Il sogno e la promessa di Barack Obama

di Paolo Naso

A quarant’anni dagli omicidi di Martin Luther King e di Robert Kennedy gli Stati Uniti hanno votato per “l’audacia della speranza” di un giovane avvocato di colore, figlio di un immigrato kenyota, studente modello che si è sudato borse di studio che gli hanno aperto le porte dell’esclusivo college di Harvard e lo hanno avviato a una brillante carriera a Chicago.
Oggi il “sogno americano” appare meno retorico di come l’abbiamo visto raccontato e celebrato negli ultimi anni, quelli di un’America più impaurita e chiusa in se stessa, unilaterale nelle relazioni internazionali e proiettata sulle strategie militari più che nell’esercizio di quel ruolo di equilibrio e moderazione che si imporrebbe ad una superpotenza. L’America che esce dalle urne sembra riconoscersi nelle parole chiave che Barack Obama ha utilizzato in questa lunghissima campagna elettorale: sogno, speranza, promessa. Parole impegnative che hanno una connotazione anche etica e spirituale, del tutto coerente con la tradizione e la retorica politica americana, dai discorsi di Martin Luther King alla Dichiarazione d’indipendenza (“tutti gli uomini sono creati uguali e sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca delle Felicità...”).
In questa prospettiva l’elezione alla Casa Bianca di Barack Obama, un protestante attivo nella Chiesa Unita di Cristo (United Church of Christ), segna anche una svolta negli equilibri politico religiosi degli USA.
Con la mesta uscita di scena di George W. Bush, si relativizza il ruolo politico di quella destra religiosa che lo ha sostenuto e ha orientato più di una scelta della Casa Bianca. Negli ultimi anni abbiamo visto l’escalation aggressiva di telepredicatori che hanno attribuito l’11 settembre alla vendetta di Dio contro la secolarizzazione americana, alle leggi che permettono l’aborto o tutelano i diritti di gay e lesbiche; sono stati anche gli anni di fibrillazioni profetiche nei quali più di qualche pastore “fondamentalista” ha predicato un imminente scontro apocalittico che avrebbe contrapposto il mondo ebraico cristiano a quello islamico, sino al ritorno del Messia e a una universale conversione a lui. Personaggi così tracotanti e radicali, godendo del favore dell’establishment, hanno alterato la percezione del mondo protestante e persino di quello evangelical, negli USA ma soprattutto nel resto del mondo. “Evangelical” è diventato quasi sinonimo di un orientamento politico necessariamente conservatore e militarista, di una destra religiosa recepita come un nuovo soggetto politico sulla scena americana.
Tra i grandi meriti di John McCain vi è stato il tentativo di sottrarsi a questa pesante ipoteca confessionalistica che alcuni settori del Partito repubblicano volevano imporre sulla sua strategia; il suo errore, del quale deve essersi reso conto molto presto, è stata la nomina di Sarah Palin. Doveva attirare il voto della destra religiosa ma ha finito per alienare al Grand Old Party repubblicano quello degli evangelical moderati, una grande maggioranza di credenti “nati di nuovo” stanchi di essere identificati con una parte politica e con la sua piattaforma più conservatrice.
E’ prevedibile che Barack Obama, con la sua spiritualità riformata, le sue frequentazioni ecclesiastiche e la sua cultura giuridica, avvierà un dialogo e un confronto tanto con queste componenti del mondo evangelical che con le denominazioni storiche del protestantesimo americano: metodisti, presbiteriani, luterani, episcopaliani (comunione anglicana). Diversamente da altri democrats, infatti, il nuovo presidente è convinto che le comunità di fede costituiscano una risorsa per la comunità civile ma al tempo stesso è ben consapevole della solidità giuridica e costituzionale di quel separatismo tra lo Stato e le confessioni religiose che costituisce un tratto specifico della democrazia americana. Con Obama alla casa Bianca il protestantesimo storico ritrova un osservatore e un interlocutore attento sui temi della giustizia sociale, della pace, della salvaguardia del creato. E’ ovvio che sarebbe semplicistico e ingenuo aspettarsi un idillio ma è legittimo aspettarsi che il nuovo presidente sarà più attento del suo predecessore alle idee, agli stimoli ed alle provocazioni di strutture come il Consiglio nazionale delle chiese degli Stati Uniti, la voce più forte ed autorevole del protestantesimo di matrice liberal.
In questo mutato scenario resta da capire come si comporterà la Chiesa cattolica: negli ultimi mesi i vescovi USA hanno ripetutamente affermato di non poter sostenere un presidente e un vice come il cattolico Joe Biden che difendono la legislazione vigente in materia d’aborto. Qualcuno - il vescovo di Kansas City, Robert Finn - si è spinto fino a minacciare le fiamme dell’inferno per chi avesse votato per il partito democratico.
Ma questi sono i problemi di domani. Il tema, oggi, è quello di una grande svolta politica che fa spazio alla speranza e il sogno americano oggi diventano, nelle parole di Barack Obama, la “promessa americana”: quella di una comunità convinta di essere “responsabile di se stessa, che sorgerà o cadrà come nazione... in cui ciascuno è convinto di essere il guardiano del proprio fratello, il guardiano della propria sorella… E’ questo spirito americano - così concludeva nel suo discorso di accettazione della nomination il nuovo presidente degli USA - la promessa americana, che ci spinge avanti anche quando il sentiero è incerto, che ci lega insieme nonostante le nostre differenze, che ci fa fissare i nostri occhi non su quello che si vede ma su quello che non si vede…Manteniamo questa promessa, la promessa americana, e con le parole della Scrittura - con fermezza e senza ondeggiare teniamo fede alla speranza che noi confessiamo”. Sembra la conclusione di un sermone, vuole essere l’inizio di un programma politico. (NEV-Notizie Evangeliche 45/08)




Martedì, 11 novembre 2008