ANGOLA

di (Giampaolo Visetti - La Repubblica 28 marzo 2008)

Le tendopoli dei cinesi nuotano nel fango ros­so. Lottano invano contro la polvere e lo smog, emergendo a
tratti da nuvole nere e roventi. Sorgono ovunque, tra montagne di cemento, mattoni e asfalto, circondate da sciami di scurissime prostitute-bambine, seguendo cantieri immensi. Stra­de, ferrovie, ponti, stadi, alberghi, ospedali, grattacieli, si fanno largo tra discariche fetide, baracche di lamiera, fiumi di auto e campi mi­nati. Ospitano due milioni di de­portati da Beijing, pronti a raddoppiare entro il 2010. Tra i galeotti conflitti, migliaia di detenuti politici: professori, avvocati, medici, eco­nomisti, venduti come schiavi alla «tigre dell’Africa».
Sveglia prima dell’alba, zuppa alle 23. Nessun giorno di riposo. Dopo 27 anni di guerra civile, è sul­lo scandalo dei forzati dell’Oriente che si fonda il boom della nuova terra promessa del continente. Nella fradicia Luanda i gelidi uffici dei signori del petrolio e dei dia­manti restano affacciati sulle sconvolte vie coloniali intitolate a Che Guevara, Lenin, Marx, Castro. La fine della Guerra Fredda ha però ripudiato comunismo, ideali rivo­luzionari, opposizione a capitali­smo e imperialismo dell’Occiden­te. Gli eroi dell’indipendenza oggi vivono solo per gli affari e per i dollari. L’Angola dei record è il paradiso del liberismo senza vincoli e senza pietà.
Osservata dall’Europa, appare come l’isolato esempio dell’Africa di successo. Dal 2002 è in pace. La crescita economica sfiora il 25% all’anno. Nel 2003 l’inflazione era al 98%, oggi sotto il dieci. Il kwanza continua a rafforzarsi su dollaro ed euro. Il presidente Josè Eduardo Dos Santos, al potere da trent’an­ni, con un assegno da 2,4 miliardi di dollari ha rimborsato il Club di Parigi. E’ ormai la seconda poten­za petrolifera dell’Africa, esor­diente nell’Opec. Da 800 mila bari­li al giorno si è schizzati a 2 milioni. Fra tre anni toccherà i 2,5 milioni. Nelle casse della Sonangol, la com­pagnia energetica di stato, l’anno scorso sono piovuti 35 miliardi di dollari da Usa, Cina e Francia.
L’Endiama è il quarto produtto­re mondiale di diamanti: dieci mi­lioni di carati avvolti nel mistero, che decollano verso Russia, Israe­le, Canada e Sudafrica. I cinesi, per assicurarsi gli appalti della rico­struzione, hanno offerto un credi­to-choc da 9 miliardi di dollari, 20 entro il 2013. Tra due anni il Paese ospiterà i campionati africani di calcio. Si stanno asfaltando 8 mila chilometri di strade, altri 3 mila sa­ranno aperti prima del 2012. Per rilanciare l’agricoltura il governo ha ordinato 9 mila trattori. I piani pre­vedono la creazione di otto città da mezzo milione di abitanti, 32 nuo­vi aeroporti, 3 grandi direttrici fer­roviarie, sei porti sull’Atlantico.
Luanda, città più cara al mondo, ambisce a diventare la Dubai afri­cana. Ditte olandesi stanno col­mando la baia di sabbia. Oltre il vecchio lungomare portoghese sorgeranno 21 hotel di lusso, cen­tri commerciali, palazzi di vetro e il grattacielo più alto dell’Africa. In pochi anni la città è esplosa da 800 mila a 6 milioni di residenti ufficiali. Gli affitti, per cento metri quadri, arrivano a 10 mila euro al mese. Per una casetta con giardino si pagano 30 mila euro mensili, lo stipendio di un manager. Gli alberghi accet­tano prenotazioni solo con due mesi di anticipo. Le compagnie petrolifere riservano piani interi per tutto l’anno. La circolazione, tra le 6e le 23, si blocca.
Migliaia di fuoristrada e pick­up giapponesi sostano in colonna con il clacson premuto. Le vie si trasformano in spaventosi mer­cati ambulanti. Gli automobilisti fanno la spesa dal finestrino, mangiano al volante, lavorano al computer, organizzano riunioni di lavoro sui sedili, firmano con­tratti sul cofano. Per coprire una distanza da cinque minuti, si im­piegano cinque ore.
Arrostire in auto è il prezzo del successo: constatare di pagarlo in massa, la sua garanzia. Sessantamila furgoni privati ammassano milioni di persone in abitacoli asfissianti. Il porto, semiabban­donato fino al 2002, è assediato da centinaia di navi in attesa di scari­care. Per sdoganare un container occorrono sei mesi. L’aeroporto, decrepito, ogni mese inaugura collegamenti diretti e l’arrivo di nuove compagnie. Da aprile si vo­lerà quotidianamente su Beijing, un volo di sola business porterà a Chicago. Nel nuovo scalo aprirà i suoi uffici la Lufthansa.
Scrutata attraverso i rapporti internazionali, l’Angola si rivela come la seconda economia sub­sahariana, primatista mondiale di crescita e potenza energetica strategica, capace di determinare i prossimi equilibri planetari. Il sorpasso del Sudafrica non è più un’utopia. L’atmosfera è sovraec­citata e pionieristica. Una freneti­ca e violenta corsa all’oro. Grazie ad un incontro si possono accu­mulare, o perdere, fortune in pochi mesi: a sgomitare, un tacitur­no esercito di predatori, di preda­ti e di opportunisti.
Questa, un’Africa all’americana al guinzaglio della Cina, è però so­lo una faccia del Paese: il profilo meno impresentabile, creato dal mondo che si contende il dominio delle materie prime più lontane dai fronti delle guerre.
Tutto il resto, la realtà più profonda, è invece l’Angola all’a­fricana, nelle mani di una dittatu­ra corrotta e venduta al miglior of­ferente. Perché se da una parte ci sono il petrolio dell’enclave diCa­binda e i diamanti del Lunda e del Moxico, d’altra ci sono i bambini di strada della capitale e i morti di fame delle province. Sul primo pianeta spreca l’l% della popola­zione: i miliardari. Sul secondo sopravvive il 99%: i nullatenenti. Basta lasciare gli eliporti azienda­li di Luanda, o spingersi nelle re­gioni dell’interno, per capire co­me la «pax energetica» abbia sconfitto il popolo angolano, escluso dallo sviluppo. In barac­copoli e villaggi mancano luce, acqua, strade, fogne.
Non ci sono ospedali, scuole, la­voro. La gente, eccetto la radio go­vernativa, non accede ad alcuna informazione. Le donne lavano nei fiumi, arano e zappano a ma­no, cucinano su falò a legna. Non circola denaro. Sì scambiano pro­dotti, frutto di primitive coltiva­zioni di sussistenza. L’Angola era il primo produttore di caffè, varietà robusta, del continente: non ne cresce più una pianta. Ci si sposta a piedi. Su 16 milioni di abitanti, 14 sono in miseria. La disoccupazio­ne è del 55%. Gli analfabeti supera­no il 70%. I medici sono 1400, uno ogni l5mila persone. Sei donne su 10 non sopravvivono al parto.
Su mille bambini, 275 muoiono prima dei 5 anni. Ufficialmente so­lo il 3% della popolazione è siero-positiva: le indagini delle Ong stra­niere alzano la percentuale al 10. Solo lo Stato, in cambio della fe­deltà al potere, offre lavoro: 100 dollari al mese, spesso non pagati. La disperazione si trasforma in al­col e droga, in una violenza dispe­rata. Nelle case si nascondono an­cora oltre 10 milioni di mitra e fu­cili. Quattordici milioni di mine e ordigni inesplosi, migliaia di vitti­me all’anno, dissuadono chi vor­rebbe tornare in campagna. La corruzione è la sola organizzazio­ne funzionante. La «gazosa», si pa­ga per tutto. Per ottenere il chini­no, o un diploma, o aggiudicarsi un appalto. Una miliardaria truffa di regime. E’ così che la massa dei po­veri viene strangolata e che l’oli­garchia al potere si consolida.
La spartizione delle incalcolabi­li ricchezze nazionali, tra non più di 120 famiglie, è stata siglata nel 2002. Jonas Savimbi, capo dell’U­nita, è stato assassinato grazie ad un accordo con l’Mpla di Dos San­tos. Il leader dell’opposizione na­zionalista, prima sostenuto e poi tradito degli Usa, fu venduto agli ex rivoluzionari pagati dall’Urss, adottati infine, liberisti, dagli Stati Uniti. Oggi l’Mpla è maggioranza e governa assieme alla minoranza dell’Unita. In realtà un potere fa­miliare occulto, mascherato e ga­rantito da Dos Santos, muove ogni filo tramite un partito-Stato. I poli­tici continuano a vendere le mate­rie prime, i militari i diamanti: co­me sempre dopo l’indipendenza del 1975, o dopo la riesplosione del conflitto civile, nel 1992. La diffe­renza è che non si spara più e che gli investimenti stranieri sono ras­sicurati dalla stabilità del potere. La ricostruzione del Paese non esprime un progetto politico, un’i­dea di società: agganciata al prez­zo del petrolio, è ritmata dagli affa­ri privati della nomenclatura pub­blica. La famiglia presidenziale controlla edilizia, commercio, te­lecomunicazioni e credito. I clan degli ex-generali e dell’esercito, at­traverso il florido mercato delle ar­mi, impiegano i proventi dei dia­manti in agricoltura, pesca, tra­sporti e industria. Nelle province capita raramente di imbattersi in qualcosa che stia in piedi. Quando accade, un birrificio, una coltiva­zione di banane, una piccola flotta fluviale, o un allevamento di vac­che da latte, la gente abbassa occhi e voce: «E’ del generale».
Gli sconfitti dalla pace sono troppo poveri, troppo stanchi, per accettare la responsabilità di ri­vendicare dei diritti. Ai primi di settembre, per la prima volta nella sua storia, l’Angola andrà alle urne senza che fuori dai seggi si com­batta. Il Paese, oppresso dall’in­giustizia, è carico di odio.
Qualche osservatore prevede un’esplosione sociale che dai ghetti di Luanda dilaghi nelle cam­pagne. Potere e uomini d’affari ostentano invece sicurezza: nulla, a breve, cambierà. Le Ong attive nell’affermazione dei diritti uma­ni sono state chiuse. Televisione, giornali e università sono nelle mani del governo. La propaganda presidenziale è martellante. L’op­posizione, o una leadership alter­nativa, non esistono. Le potenze straniere che si dividono i tesori angolani non possono permetter­si instabilità sui mercati africani delle materie prime. Il potere può ignorare la sofferenza della gente. Per questo, a parte l’eroica chiesa missionaria e qualche eccezionale realtà del crescente volontariato laico, nessuno chiederà giustizia.
Nessuno vuol guardare lo scanda­lo dei prigionieri politici cinesi, usati come schiavi nei cantieri.
Nessuno lavora per fare in mo­do che quattro milioni di essi, de­portati in cambio di petrolio in un Paese di 16 milioni di angolani, non travolgano una cultura ine­spressa e le sopite identità tribali. Davanti al nuovo grattacielo della Sonangol, eldorado dei busines­smen impegnati a svuotare la cas­sa africana il più rapidamente possibile, i poveri del barrio di Ro­que Santeiro, o le migliaia di mise­rabili stesi tra i rifiuti di Lixeira, non esistono. Come i rifugiati di guerra. Sono migliaia.
Ammassati nei campi profughi, alla periferia di Luanda o lungo i confini, erano sopravvissuti grazie agli alimenti del Wfp. Presi in cari­ca dal governo, sono stati abban­donati. E’ un’emergenza umanita­ria denunciata invano dalla solidarietà internazionale. Il prologo di una tragedia ancora più devastan­te: la guerra per la terra.
Sei anni fa l’Occidente si è ricor­dato che l’Angola è anche un paradiso della natura. La terra è fertile e spesso vergine, il clima ottimo, l’acqua abbandonante. Con i cine­si impegnati nella costruzione di strade, ferrovie e porti, il latifondi­smo torna ad attrarre gli investi­menti occidentali. C’è un solo pro­blema: le popolazioni indigene da cacciare. Un affare da generali.
Dichiarano i villaggi «campi profughi» e li chiudono. Inviano l’esercito a sgomberare baracche e terreni. Requisite le campagne, si intestano migliaia di ettari. Poi assegnano a se stessi macchinari, canali irrigui, sementi pagati dal­lo Stato. Vendono infine tutto ai compiacenti stranieri. Un noto ambasciatore in Europa, ex go­vernatore di un’importante città, è stato uno spietato specialista della materia. In pochi anni ha deportato migliaia di contadini. Miliardario, in un’antica capita­le, studia il meccanismo dell’im­munità parlamentare per conto del presidente.
Una storia condivisa dell’Ango­la non è stata scritta, nessun crimi­ne di guerra è stato perseguito, la violenza viene premiata con il po­tere: meglio proteggersi, se mai qualcuno ricordasse le promesse e le speranze di un tempo.
Zia Nanda, malata di cancro e madre di sei figli, anima e àncora di salvezza per i diseredati di Luanda, non sa dire cos’è diventato il suo Paese. Non lo dice nemmeno Car­los Fernandes, usuraio durante la guerra civile, oggi finanziere di successo a Lubango. Si sfiorano su galassie ermetiche, però concor­dano. I ricchi stanno diventando ricchissimi. I poveri, poverissimi. Pochi clan neri, insaziabili, sven­dono la patria: ma ai tavoli elegan­ti di «Pintòs» siedono solo i bian­chi. Gli educati dollari hanno sosti­tuito i volgari proiettili. La coloniz­zazione si chiama ricostruzione. La corruzione, sviluppo. Nell’An­gola del boom l’annientamento di un popolo non dà più scandalo.



Domenica, 30 marzo 2008