, conta la metà degli abitanti che vi vivevano prima degli scontri armati. Di essi circa 2.500 sono serbi. La maggior parte di essi sono forestieri, immigrati dai sobborghi di Sarajevo che con gli accordi di Dayton erano diventati parte della Federazione Croato-Bosniaca. Soltanto 400 sono musulmani rimpatriati.

Srebrenica è segnata gravemente dalla guerra. Numerose rovine di case testimoniano i bombardamenti con l’artiglieria, sulle pareti di quasi tutti gli edifici si aprono ancora oggi i buchi dei proiettili. Delle cinque moschee andate completamente distrutte soltanto una è stata ricostruita – con soldi offerti dalla Malesia. Perfino la collina che sovrasta la città non è più la stessa di prima. Accanto al castello medievale, dai cui merli secondo la leggenda la vedova di un conte serbo ogni giorno colpiva a morte un musulmano esausto, che aveva fatto portare nella sua camera da letto, si leva oggi un’alta croce di ferro, conficcata nel suolo dopo la conquista della città nel luglio 1995. il segnale è chiaro: qui è terra cristiana, vale a dire terra serba.

Ciononostante il sindaco in carica di Srebrenica è musulmano. Benché nel comune, al quale appartengono una dozzina di villaggi intorno alla città, vivano tre volte più serbi che musulmani e benché praticamente tutti gli abitanti abbiano votato partiti della loro etnia. Questo fatto si deve ascrivere a una particolarità del diritto elettorale bosniaco, secondo il quale i profughi possono votare anche nel loro luogo di residenza primitivo. In questo modo Abdurahman Malkić, un abile uomo sui trentacinque anni, è diventato sindaco con i voti dei musulmani scacciati. Ma si tratta di un mero titolo onorifico. La maggioranza degli abitanti lo punisce col disprezzo. Lui è musulmano, quindi non è il loro sindaco.

Come soldato dell’esercito musulmano egli aveva difeso l’enclave contro gli aggressori serbi ed era stato ferito due volte. Quando Srebrenica cadde egli voleva, come molti altri soldati, passare attraverso i monti e le foreste per raggiungere Tuzla. Non riuscì. Così fuggì verso la Serbia. Ma i serbi lo estradarono verso la Repubblica serbo-bosniaca. Per sua fortuna gli riuscì di farsi registrare dalla croce Rossa Internazionale. Altrimenti avrebbe condiviso il destino di suo padre, che fu portato via da Potocari e fucilato.

«Dobbiamo parlare del passato», dice Malkic, che ha condotto la sua campagna elettorale con lo slogan ”Idemo dalje”, « Fateci guardare in avanti». Ma ora egli chiede: «I responsabili devono essere puniti, non c’è alcuna colpa collettiva di un popolo, ma soltanto individui che hanno commesso crimini». Eppure a Srebrenica  non c’è alcuno che voglia parlare di quello che è accaduto. Non i musulmani, perché le loro ferite ancora dolgono o perché fanno ancora sempre sperimentano come la loro pena interessi a nessuno. Non i serbi, perché li sostituiscono volentieri e per prima cosa vedono il loro proprio destino. Non hanno forse anch’essi dovuto abbandonare i propri villaggi? E non ci sono forse stati morti anche fra i serbi? «Con il massacro non abbiamo veramente avuto niente a che fare», si sente sempre ripetere, «non ne abbiamo saputo nulla, in qual tempo non eravamo qui».

Prima della guerra nelle miniere erano occupati 2.000 minatori, oggi sono soltanto 350. Nella Drina, la fabbrica cittadina per la lavorazione del legno, trovavano lavoro prima della guerra 617 persone, oggi sono 53. E il complesso delle Terme Crni Guber, che con le sue 48 sorgenti di acque minerali curative contava nel 1980 più di 25.000 presenze alberghiere, è oggi una rovina. Nell’Hotel Donavia, un tempo pezzo pregiato della città, non pernottano più gli ospiti delle terme, ma i profughi serbi, che hanno dovuto lasciare le case quando i legittimi proprietari musulmani erano ritornati.

Per esempio Marko Ilic. Sul tavolo della sua camera accanto a due posa ceneri strapieni c’è una bottiglia di plastica da due litri, sulla quale c’è la scritta “Pivo”, birra, ma che odora di acquavite di prugne. biancheria umida pende da una corda che dalla maniglia della finestra attraversa la stanza fino all’armadio. Per terra c’è una pietra da camino, sulla quale terminano, non fissati, due cavi elettrici di rame: un primitivo riscaldamento per i freddi giorni invernali. Come soldati alla fine ci si sa arrangiare. E Ilićha fatto molte guerre. Nella truppa del capo radicale serbo Vojislav Šešelj, che al Tribunale dell’Aja è imputato di crimini di guerra, ha combattuto a Vukovar contro i croati. Più tardi si è trovato con le bande armate montenegrine davanti a Dubrovnik e a Srebrenica era venuto contro i «turchi», come chiama i musulmani.

Ma lui non è in grado di mettere ordine nelle tante battaglie. Alla fine c’è pur sempre una pallottola nella sua testa. Di un poliziotto serbo, come lui dice. Non poteva permettersi un’operazione chirurgica. Un documento certifica la sua inidoneità al lavoro dell’80 percento, per episodi di epilessia. Ilićè amareggiato dal popolo serbo e beve più volentieri la grappa con i «turchi». Ma al collo gli penzola una medaglia. La «Croce per l’onorevole libertà», che certifica in lui un buon combattente, dice di averla ricevuta nel 1993 personalmente da Mladiće da Karadzic. Il generale Radko Mladic, capo di Stato maggiore dell’esercito serbo-bosniaco, ha diretto il massacro di Srebrenica, mentre lo psichiatra Radovan Karadzic, capo del partito radicale nazionalista SDS, era allora presidente della Repubblica serba di Bosnia. Entrambi sono ricercati da anni dal Tribunale dell’Aja per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio.

Più tardi incontriamo Ilićnella sede di partito di questo SDS, che alle ultime elezioni ha raccolto quasi un terzo dei voti serbi in città. La stanza è disadorna e buia. Vi si beve birra. Il comportamento dei presenti, seguaci del partito di Karadzic, è chiaramente ostile. Miloš Milovanović, che siede nel Consiglio comunale per l’SDS e allo scoppio della guerra era alla testa dell’unità paramilitare Guardia Serba, non parla con noi. Altrettanto fa Dragan Zekic, il capopartito locale, che ha capeggiato un battaglione della brigata che ha preso Srebrenica.

Srebrenica è una città caduta nella miseria. Sono rimasti soprattutto i vecchi serbi e ritornati i vecchi musulmani. Vivono della pensione, i serbi per l’equivalente di 40 euro mensili, pagati dalla Repubblica serbo-bosniaca, i musulmani con i 70 euro, che vanno a ritirare a Tuzla, nella Federazione Bosniaco-croata. Anche a Begic, l’unico macellaio del centro abitato, tocca avvertire la povertà. All’inizio aveva soltanto clienti musulmani, ma nel frattempo la maggioranza è diventata serba, nonostante egli non trati carne di maiale. «Vendo anche a criminali di guerra», dice Begic.

Tanja e Kosa prendono lezioni di ballo dal macellaio. Entrambe stanno per prendere la maturità e vogliono diventare giornaliste. «Con i musulmani delle nostre classi abbiamo rapporti normali», dice Tanja, «ma del massacro non facciamo parola». Si tratta infatti di un tema sgradevole, spiega Kosa, e molto doloroso per i musulmani. «Noi non ne sappiamo proprio molto, in realtà non ci interessa», confessa parlando per entrambe. Potrebbero immaginare di sposare un musulmano? La risposta esce di getto e contemporaneamente dalle due bocche: «No». Perché no? Le due si guardano un poco a disagio. «Sono diversi», decide >Tanja. «Hanno un’altra religione», riflette Kosa. E se ti innamorassi di un musulmano? «Va beh, innamorarsi si può sempre», concede alla fine, «ma sposrasi? No».

Due persone hanno azzardato l’inaudito. Da molto tempo Amira e Milos Markovic sono l’unica coppia sposata serbo-musulmana a Srebrenica. Ma si sono sposati prima della guerra – soltanto in municipio, né in chiesa né alla moschea. Era il 1977. «Ci siamo pensati come jugoslavi», dice Amira, che possiede un salone di parrucchiera nel centro della cittadina, «i problemi sono arrivati già quando si formarono i partiti nazionalisti». Poco prima dello scoppio della guerra entrambi si rifugiarono in Serbia. Lì se la sono cavata facendo diversi mestieri. Per di più Milos dovette nascondersi dalla polizia, che lo voleva reclutare per la guerra, e nel 2000 ritornarono a Srebrenica. Una organizzazione umanitaria fece un prestito ad Amira per il suo negozio, al fine di permettere alla famiglia di riprendersi.

«Quando i giovani l’abbandonano una città muore rapidamente»
Il lavoro è svolto soprattutto dalla loro figlia Diana, che durante l’esilio aveva preso il diploma di parrucchiera. Se lei si sente musulmana o serba? La ventiquattrenne ride. «Non ho letto né la Bibbia né il Corano», riconosce, «il mio amico è musulmano e mio fratello va con una serba». Per lei tutto questo è indifferente. La cosa più importante per lei è di andarsene un giorno da questa noiosa, soporifera città. Anche Milos, suo padre, vuole andarsene. Qui non trova lavoro, la disoccupazione raggiunge l’80%. Per sei mesi ha lavorato a Bratunac, a dieci chilometri di distanza, presso un commerciante di carni. In nero. Gli hanno pagato soltanto un mese. Quindi se ne è andato e vuole soltanto essere via da qui. Ma dove? «Srebrenica è una città morta», dice.

Morta. Noiosa. Soporifera. Lo si sente sempre dire. Un gruppo di dieci studenti e studentesse non si è rassegnato al destino al quale sembra essere chiamata la città. Per settimane hanno sgomberato le macerie da una edificio in rovina. Era il vecchio cinema, distrutto dalle granate, bruciato fino alle fondamenta. Per sei mesi hanno trattato con il Consiglio comunale e col sindaco. Alla fine il comune ha incaricato una impresa di costruzioni di rimettere in sesto l’edificio. Adesso qui sai apre un centro per i giovani – con una sala per spettacoli teatrali e concerti, con un internet-café e un ufficio turistico. Il gruppo ha ottenuto di sfruttare il locale per 15 anni. Tutti loro lavorano qui. Dieci disoccupati di meno.

Aco Perendićè il capo del gruppo. Il ventisettenne dirige una piccola compagnia teatrale, che è tornata da poco da una tournée in Croazia, Serbia e Macedonia. Ha composto anche un suo dramma, che ha per titolo: «Rovina che avanza» e tratta di persone che diventano robot. I robot, che con il premere di un pulsante eseguono gli ordini senza pensarci, sono la migliore carne da cannone. «Non vogliamo andare in guerra», sta scritto sulla T-shirt di Perendic, «vogliamo viaggiare». All’inaugurazione del Centro giovanile l’uomo di teatro va al microfono e cita Albert Einstein: «Io non so che ari saranno usate nella prossima guerra, ma so bene quali in quella successiva: archi e frecce». Accecamento nazionalistico e odio hanno dato l’impronta alla guerra balcanica. «Dobbiamo imparare la tolleranza» dice Perendic, che la giovane età ha risparmiato dall’essere reclutato.

Nel gruppo degli studenti per corrispondenza, che hanno portato a termine la costruzione del Centro per i giovani, religione e appartenenza etnica non hanno rilevanza. «Sei e mezzo siamo serbi e tre e mezzo musulmani», conta Perendiće ridacchia. Le due metà messe insieme sono Dejan, il figlio della coppia serbo-musulmana Amira e Milos Markovic. «Qualcuno ritiene che Srebrenica non abbia futuro, sia una città morta», dice lo studente, «ma io la penso diversamente, dobbiamo sforzarci proprio per un futuro migliore. Se i giovani l’abbandonano, la città diventa veramente morta». Egli desidera trovarsi un lavoro, mettere su famiglia e avere il suo futuro a Srebrenica.

Anche Begic, il macellaio e maestro di danza, non vuole rassegnarsi a che Srebrenica muoia. Attraverso Internet ha organizzato un raduno motociclistico a Srebrenica. Oltre cento biker arrivati da tutta la Bosnia rombano sulle loro grosse cilindrate. Begićha tirato fuori la sua Yamaha dal garage e infilato la sua tuta di cuoi con la scritta “Harley Davidson”. La sera i motociclisti mettono i figli sul sellino posteriore, fanno il girotondo nel cortile della scuola e con il loro fracasso fanno concorrenza ai gruppi rock croati, serbi e olandesi, la cui musica martella nella valle da giganteschi altoparlanti. Centinaia di giovani – le ragazze con l’ombelico scoperto, i ragazzi in pantaloni hip-hop – danzano sulla musica. Tutto infuria, Srebrenica vive. Finché all’improvviso manca la corrente. Nessuno lo può provare, ma tutti lo ritengono un sabotaggio. Certamente quelli di Bratunac, giù sotto, hanno tolto l’elettricità, la stessa cosa è successa all’ultimo concerto, un anno fa. Srebrenica deve morire, Srebrenica, dove ancora vivono 400 musulmani, l’unica località della Repubblica Serba di Bosnia con un sindaco musulmano. No davvero, nessuno qui crede a un caso. Ci si arrangia con un generatore. La festa finisce alle cinque del mattino.

Giù a Potocari, a sei chilometri da Srebrenica, di fronte alla vecchia fabbrica di batterie in disuso, dove un tempo avevano il loro quartiere generale i Caschi blu olandesi, c’è il grande cimitero. 1.327 tombe perfettamente in fila, come in un cimitero militare. Sui tumuli non vi sono croci, ma steli di legno che portano tutte la medesima scritta: «Luglio 1995». Più tardi, quando il terreno si sarà assestato, saranno sostituite da steli di pietra bianca. L’11 luglio, nel decimo anniversario della caduta di Srebrenica, vi saranno sepolte ancora più di 500 vittime del massacro. Sono attesi 30.000 partecipanti. Ma adesso a Potocari c’è silenzio.

Una vecchia donna scende lungo la strada, vestita di una dimje, il tradizionale pantalone alla turca delle musulmane, in mano un mazzo di fiori da lei stessa raccolti nei campi. «Onore ai padri», dice, «ma il dolore delle madri è il più grande. Li ho allevati tutti io, li ho fatti studiare e ho pagato per le loro nozze. I miei figli erano falegnami, durante la guerra fabbricavano protesi di legno…». Uno dei suoi figli è ancora oggi disperso, come anche sei altri parenti. Si unisce al gruppo delle vedove che si trova all’entrata del cimitero.

All’improvviso arrivano i motociclisti, qualcuno con la ragazza sul sellino posteriore, e disturbano la quiete dei morti. Anche Ahmo Begic, il maestro di danze e macellaio, è con loro. Le vedove si addossano al muro. I biker parcheggiano le loro moto, tolgono i caschi e a grandi passi vanno verso le vedove e portano loro dei doni. In silenzio. Poi si rimettono in sella e se ne vanno scoppiettando. Il rumore svanisce. La vecchia col mazzo di fiori fa ai motociclisti un impercettibile saluto con la mano. A Srebrenica ritorna la calma. La città ricade nella sua depressione.

Testo originale:

DIE ZEIT
Die toten Seelen von Srebrenica
http://images.zeit.de/text/2005/28/Srebrenica_Head
Zehn Jahre danach: Die Stadt des größten Massakers in Europa seit dem Zweiten Weltkrieg sucht verzweifelt nach einer Zukunft
Von Thomas Schmid
Ein schwarzes Kostüm mit burgunderroten Tressen, zwischen den ausgestreckten Händen ein feuerrotes Tuch: Ahmo Begić dirigiert einen Kolo. Sechs in Tracht gekleidete Mädchen führen den traditionellen serbischen Reigentanz auf. An den Tischen im gefüllten Saal wird Bier und Wein getrunken und Sliwowitz, serbischer Pflaumenschnaps. Es herrscht eine ausgelassene Stimmung. Ort der Aufführung: ein heruntergekommenes Hotel in Srebrenica, einem Städtchen, das bis vor zehn Jahren kaum jemand kannte. Doch in Srebrenica wurde furchtbare Weltgeschichte geschrieben. Bosnische Serben erschossen hier 8.000 bosnische Muslime. Es war das schlimmste Massaker in Europa seit dem Zweiten Weltkrieg. »Mögen die Tränen der Mütter zum Gebet werden, damit Srebrenica nie wieder geschieht, niemandem und nirgendwo«, steht auf einem Gedenkstein am großen Friedhof im nahen Potocari, wo die Opfer begraben sind.
Zehn Jahre ist es nun her. Am 11. Juli 1995 überrannten die Serben unter dem Kommando von General Ratko Mladić die UN-Schutzzone Srebrenica, eine Enklave im Osten Bosniens. Etwa 25.000 Muslime flüchteten sich ins sechs Kilometer entfernte Potocari. Dort hatten die holländischen Blauhelme ihr Hauptquartier. Unter ihren Augen wurden die wehrfähigen Männer - und als solche galten selbst Greise - selektiert (siehe Bericht: Abwiegeln in Den Haag ). Die Frauen und Kinder wurden in Busse verfrachtet und ins Niemandsland zwischen den Fronten gefahren. Von dort gingen sie zu Fuß ins Gebiet, das unter Kontrolle der bosnischen Regierung stand, und waren gerettet. Die Männer aber wurden abgeführt und erschossen. Genauso wie jene, die sich durch die Wälder aufgemacht hatten und auf der Flucht den bosnisch-serbischen Soldaten in die Hände fielen.
Wo früher schicke Boutiquen lockten, gähnen heute schäbige Läden
Vor dem Krieg auf dem Balkan galt Srebrenica als viertreichste Stadt Bosniens. Schon vor 2.000 Jahren hatten die Römer hier Silber abgebaut; sie nannten die Stadt Argentaria. Zu kommunistischen Zeiten wurde vor allem Blei und Zink gewonnen, Silber (Serbokroatisch: srebro) war zweitrangig geworden. Die Minen wie das in der ganzen Region bekannte Kurbad hatten der Bevölkerung zu einem beachtlichen Wohlstand verholfen. Die meisten Familien konnten sich Videorekorder und Kleinwagen - Marke Yugo - leisten. Und viele Arbeiter, die in den Bergwerken oberhalb der Stadt oder in der Batterie- und Bremsenfabrik unten im Tal ihr Auskommen fanden, besaßen sogar ein Ferienhäuschen.
Heute ist in der 21.000 Einwohner zählenden Stadt das Elend mit Händen zu fassen. Alte Frauen stricken vor zerschossenen Hausfassaden. Männer sitzen auf dem Bordstein an der Straße, als ob sie darauf warteten, dass hier endlich einmal etwas passiert. In einer Hausnische wird über der Glut ein Lamm gebraten. Die Leute hacken Holz. Man sorgt für die kalten Tage vor. Vom Supermarkt ist nur die Inschrift geblieben. Wo früher schmucke Boutiquen Kunden anlockten, gähnen heute schäbige Läden. Es gibt buchstäblich nichts Schönes im Ort, kein Platz, der zum Verweilen einlädt. In Srebrenica leben nur Verlierer. Die einen haben bloß ihre Arbeit und ihre Häuser verloren, die andern auch noch ihre Männer und Söhne.
Zum Ort des Grauens führt am Ende ein verschlungener Feldweg. Seit Wochen schon graben auf einem Acker bei Lipje, 50 Kilometer von Srebrenica entfernt, eine kanadische Anthropologin und eine norwegische Archäologin Knochen, alte Schuhe und verrottete Kleider aus. Schädelfragmente, Schulterblätter, Beckenknochen, alles wird sortiert, fotografiert, mit Kennziffern versehen und schließlich in einen Plastiksack gesteckt. Gesäuberte Stellen markieren die Wissenschaftler mit roten Fähnchen. Die Kommunikation beschränkt sich auf knappe Anweisungen. Jeder weiß, was er zu tun hat: der Baggerfahrer, der Polizist, die Wissenschaftler, der Ausgrabungsleiter. Nur eine Bäuerin mit Kopftuch hat keine Aufgabe. Sie steht einfach da. Bewegungslos und stumm betrachtet sie die gespenstische Szene.
Noch ist unklar, ob nicht eine Schicht tiefer weitere menschliche Überreste liegen. »Es ist ein Sekundärgrab«, sagt Murat Hurtić, »die Täter haben die Leichen aus dem Primärgrab herausgeholt, um die Spuren ihrer Verbrechen zu verwischen.« Der ehemalige Lehrer, der die Ausgrabungen in ganz Ostbosnien leitet, ist seit neun Jahren schon mit dieser grauenhaften Arbeit beschäftigt. Und noch immer werden neue Massengräber gefunden. Schon 6.500 Opfer hat Hurtić ausgraben lassen. Wie hält man das aus? Kann man da noch ein normales Leben führen? Abends nach getaner Arbeit ein Bier trinken? »Sie haben meinen Bruder ermordet«, gibt der Ausgrabungsleiter zur Antwort. Mehr sagt er nicht.
Wie in den meisten »Sekundärgräbern« wurden auch in Lipje keine intakten Skelette gefunden. Die exhumierten Leichen wurden seinerzeit aus Lastwagen gekippt und von Raupenfahrzeugen zerquetscht. Die Zuordnung der Knochen ist schwierig. Über 67.000 Verwandte von im Bosnienkrieg (1992 bis 1995) verschollenen Personen haben sich Blutproben entnehmen lassen. Nur vergleichende DNA-Analysen ermöglichen die Identifizierung der Opfer. Es ist ein langwieriges und teures Verfahren. Doch nur wer identifiziert ist, wird beerdigt. Über 5.500 mit Knochen gefüllte Leichensäcke lagern noch in Kühlhallen im nordbosnischen Tuzla.
Abdulah Purković, 57, erinnert sich gut, wie der Krieg in Srebrenica begann, das damals zu drei Vierteln von Muslimen und einem Viertel von Serben bevölkert wurde. Am oberen Ortsausgang der Stadt führt er heute ein Restaurant. Seine Brennnessel-Pilzsuppe schmeckt vorzüglich. Die traditionellen Burek, Blätterteigtaschen, füllt er mit Löwenzahn und wildem Spinat. Er weiß, wo er die Zutaten findet. Einen Monat lang hat er mit Tausenden Muslimen im Wald gelebt, nachdem die »Tiger«, serbische Paramilitärs, am 17. April 1992 Srebrenica mit schwerer Artillerie angegriffen, Häuser gebrandschatzt und geplündert hatten. Kurz darauf eroberten muslimische Verbände unter dem Kommando von Naser Orić, einem ehemaligen Leibwächter Miloševićs, die Stadt zurück. Sie brannten mehrere serbische Dörfer der Umgebung nieder, an die hundert Serben starben dabei. Danach verließen fast alle Serben Srebrenica.
Und dann war es, als öffnete sich die Hölle. Drei Jahre lang wurde Srebrenica von Mladićs Soldaten belagert und mit Granaten beschossen. In der eingekesselten Stadt, die vor dem Krieg 6.000 Einwohner zählte, lebten auch noch 40.000 muslimische Flüchtlinge, die aus anderen Städten Ostbosniens vertrieben worden waren. »Es gab nichts mehr zu essen«, erinnert sich Purkovic, »ein Kilo Salz kostete 50 Mark, eine Schachtel Zigaretten 100.« Anfangs wurde der Preis noch in der alten deutschen Währung festgelegt, schließlich aber wurde das Salz zur Maßeinheit aller Geschäfte.
In den Straßen lagen Hunderte von Verletzten, Verbandsmaterial war nicht mehr aufzutreiben. »Wir betäubten die Verwundeten mit Schnaps«, berichtet Purković, der den Ärzten geholfen hat und nicht nur wilden Spinat, Löwenzahn und Brennnessel, sondern auch Heilkräuter kannte. »Einigen Schwerverletzten amputierten wir Glieder mit einer Metzgersäge.« Mehrere der Eingeschlossenen waren schon vor Hunger gestorben, als nach zehn Monaten Belagerung im März 1993 endlich ein UN-Konvoi mit Hilfsgütern in der Enklave eintraf. Kaum waren die Lebensmittel entladen, stürmten Tausende von Frauen und Kindern die Lastwagen, um der belagerten Stadt zu entkommen. Sechs Menschen wurden bei der Evakuierung von 5.000 Personen in völlig überladenen Fahrzeugen zu Tode gequetscht.
Begic, der Tanzlehrer, hat eine Kladde mit traditionellen Tänzen gerettet

Die Lage war so alarmierend, dass die UN im April 1993 die erste Schutzzone ihrer Geschichte einrichteten. Zunächst kamen kanadische, später holländische Blauhelme nach Srebrenica. 750 leicht bewaffnete UN-Soldaten sollten die muslimischen Verteidiger entwaffnen und die weit überlegeneren serbischen Aggressoren abschrecken. Beides misslang. Die Muslime gaben zwar ihre wenigen schweren Waffen ab, im Vertrauen, von den Blauhelmen geschützt zu werden. Die leichten aber behielten sie vorsichtshalber zurück.
Und die Serben setzten, ungehindert von den Blauhelmen, am 6. Juli 1993 zum Sturm auf die Enklave an. Fünf Tage später rollten ihre Panzer durch Srebrenica. In der Stadt brach Panik aus. Alle flüchteten. »Wer Verletzte und Invaliden hatte, stellte sie vors Krankenhaus«, erinnert sich Purković, der als Koch bei den Ärzten ohne Grenzen arbeitete, »ich sorgte dann dafür, dass sie nach Potocari gefahren wurden.« Der Selektion und dem sicheren Tod entging er selbst nur, weil er sich als Mitarbeiter der internationalen Hilfsorganisation ausweisen konnte. Vor seiner Ausreise nach Kroatien zwangen ihn serbische Soldaten jedoch, vor einem Radio-Mikrofon eine Botschaft zu verlesen: »Die Serben kamen als Befreier, alle Menschen sind nun glücklich, dass sie in Frieden leben können.« Solche Sätze habe er, bedroht von Gewehrläufen, gestottert. »In Potocari haben sich schreckliche Szenen abgespielt«, sagt Purković, »5.000 völlig verängstigte Menschen lagerten auf dem UN-Gelände und 20.000 davor, Familien wurden auseinander gerissen, alte Männer in einer Fabrikhalle gefoltert, ein von Soldaten mehrfach vergewaltigtes Mädchen beging Selbstmord ...« Die Stimme des Kochs stockt, stumm wendet er sich ab.
Auch der Muslim Ahmo Begić, der im Hotel den Kolo-Tanz der sechs serbischen Mädchen dirigiert, hatte Glück im Unglück. 1993, im ersten Jahr der Belagerung, wurde er verwundet. Der Schuss ging knapp an der Beinschlagader vorbei. Die Verletzung fesselte ihn drei Monate lang ans Bett. »Auch ich hätte mich damals mit den übrigen Verwundeten evakuieren lassen können«, sagt er, »aber ich konnte doch meinen Vater nicht allein zurücklassen.« Als Mladićs Soldaten schließlich 1995 in Srebrenica einmarschierten, gehörte Begić, damals 24 Jahre alt, zu den letzten, die Srebrenica verließen. »Ich floh in den Wald, wo sich viele Menschen versammelt hatten«, berichtet er. »Wir bildeten eine lange Kolonne und machten uns in Richtung Tuzla auf.« Tuzla lag auf dem Gebiet, das von der bosnisch-muslimischen Regierung kontrolliert wurde, 70 Kilometer von Srebrenica entfernt. Von den über 10.000 Männern, von denen allenfalls jeder Dritte eine Waffe besaß, zumeist einen alten Karabiner oder eine Pistole, überlebten vermutlich nicht einmal 5.000 den einwöchigen Todesmarsch. Tausende kamen in den Minenfeldern um, wurden von Granaten zerfetzt, von Maschinengewehren niedergemäht, starben an Erschöpfung oder wurden von serbischen Soldaten füsiliert, nachdem sie sich ergeben hatten.
Vor drei Jahren ist er in seine Heimatstadt zurückgekommen. Um die kleine Moschee wiederaufzubauen, die sein Vater einst hatte errichten lassen und vor deren Ruinen er nun beerdigt ist. Vom Horror mag auch Begić nicht erzählen. Er stammelt nur von etwas »Unbeschreiblichem«, von einer »Katastrophe ohne Vergleich« und deutet an, dass einige schwer verletzte Flüchtlinge ihre Kameraden darum baten, sie zu erschießen, um ihnen nicht zur Last zu fallen. »Bitte fragen Sie nicht nach Details«, fleht er, »ich will mich nicht daran erinnern, ich will das aus meiner Erinnerung tilgen, als ob das alles nie stattgefunden hätte.«
Und dann holt er ein dickes, zerfleddertes Heft hervor. »Auf der Flucht habe ich Jacke und Zahnbürste weggeworfen«, sagt er, »aber das hier habe ich behalten.« Während der dreijährigen Belagerung Srebrenicas hatte er sich oft mit alten Leuten getroffen, um die traditionellen Tänze zu lernen. Irgendetwas wollte er über die Katastrophe hinwegretten. »Die Dreiecke bezeichnen die Männer und die Kreise die Frauen«, erklärt Begić seine Tanzskizzen, die zeigen, wo die Tänzer stehen müssen und welche Schritte sie zu tun haben. Er hat auch selber einige Tänze kreiert. In der Zeit der Belagerung hatte er eine Tanzgruppe geleitet. Der Metzger zählt nach: »Es waren 38 Mitglieder, davon 15 Frauen. Von den Männern haben nur drei überlebt, von den Frauen hingegen alle bis auf eine, die von einer Granate getroffen wurde.«
Als der Krieg im November 1995 zu Ende ging, lebte kein einziger Muslim mehr in Srebrenica. Heute zählt die Stadt, die nach dem Friedensschluss von Dayton der Serbischen Republik Bosnien zugeschlagen wurde, wieder halb so viele Einwohner wie vor dem Beginn der militärischen Auseinandersetzungen. Etwa 2.500 sind Serben. Die meisten von ihnen sind Ortsfremde, zugezogen aus den Vororten Sarajevos, die mit dem Friedensabkommen von Dayton an die bosniakisch-kroatische Föderation fielen. Nur knapp 400 sind muslimische Rückkehrer.
Srebrenica ist vom Krieg schwer gezeichnet. Zahlreiche Hausruinen zeugen vom Artilleriebeschuss, in den Mauern fast aller Gebäude klaffen noch Einschusslöcher. Von den fünf komplett zerstörten Moscheen wurde nur eine - mit Geld aus Malaysia - wieder aufgebaut. Selbst der Hügel über der Stadt ist nicht mehr derselbe wie früher. Neben der mittelalterlichen Burg, von deren Zinnen aus der Sage nach die Witwe eines serbischen Grafen jeden Morgen einen erschöpften Mann, den sie sich ins Schlafgemach hatte bringen lassen, in den Tod stieß, steht jetzt ein hohes Eisenkreuz. Es wurde nach der Eroberung der Stadt im Juli 1995 in die Erde gerammt. Das Signal war klar: Hier ist christliche, das heißt serbische Erde.
Trotzdem ist der amtierende Bürgermeister von Srebrenica ein Muslim. Obwohl in der Gemeinde, zu der neben der Stadt noch ein Dutzend Dörfer gehören, dreimal mehr Serben als Muslime leben und obwohl so gut wie alle Einwohner Parteien ihrer Ethnie gewählt haben. Das verdankt er einer Besonderheit des bosnischen Wahlrechts. Danach konnten Flüchtlinge auch in ihrem ursprünglichen Wohnort wählen. So wurde Abdurahman Malkić, ein smarter Mittdreißiger, mit den Stimmen der vertriebenen Muslime Bürgermeister von Srebrenica. Aber es ist ein leerer Titel. Die Mehrheit der Einwohner straft ihn mit Missachtung. Er ist Muslim, also nicht ihr Bürgermeister.
Als Soldat der muslimischen Armee hatte er die Enklave gegen die serbischen Angreifer verteidigt. Zweimal wurde er verwundet. Als Srebrenica fiel, wollte er sich, wie so viele Soldaten, durch die Berge und Wälder nach Tuzla durchschlagen. Er schaffte es nicht. So flüchtete er nach Serbien. Die Serben aber lieferten ihn an die bosnische Serbenrepublik aus. Zum Glück gelang es ihm, sich vom Internationalen Roten Kreuz registrieren zu lassen. Sonst hätte er wohl das Schicksal seines Vaters geteilt. Der wurde aus Potocari abgeführt und erschossen.
»Wir müssen über die Vergangenheit reden«, sagt Malkić. Er hat seinen Wahlkampf mit dem Slogan »Idemo dalje« , »Lasst uns nach vorne schauen«, bestritten. Aber jetzt fordert er: »Die Verantwortlichen müssen bestraft werden, es gibt keine Kollektivschuld eines Volkes, sondern Individuen, die Verbrechen begangen haben.« Doch es will in Srebrenica kaum jemand über das reden, was geschehen ist. Die Muslime nicht, weil die Wunden noch schmerzen oder weil sie immer wieder die Erfahrung machen, dass ihr Leid hier niemanden interessiert. Die Serben nicht, weil sie gern verdrängen und zuerst ihr eigenes Schicksal sehen. Mussten nicht auch sie ihre Dörfer verlassen? Und gab es nicht auch unter den Serben Tote? »Mit dem Massaker haben wir nun wirklich nichts zu tun gehabt«, heißt es immer wieder, »wir wussten ja nicht einmal davon, wir waren ja damals gar nicht hier.«
Vor dem Krieg waren 2.000 Bergleute in den Minen beschäftigt, heute sind es nur noch 350. In der Drina, der Holzverarbeitungsfabrik der Stadt, fanden vor dem Krieg 617 Personen Arbeit, heute sind es 53. Und das Kurbad Crni Guber mit seinen 48 Heilwasserquellen, das 1980 noch 25.577 Übernachtungen verbuchte, ist eine Ruine. Im Hotel Donavia, einst ein Prunkstück der Stadt, nächtigen keine Kurgäste mehr, sondern serbische Flüchtlinge, die die Häuser verlassen mussten, als die rechtmäßigen muslimischen Besitzer zurückkehrten.
Zum Beispiel Marko Ilić. Auf dem Tisch seines Zimmers steht neben zwei übervollen Aschenbechern eine Zweiliterflasche aus Plastik. Da steht zwar »Pivo«, Bier, drauf, aber es riecht nach Pflaumenschnaps. Nasse Wäsche hängt an einer Leine, die vom Fensterkreuz quer durch das Zimmer zum Kleiderschrank führt. Auf dem Boden steht ein Kaminstein, an dem, ungesichert, zwei elektrische Kupferkabel enden: eine primitive Heizung für kalte Wintertage. Als Soldat weiß man sich schließlich zu helfen. Und Ilić hat viele Kriege geführt. In der Truppe des radikalen Serbenführers Vojislav Šešelj, der in Den Haag wegen Kriegsverbrechen angeklagt ist, kämpfte er bei Vukovar gegen die Kroaten. Später stand er mit montenegrinischen Verbänden vor Dubrovnik, und bei Srebrenica ging es dann gegen die »Türken«, wie er die Muslime nennt.
Doch er kann die vielen Schlachten nicht mehr klar ordnen. Schließlich steckt noch immer eine Kugel in seinem Kopf. Von einem serbischen Polizisten, wie er sagt. Eine Operation konnte er sich nicht leisten. Ein Dokument bescheinigt ihm eine 80-prozentige Arbeitsunfähigkeit wegen epileptischer Anfälle. Über das serbische Volk ist Ilić verbittert. Den Schnaps trinkt er lieber zusammen mit den »Türken«. Um seinen Hals aber baumelt eine Medaille. Das »Kreuz für die ehrenvolle Freiheit«, das ihn als guten Kämpfer ausweist, habe er 1993 persönlich von Mladić und Karadžić erhalten, behauptet er. General Ratko Mladić, Generalstabschef der Armee der bosnischen Serben, hat das Massaker von Srebrenica geleitet. Der Psychiater Radovan Karadžić, Parteichef der radikal-nationalistischen SDS, war damals Präsident der bosnischen Serbenrepublik. Beide werden seit Jahren wegen Kriegsverbrechen, Verbrechen gegen die Menschlichkeit und Völkermord vom Haager Tribunal gesucht.
Später treffen wir Ilić im Parteilokal dieser SDS an. Sie hat in der Stadt bei den letzten Wahlen fast ein Drittel der serbischen Stimmen gewonnen. Das Lokal ist schmucklos und düster. Man trinkt Bier. Die Haltung der anwesenden Parteigänger Karadžićs ist offen feindselig. Miloš Milovanović, der für die SDS im Gemeinderat sitzt und beim Ausbruch des Krieges die Serbische Garde, eine paramilitärische Einheit, angeführt hat, spricht nicht mit uns. Ebenso wenig Dragan Zekić, der örtliche Parteichef, der ein Bataillon der Brigade angeführt hat, die Srebrenica eingenommen hat.
Srebrenica ist eine elend heruntergekommene Stadt. Vor allem alte Serben sind geblieben und alte Muslime zurückgekehrt. Sie leben von der Rente, von umgerechnet monatlich 40 Euro die Serben, die von der bosnischen Serbenrepublik bezahlt werden, von 70 Euro die Muslime, die sich das Geld in Tuzla, in der Bosniakisch-Kroatischen Föderation, abholen. Auch Begić, der einzige Metzger des Dorfes, bekommt die Armut zu spüren. Am Anfang hatte er fast nur muslimische Kunden. Inzwischen sind es mehr Serben, obwohl er noch immer kein Schweinefleisch anbietet. »Selbst Kriegsverbrechern verkaufe ich«, sagt Begic.
Tanja und Kosa nehmen beim Metzger Tanzunterricht. Beide stehen kurz vor dem Abitur. Beide wollen Journalistinnen werden. »Zu den Muslimen unserer Klassen haben wir ein normales Verhältnis«, sagt Tanja, »aber über das Massaker reden wir nicht.« Es sei eben ein unangenehmes Thema, erklärt Kosa, und für die Muslime sei es schmerzlich. »Wir wissen ja nicht viel darüber, eigentlich interessiert es uns nicht«, gesteht sie und redet für beide. Ob sie sich vorstellen könnten, einen Muslim zu heiraten? Die Antwort kommt aus zwei Mündern gleichzeitig: »Nein.« Weshalb nicht? Die beiden schauen sich etwas verlegen an. »Die sind eben anders«, entscheidet sich Tanja. »Die haben eine andere Religion«, meint Kosa. »Und wenn du dich in einen Muslim verliebst?« - »Na ja, verlieben kann man sich ja«, räumt sie schließlich ein, »aber heiraten? Nein.«
Zwei haben das Unerhörte gewagt. Vor langer Zeit. Amira und Miloš Marković sind das einzige muslimisch-serbische Ehepaar in ganz Srebrenica. Doch sie haben vor dem Krieg geheiratet - nur beim Standesamt, weder in der Kirche noch in der Moschee. Das war 1977. »Wir haben uns als Jugoslawen verstanden«, sagt Amira, die im Stadtzentrum einen Friseursalon besitzt, »die Probleme kamen ja erst auf, als sich die nationalistischen Parteien bildeten.« Kurz vor Kriegsausbruch sind die beiden nach Serbien geflüchtet. Dort haben sie sich mit verschiedenen Jobs durchgeschlagen. Miloš musste sich zudem vor der Polizei verstecken, die ihn für den Krieg rekrutieren wollte. Im Jahr 2000 kamen sie nach Srebrenica zurück. Eine Hilfsorganisation gab Amira einen Kredit für den Friseursalon, um der Familie einen Neustart zu ermöglichen.
»Wenn die Jugendlichen die Stadt verlassen, ist sie wirklich bald tot«

Die Arbeit macht vor allem ihre Tochter Diana, die im Exil eine Lehre als Friseurin absolviert hat. Ob sie sich als Muslimin oder Serbin fühlt? Die 24-Jährige lacht. »Ich habe weder die Bibel noch den Koran gelesen«, bekennt sie, »mein Freund ist Muslim, und mein Bruder geht mit einer Serbin.« Ihr ist das alles schnurzegal. Hauptsache, sie kommt eines Tages weg aus dieser öden, langweiligen Stadt. Auch Miloš, ihr Vater, will weg. Hier findet er keine Stelle. Die Arbeitslosigkeit beträgt 80 Prozent. Sechs Monate lang hat er im zehn Kilometer entfernten Bratunaćbei einem Fleischer gearbeitet. Schwarz. Nur einen Monat hat man ihm ausbezahlt. Dann ist er gegangen. Nun will er weg. Aber wohin? »Srebrenica ist eine tote Stadt«, sagt er.
Tot. Langweilig. Öde. Nichts los in Srebrenica. Man hört es immer wieder. Eine Gruppe von zehn Studentinnen und Studenten hat sich mit dem Schicksal, das der Stadt beschieden scheint, nicht abgefunden. Wochenlang haben sie den Schutt einer Ruine weggeräumt. Es war das alte Kino, von Granaten zerstört, abgebrannt bis auf die Grundmauern. Anderthalb Jahre lang haben sie mit dem Gemeinderat und dem Bürgermeister verhandelt. Schließlich hat die Gemeinde eine Baufirma beauftragt, das Gebäude wieder instand zu setzen. Nun wird hier ein Jugendzentrum eröffnet - mit einem Saal für Theater und Konzerte, mit einem Internet-Café‚ und einem Tourismusbüro. Die Gruppe hat Nutzungsrechte für 15 Jahre ausgehandelt. Alle werden sie hier arbeiten. Zehn Arbeitslose weniger.
Aco Perendić ist der Anführer der Gruppe. Der 27-Jährige leitet ein kleines Theater, das gerade von einer Tournee durch Kroatien, Serbien und Mazedonien nach Bosnien zurückgekommen ist. Er hat auch ein eigenes Drama verfasst. Es trägt den Titel »Fortschreitender Zerfall« und handelt von Menschen, die zu Robotern werden. Roboter, die auf Knopfdruck gedankenlos Befehle ausführen, sind das beste Kanonenfutter. »Wir wollen nicht in den Krieg ziehen«, heißt es auf Perendićs T-Shirt, »wir wollen reisen.« Bei der Eröffnung des Jugendzentrums tritt der Theatermann ans Mikrofon und zitiert Albert Einstein: »Ich weiß nicht, welche Waffen im nächsten Krieg zur Anwendung kommen, wohl aber, welche im übernächsten: Pfeil und Bogen.« Nationalistische Verblendung und Hass haben die Balkankriege geprägt. »Wir müssen Toleranz lernen«, sagt Perendić, dem die Gnade der späten Geburt eine Rekrutierung erspart hatte.
Religion und ethnische Zugehörigkeit spielen in der Gruppe der Fernstudenten, die den Bau des Jugendzentrums durchgesetzt haben, keine Rolle. »Wir sind sechseinhalb Serben und dreieinhalb Muslime«, rechnet Perendić durch und grinst. Die beiden Hälften zusammen sind Dejan. Er ist Sohn des muslimisch-serbischen Ehepaars Amira und Milos Miloš Marković. »Manche Leute behaupten, Srebrenica habe keine Zukunft, es sei eine tote Stadt«, sagt der Student, »da bin ich anderer Meinung, wir müssen uns eben um eine bessere Zukunft bemühen. Wenn die Jugendlichen die Stadt verlassen, dann wird sie tatsächlich bald eine tote Stadt sein.« Er wünscht sich, einen Job zu finden, eine Familie zu gründen und in Srebrenica eine Zukunft zu haben.
Auch Begić, der Metzger und Tanzlehrer, will sich nicht damit abfinden, dass Srebrenica stirbt. Übers Internet hat er ein Motorradtreffen in Srebrenica organisiert. Über hundert Biker aus ganz Bosnien donnern auf schweren Maschinen heran. Begić hat seine Yamaha aus der Garage geholt und seine Lederklamotten mit dem Schriftzug »Harley Davidson« angezogen. Am Abend lassen die Biker dann Kinder auf dem Sozius Platz nehmen, kurven auf dem Schulhof herum und machen mit ihrem Krach den Rockgruppen aus Kroatien, Serbien und den Niederlanden Konkurrenz, deren Musik aus riesigen Lautsprecherboxen ins Tal hämmert. Hunderte Jugendliche - die Mädchen bauchfrei, die Jungen in Hiphop-Hosen - tanzen zur Musik. Alles tobt. Srebrenica lebt. Bis plötzlich der Strom ausfällt. Beweisen kann es niemand, aber alle halten es für Sabotage. Bestimmt haben die unten in Bratunaćden Strom abgestellt. Genauso war es ja auch beim letzten Konzert vor einem Jahr. Srebrenica soll sterben, Srebrenica, wo wieder über 400 Muslime leben, der einzige Ort der bosnischen Serbenrepublik mit einem muslimischen Bürgermeister. Nein, an einen Zufall glaubt hier niemand. Man behilft sich mit einem Generator. Um fünf Uhr früh ist die Fete zu Ende.
Unten in Potocari, sechs Kilometer von Srebrenica entfernt, gegenüber der alten stillgelegten Batteriefabrik, wo einst die holländischen Blauhelme ihr Hauptquartier hatten, ist der große Friedhof. 1.327 Gräber in Reih und Glied, wie auf einem Soldatenfriedhof. Doch nicht Kreuze stehen über den Gräbern, sondern grüne Holzstelen, und sie tragen alle dieselbe Inschrift: »Juli 1995«. Später, wenn sich die Erde dann gesenkt hat, wird man sie durch weiße Steine ersetzen. Am 11. Juli, am zehnten Jahrestag des Falls von Srebrenica, werden noch einmal über 500 Opfer des Massakers hier begraben werden. 30.000 Trauergäste werden erwartet. Aber noch herrscht Ruhe in Potocari.
Eine alte Frau kommt die Straße herunter, in einer dimje , der traditionellen Pluderhose der Musliminnen, einen selbst gepflückten Blumenstrauß in der Hand. »Alle Ehre den Vätern«, sagt sie, »aber Mutters Schmerz ist der größte. Ich habe sie alle großgezogen, ausbilden lassen und ihnen die Hochzeit finanziert. Meine Söhne waren Schreinermeister, während des Krieges haben sie Beinprothesen hergestellt ...« Ihre Stimme erstickt. Einer ihrer Söhne wird noch immer vermisst, wie auch weitere sechs Verwandte. Sie begibt sich zur Gruppe der Witwen, die am Eingang des Friedhofs steht.
Plötzlich kommen die Biker angedonnert, manch einer mit Braut auf dem Sozius, und stören die Totenruhe. Auch Ahmo Begić, der Tanzlehrer und Metzger, ist unter ihnen. Die Witwen drücken sich an die Mauer. Die Biker parken ihre Maschinen, setzen den Helm ab, gehen breiten Schrittes auf die Witwen zu und überbringen ihnen Geschenke. Wortlos. Dann setzen sie sich wieder auf ihre Motorräder und brausen davon. Der Lärm ebbt ab. Die alte Frau mit dem Blumenstrauß winkt den Bikern mit einer kaum wahrnehmbaren Handbewegung hinterher. In Srebrenica kehrt wieder Ruhe ein. Die Stadt fällt wieder in ihre Depression zurück.
(c) DIE ZEIT 07.07.2005 Nr.28
28/2005



Lunedì, 28 gennaio 2008