Nona DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO-B – 31 maggio 2009 –
SOLENNITÀ DI PENTECOSTE
a cura di Paolo Farinella
* DOMENICA 9a DEL TEMPO ORDINARIO-B[1]
– 31 maggio 2009 –
SOLENNITÀ DI PENTECOSTE
Introduzione
Pentecoste è parola greca, pentēkostês/pentêkonta che alla lettera significa «cinquantesimo giorno». Nella liturgia cristiana è la seconda solennità più importante dell’anno, dopo la Pasqua, di cui chiude il ciclo: i cinquanta giorni, infatti, si contano a partire da Pasqua. Come il numero «40» nella Bibbia è il numero dell’attesa e della preparazione[2], la «cinquantina» che intercorre tra la Pasqua e Pentecoste è il tempo della formazione, il tempo cioè in cui Gesù risorto familiarizza con i suoi discepoli nel suo nuovo stato: essi non possono più vederlo fisicamente, ma ne sperimentano la presenza e Gesù li istruisce sulla missione che li aspetta. Tutto di svolge nel segno del «Paràclito» che è il personaggio nuovo del dopo Pasqua. Di questo personaggio parleremo nell’omelia. Gesù risorto è libero dal condizionamento del tempo, dello spazio e della vista e ora vive e agisce attraverso il suo Spirito che lascia agli apostoli come sua eredità, guida e compimento. Il «Paràclito» è lo Spirito di Gesù risorto, quello che egli «consegnò» simbolicamente a tutta l’umanità attraverso la Madre (una donna) e il discepolo che egli amava (un uomo) ai piedi della croce (cf Gv 19,30).
Pentecoste quindi costituisce l’ultimo dei cinque momenti liturgici che concorrono a formare il «mistero pasquale»: Passione, Morte, Risurrezione, Ascensione e Pentecoste che è pertanto il sigillo finale e completivo della vita terrena di Gesù, formando un ponte tra Gesù Cristo e la comunità dei credenti che continuano il pellegrinaggio terreno. Pentecoste ci dice che non è più possibile l’esperienza storica di Gesù, ma da ora ogni relazione con Dio e anche con Gesù passa attraverso la mediazione del «Paràclito». A Pentecoste inizia l’avventura della fede, come «luogo della relazione con Dio». Pentecoste conclude le celebrazioni di Pasqua, di cui è parte integrante e necessaria: a Pasqua, Dio interviene di sua iniziativa, senza il concorso d’Israele e concede la libertà dalla schiavitù d’Egitto: «Il Signore disse [a Mosè]: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido … conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso”» (Es 3,7-8). A Pentecoste, ai piedi del monte Sinai, Israele prende coscienza di sé come popolo liberato e accoglie il dono della Toràh/Legge che lo educherà alla libertà come compito missionario: «Quello che il Signore ha detto noi faremo e ubbidiremo» (Es 24,7)[3]La Pentecoste cristiana è l’evento centrale dell’alleanza nuova, come la Toràh lo fu della prima, stabilendo così che non c’è una nuova alleanza, ma il compimento della prima.. A Pasqua si è liberati, a Pentecoste si sceglie di restare liberi[4]. Pasqua e Pentecoste sono intimamente connessi e l’una non può reggere senza l’altra.
Al tempo di Gesù si celebrava la festa di Shavuôt, alla lettera Le [sette] settimane[5] Nel NT, i vangeli sinottici (Mt, Mc e Lc) mantengono questo schema, mentre Gv sintetizza nella «gloria dell’ora» della morte di Gesù tutto il mistero pasquale, compresa Pentecoste che non è più la consegna della Toràh scritta e orale, ma il «dono dello Spirito Santo»: la nuova Toràh scritta nel cuore di carne di ciascun credente come aveva previsto il profeta Ezechiele (Ez 11,19-20; 36,24-27)[6]., cioè i cinquanta giorni in memoria del dono della Toràh. Ancora oggi gli Ebrei in questa festa leggono i dieci comandamenti come sintesi della Toràh e il libro di Rut perché si vi si parla di raccolto delle spighe e perché la fedeltà di Naomi a Rut richiama la fedeltà d’Israele alla Toràh. Rut è bisnonna di Davide, dal cui casato discenderà il Messia.
Nel NT, i vangeli sinottici (Mt, Mc e Lc) mantengono lo schema «cinquantenario» dentro la tradizione giudaica e Lc addirittura nel capitolo 2 degli Atti descrive la Pentecoste come una riedizione della manifestazione (Teofania) di Dio sul Sinai, da cui mutua anche lo scenario cosmico. La scenografia della Pentecoste infatti quella della manifestazione di Yhwh sul Sinai: tutta la natura partecipa con la sua potenza di tuoni, fuoco e lampi, alle nozze tra Dio e il suo popolo nel segno dell’alleanza:
Vi sono, però, molte differenze tra la teofania del Sinai e quella di Pentecoste che è bene cogliere:
Già nel sec. V a.C. il profeta aveva descritto il raduno d’Israele raccolto dalla dispersione come una nuova alleanza descritta come «questione di cuore». Si tratta di un trapianto cardiaco per sostituire le tavole di pietre che hanno resa fredda anche la Toràh con un cuore di carne che porta in sé la volontà di vivere secondo la Legge del Signore. Anche Gesù si inserirà in questa prospettiva, quando rimprovera i discepoli di Emmaus di essere «Stolti e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti» (Lc 24,25).
Sul monte Calvario, secondo Giovanni, si compie la profezia di Gioele secondo cui il Signore effonderà il suo Spirito su ogni carne (Gl 3,1) e in questa prospettiva, a differenza dei Sinottici, Giovanni pone la Pentecoste nell’«ora della Gloria», cioè nell’ora della morte e glorificazione di Gesù, dove sintetizza tutto il mistero pasquale, compresa Pentecoste che non è più la consegna della Toràh scritta e orale, ma il dono dello Spirito Santo, cioè del Paràclito. Il monte Sinai della nuova alleanza è la croce di Cristo che diventa il trono/luogo della Teofania definitiva davanti alla Storia intera, simboleggiata dalla presenza di quattro soldati romani, in rappresentanza del mondo pagano (Gv 19,24), e da quattro donne ebree, in rappresentanza del mondo credente (Gv 19,25). Da questo nuovo monte non scende più un uomo con tavole di pietra, ma vi è innalzato il Figlio dell’uomo che attira tutta l’umanità redenta (Gv 12,32) che adesso guarda a colui che è stato trafitto (Gv 19,37).
Per Gv Pentecoste accade nell’ora della morte, il punto di appoggio dell’ora della gloria: in essa si compie non solo il raduno di Israele, ma anche l’unità del genere umano. Leggiamo in Gv 19,30: « E [Gesù], chinato il capo, consegnò lo Spiritoê» a Maria e al discepolo, immagine della Chiesa nascente, l’ovile universale che raccoglie il genere umano (Gv 10,16). Consegnando il suo Spirito alla «donna e al figlio» ai piedi della croce, Gesù pone termine alla divisione consumata ai piedi della torre di Babele (Gen 11,1-9), quando l’unità della lingua si frantuma in tanti idiomi incomunicabili e dà inizio ad una nuova èra di salvezza: il giorno di Pentecoste (1a lettura) sono idealmente presenti tutti i popoli della terra conosciuti e «li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa» (At 2,8). Pentecoste capovolge la storia: con Adamo ed Eva, cacciati dall’Eden era iniziato un processo di allontanamento da Dio, ora con il dono dello Spirito inizia il processo di ritorno a Dio. Il figliol prodigo dell’umanità ha trovato la forza e la luce per riprendere la strada del ritorno all’Eden del «principio». E’ una nuova creazione. E’ il tempo della Chiesa. E’ il nostro tempo.
Oggi non celebriamo solo un evento passato, ma mentre facciamo «memoriale» di due momenti storici: l’esodo e la morte di Gesù, riviviamo e sperimentiamo questo dono perché lo Spirito Santo è presente «oggi» nella Chiesa e nel mondo ed alimenta la nostra fede, sostiene la nostra speranza, forgia la nostra libertà. Pentecoste è oggi. Per questo disponiamo i nostri sentimenti con l’inno del Veni creator, Spiritus, attribuita a Rabano Mauro, abate di Fulda in Germania (780-856). L’inno, tra i più belli della Liturgia, si canta ai Vespri di Pentecoste.
Testi biblici
Prima lettura At 2,1-11. La Pentecoste cristiana, descritta da Lc, ha le stesse caratteristiche di quella ebraica, al momento della Promulgazione dell’alleanza sul monte Sinai. Tuoni, fulmini e fiamme accompagnano la manifestazione di Dio, dando così alla Toràh e allo Spirito una dimensione non solo universale, ma anche cosmica. Le nazioni elencate negli Atti richiamano la tavola dei popoli di Gen 10 che poi a Babele si disperdono per incomunicabilità. A Pentecoste lo Spirito risana la frattura perché tutti ascoltano tutti e tutti capiscono tutti: «li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa».
Dagli Atti degli apostoli At 2,1-11
1 Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. 2 Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. 3 Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, 4 e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. 5 Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. 6 A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. 7 Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? 8 E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? 9 Siamo Parti, Medi, Elamìti; abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, 10 della Frigia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, 11 Giudei e proséliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».
Salmo responsoriale104/103, 1ab.24ac; 29bc-: 30; 31.34. Il salmo è un inno cosmologico di 35 versetti. La liturgia ne riporta solo 6 per cui è difficile coglierne la portata. La struttura del salmo segue la stessa cronologia del racconto della creazione di Gen 1 da cui dipende, formato, forse, in ambiente sacerdotale al tempo dell’esilio. Anche questo salmo potrebbe appartenere alla stessa scuola. Il salmo è stato scelto per il v. 30: «Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra» che suggerisce l’idea dello Spirito come origine della nuova creazione (v. Rom 8 e Ger 31,31). Facciamo nostro questo anelito perché l’Eucaristia è il punto di arrivo e di partenza per il rinnovamento nostro e della storia.
Rit.Del tuo Spirito, Signore, è piena la terra.
1. 1 Benedici il Signore, anima mia!
Sei tanto grande, Signore, mio Dio! 24 Quante sono le tue opere, Signore! Le hai fatte tutte con saggezza;
la terra è piena delle tue creature.
2. 29 Togli loro il respiro: muoiono,
e ritornano nella loro polvere. 30 Mandi il tuo spirito, sono creati,
e rinnovi la faccia della terra. 3. 31 Sia per sempre la gloria del Signore;
gioisca il Signore delle sue opere. 34 A lui sia gradito il mio canto,
io gioirò nel Signore.
Rit.Del tuo Spirito, Signore, è piena la terra.
Seconda lettura BGal 5,16-25. In Paolo il binomio «carne-spirito» (greco: sàrx-pnèuma) descrive un’opposizione irriducibile. «Carne» indica tutto ciò che è caduco, mortale, finito e infine le tendenze malvagie presenti in ogni cuore; «spirito», al contrario indica tutto ciò che è trascendente, immortale, infinito, in una parola la persona aperta a Dio e inserita nella sua volontà. Lo Spirito di Pentecoste è uno «spirito di libertà» (2Cor 3,17). perché apre la Toràh/Legge al cuore di Dio e quindi la libera da ogni forma di schiavitù. Chi riceve lo Spirito è un tralcio che porta i frutti della missione: amore, gioia, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza e dominio di sé (v. 22). A Pentecoste inizia l’èra della Legge come amore e cessa la Legge come codice o obbligo imposto.
Dalla lettera di Paolo apostolo ai Gàlati Gal 5,16-25
Fratelli, 16 camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. 17 La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. 18 Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge. 19 Del resto sono ben note le opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, 20 idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, 21 invidie, ubriachezze, orge e cose del genere. Riguardo a queste cose vi preavviso, come già ho detto: chi le compie non erediterà il regno di Dio. 22 Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; 23 contro queste cose non c’è Legge. 24 Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri. 25 Perciò se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito..
Vangelo B Gv 15,26-27;16,12-15. Il termine «Consolatore» traduce il termine greco: paràklētos che è un termine giuridico e significa «colui che parla a favore» e quindi avvocato, difensore e consolatore. «Egli renderà testimonianza» a Gesù (v. 26) che è stato condannato ingiustamente perché innocente. Il compito del Paràclito è di assistere i cristiani che andranno di nuovo nei tribunali e di fronte ai potenti a dichiarare per convincerli che il Giusto condannato ingiustamente ha offerto la sua vita per il riscatto di tutta l’umanità. A questo scopo è necessario rifare il processo di Gesù, il cui posto sarà preso sul banco dell’accusato dalla Chiesa che è il suo corpo: l’arringa di difesa sarà pronunciata dallo Spirito Santo che garantirà l’autenticità della testimonianza degli apostoli «perché siete stati con me fin dal principio» (v. 27).
Dal Vangelo secondo Giovanni Gv 15,26-27;16,12-15
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 26«Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; 27 e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio. 16,12 Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. 13 Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. 14 Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. 15 Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».
Appunti di omelia
La prima lettura ci descrive la discesa dello Spirito Santo nel giorno di Pentecoste come un parallelo della discesa di Yhwh sul monte Sinai al momento della consegna della Toràh al popolo di Israele. Tuoni, lampi, fulmini e tremore della montagna accompagnò la discesa di Yhwh sul Sinai come ora gli stessi elementi naturali accompagnano la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli. La natura tutta come un corteo di accoglienza accompagna i due eventi. La Pentecoste cristiana è l’evento centrale dell’alleanza nuova, come il dono della Toràh lo fu della prima, stabilendo così che l’alleanza nuova non è una nuova alleanza, ma il compimento della prima.
Narra la tradizione giudaica che Dio prima di dare la Toràh ad Israele interpello tutti i popoli, i quali rifiutarono per un motivo o per l’altro. Solo Israele l’accetto prima ancora di sapere cosa vi fosse scritto. Ora a Pentecoste, tutti i popoli presenti intendono gli apostoli che parlano il linguaggio di Dio. A Pentecoste lo Spirito scende su tutti i popoli della terra presenti a Gerusalemme: l’elenco di At 2 richiama la tabella dei popoli di Gen 10,1-32. Questi popoli abitavano la terra e avevano un solo linguaggio, cioè avevano capacità di comunicazione, ma il loro desiderio di scalare il cielo, gli fa smarrire la dimensione del loro essere e del loro limite: vogliono costruire una torre che giunga fino al cielo (Gen 11,4) cioè che sia vista da tutta la terra e avere così un «nome», una fame immortale.
Il limite dell’uomo è non accettare il limite della morte, ma egli soccombe sempre alla tentazione di Adam ed Eva di essere come Dio. E’ Adam che ritorna in ogni tempo. L’impresa viene dispersa da Dio con una conseguenza disastrosa: gli uomini non solo non riescono a giungere fino in cielo, ma si smarriscono anche sulla terra: non comunicano più tra loro. L’incomunicabilità con Dio rende muti i fratelli tra loro. L’impossibilità di accedere alla Parola rende morte le parole umane. La parola che era il ponte di congiunzione tra linguaggi e culture diverse, ora è motivo di opposizione e incomprensione. Nascono tensione, travisamenti, guerre, aggressioni e sopraffazione. L’uomo che si allontana da Dio si allontana anche dal fratello e lo considera diverso e nemico.
Pentecoste è l’opposto di tutto ciò: il Risorto scioglie il suo Spirito e irrompe sull’umanità introducendola in un nuovo esodo di liberazione dalla schiavitù verso una nuova immersione nella libertà. Ora la Parola di Dio pronunciata dagli Apostoli è intesa e compresa da tutti i presenti: quando si parla di Dio tutti capiscono il linguaggio, anche se non ne conoscono la lingua materiale: ciascuno lo ascolta nella propria lingua, cioè ognuno percepisce di trovarsi davanti ad un evento di cui è protagonista attivo. Pentecoste è l’antidoto a Babele. Chi costruisce torri di Babele costruisce schiavitù, chi vive la Pentecoste del Risorto costruisce unità e costruisce una storia di convergenza e di comunione di popoli.
La tradizione giudaica sostiene che sul Sinai, Mosè dovette stare 40 giorni e 40 notti perché Dio ha dovuto scolpire la Toràh sulla pietra e insegnargli a memoria la Toràh orale. Mentre Dio scolpiva ogni ogni colpo di martello sprigionava settanta scintille, una scintilla per ogni popolo esistente sulla terra:
«E’ stato insegnato nella scuola di Rabbì Ishmael: “Non è forse così la mia parola: come il fuoco, oracolo del Signore, e come un martello che frantuma la roccia?” (Ger 23,29). Come questo martello sprigiona molte scintille, così pure ogni parola che usciva dalla bocca della Potenza si divideva in settanta lingue» (bShabbat 88b).
C’è però anche un’altra spiegazione in aggiunta: della Scrittura noi capiamo spesso solo una scintilla, mentre vi sono altri sessantanove significati che ci restano oscuri e che dobbiamo indagare perché la Scrittura è inesauribile e ogni parola è una miniera profonda:
«Un maestro della scuola di Rabbì Ishmael ha insegnato: “Non è forse così la mia parola: come il fuoco, oracolo del Signore, e come un martello che frantuma la roccia?” (Ger 23,29) Come questo martello sprigiona molte scintille, così pure un solo passo scritturistico dà luogo a dei sensi molteplici» (bSanhedrin 34a)[8].
Ciò è possibile a Pentecoste perché come garantisce il profeta Gioele: «Su ogni carne effonderò il mio spirito» (3,1; cf At 2,17), cioè su ogni essere vivente e quindi sugli uomini, sulle donne, sugli animali, sulle piante… in una parola sull’intero cosmo creato da Dio, quel cosmo per cui Adam ed Eva furono creati perché lo trasformassero nella immagine di Dio.
Il vangelo invece è tratto dal 2° discorso dell’ultima cena, ma con tagli non giustificabili perché si modifica il senso inteso dall’evangelista. Lasciando pertanto il testo liturgico, ci limitiamo solo a due sottolineature, rimandando i riferimenti esegetici propriamente detti al altra sede. Due parole emergono su tutte nel brano del vangelo: consolatore e verità. Il primo ricorre 5x e solo in Gv (Gv 14,16.26; 15,26; 16,7; 1Gv 2,1), mentre nella Bibbia greca della Lxx solo 2x (Gb 16,2; Zac 1,13)
Il termine consolatore deriva dal greco paràklētos che sia nella tradizione biblica che giudaica, compresi Giuseppe Flavio e Filone, ha sempre il significato di intercessore e consigliere. In epoca patristica assunse anche il significato più specifico di «consolatore». Il termine greco è un composto dalla preposizione «parà» e dal verbo «kaléō» e significa «chiamo, invito, nomino in favore di… o a nome di…» da cui anche «prego, invito, esorto, consolo». Il termine greco trasportato in italiano è diventato «paràclito» assumendo anche il significato logico di «avvocato»[9] .
Solo in 1Gv 2,1 questo termine è un attributo di Gesù, definito appunto giusto: «se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto». Tutte le altre quattro occorrenze sono riferite allo Spirito Santo. Perché? Nella risposta a questa domanda risiede la comprensione della festa della Pentecoste cristiana. Lo Spirito Santo è dato in abbondanza ed è dato «ad ogni carne» perché tutti devono sapere che Gesù è stato condannato ingiustamente e ha subito un processo nullo perché basato su false testimonianze (Mc 14, 55-56.59; Mt 26,59-60; Lc At 6,13). Secondo il diritto, il processo deve essere rifatto. Gesù però è assente nel corpo e non può essere riportato in tribunale. Questo compito spetta ai discepoli che nel 2° discorso dell’ultima cena sono messi di fronte alla situazione di odio e di persecuzione cui andranno incontro (Gv 15,18-27; At 8,1; 9,1; 17, 5, ecc.; 1Ts 3,3; Rom 8,18; Fil 1,29; Col 1,24; 1Pt 4,14-16; Gc 1,12; Ap 5,4), ma essi non dovranno preparare alcuna difesa perché non saranno essi ad essere giudicati, ma solo Gesù. In difesa della verità parlerà lo Spirito Santo: «Quando vi condurranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi come discolparvi o che cosa dire; perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire» (Lc 12,11-12; Gv 14,26). La Pentecoste è dunque il ristabilimento della verità riguardo a Gesù e la coscienza della missione che ora diventa «testimonianza».
La parola «verità» in greco si dice alētheia ed è composta dalla alfa privativa e da un sostantivo derivato dal verbo lanthànō che significa «tengo, sono nascosto/ignoro» per cui «svelare/manifestare». Verità dunque si oppone a nascosto. Chi è nella verità sta nella luce, chi si nasconde sceglie il buio e le tenebre. In Gv il termine greco ricorre 25x e pur mantenendo il senso etimologico classico, acquista un significato «altro» perché Gesù stesso si identificato in essa con la formula di autorivelazione «Io-Sono»: «Io-Sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6)[10]. La verità in senso assoluto, per Gv è la persona di Gesù e ha lo stesso significato che per Paolo ha il termine «mistero» che abbiamo spiegato domenica scorsa nell’Ascensione-B. La verità non è un sistema di credenze sistemate in modo organico, non è nemmeno un sistema di pensiero o teologico, ma semplicemente un volto da contemplare, un nome da chiamare e invocare, una vita da abbracciare e vivere: è Gesù, il Maestro da seguire.
Abbiamo già detto che in Gv il termine «verità» ricorre 25 volte, mentre la formula di autorivelazio-ne «Io-Sono» ricorre 26x. Chi è addetto a queste cose istintivamente si sarebbe aspettato che anche la parola «verità» ricorresse «26x» invece di 25x. Perché? Se interroghiamo la scienza dei numeri o ghematrìa scopriamo che in ebraico il nome santo del Signore «YHWH» ha il valore numerico di 26. Quando Gesù usa la formula di autopresentazione «Io-Sono» lo fa per 26x, mentre la parola «verità» ricorre in Gv solo 25x, cioè 26 – 1. Gesù in quanto Figlio unigenito è Dio perché partecipa della stessa vita divina e dopo la morte riprende quella gloria che aveva «prima che il mondo fosse» (Gv 17,5). L’Ascensione che abbiamo celebrato domenica scorsa non è altro che la dichiarazione ufficiale della divinità di Gesù. Il quale Gesù, in quanto figlio di Maria, l’uomo di Narareth, il figlio di Giuseppe è anche uomo e in tutta la sua vita si è sempre sentito inferiore al Padre che è «più grande» di Gesù (10,29; 14,28). Per questo motivo il termine «verità» che riguarda l’insieme della vita e della persona di Gesù viene citata 26 volte meno una, cioè 25 per affermare che Gesù ha vissuto la sua verità di sottomissione al Padre e che tutta la sua esistenza è stata una testimonianza alla Verità del Padre.
A Pentecoste non si rinnova solo l’alleanza, anche se nuova, perché Gesù stesso è l’alleanza eterna, ma si manifesta la gloria della «Verità» che si fa «Consolatore/Avvocato/Difensore» di coloro che accettano di ripercorrere le vie del mondo per convincere gli uomini e le donne di tutti i tempi a farsi trascinare nei tribunali per testimoniare in favore di Gesù il Giusto e per ristabilire la verità dell’umanità stessa che prendendo coscienza del suo errore possa convertirsi ed entrare nel «mistero/verità» della vita che è la persona stessa di Gesù di Nazareth, l’uomo nuovo, il Figlio di Dio, il cui Spirito respira in ciascuno di noi.
Dopo la comunione
Seguendo la tradizione giudaica, proclamiamo le Dieci Parole di libertà che sono la pietra angolare dell’alleanza tra Yhwh e il suo popolo Israele. Segue secondo la stessa tradizione, un brano del libro di Rut, antenata straniera di Gesù, che è il simbolo dell’universalità della fede che oggi celebriamo, ma anche il segno della nuzialità che lo Spirito realizza con ogni persona che vive con retta coscienza.
Dal libro dell’Esodo (20,1-3.5.7-10.12-18)
«1 Dio pronunciò tutte queste parole:
“2 Io-Sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione servile:
3 Non avrai altri dèi di fronte a me.
5 Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai.
7 Non pronuncerai invano [lett. nel vuoto] il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano [lett. nel vuoto].
8 Ricòrdati del giorno di sabato per santificarlo. 9 Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; 10 ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te.
12 Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni.
13 Non ucciderai..
14 Non commetterai adulterio.
15 Non ruberai.
16 Non pronunciarai falsa testimonianza contro il tuo prossimo.
17 Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo”.
18 Tutto il popolo percepiva i tuoni e i lampi, il suono del corno e il monte fumante».
[Breve pausa]
Dal libro di Rut (1,16-17)
«16 Ma Rut replicò: “Non insistere con me che ti abbandoni e torni indietro senza di te, perché dove andrai tu andrò anch’io, e dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio. 17 Dove morirai tu, morirò anch’io e vi sarò sepolta. Il Signore mi faccia questo male e questo ancora, se altra cosa che la morte mi separerà da te”».
Dal Sermone per la Pentecoste di Sant’Efrem Siro(306-373)
Gli apostoli erano lì, seduti, in attesa della venuta dello Spirito. Erano lì come fiaccole pronte e in attesa di essere illuminate dallo Spirito Santo per illuminare con il loro insegnamento l'intera creazione...
Erano lì come agricoltori che portano la semente nella falda del loro mantello in attesa di ricevere l'ordine di seminare. Erano lì come marinai la cui barca è legata al porto del Figlio e che attendono di ricevere la brezza dello Spirito.
Erano lì come pastori che hanno appena ricevuto il bastone del comando dalle mani del grande Pastore dell'ovile e aspettano che siano loro distribuite le greggi...
O Cenacolo, nel quale venne gettato il lievito che fece fermentare l'intero universo!
Cenacolo, madre di tutte le chiese! Grembo meraviglioso che ha generato templi per la preghiera!
Cenacolo che vide il miracolo del roveto ardente!
Cenacolo che stupì Gerusalemme con un prodigio ben più grande di quello della fornace che meravigliò gli abitanti di Babilonia!
Il fuoco della fornace bruciava coloro che erano attorno, ma proteggeva coloro che erano in essa.
Il fuoco del Cenacolo raduna coloro che dal di fuori che desiderano vederlo, mentre conforta quanti lo ricevono.
O fuoco la cui venuta è parola, il cui silenzio è luce!
Fuoco che fissi i cuori nell'azione di grazie!
Appendice Prima
Scheda storica sulla Pentecoste
Pentecoste è nome greco e significa «cinquantina», cioè cinquanta giorni dopo la Pasqua. In ebraico si chiama «Shavuôt» ossia «settimane» perché nella Bibbia (Es 34,22; Lv 23,15-16; Dt 16,9-10) si prescrive di contare «sette settimane» a partire dalla sera del giorno di Pasqua/Pesaci (= 7x7 settimane, cioè 50 giorni). In questo giorno si portava la tempio l’offerta della primizia dell’orzo. Per questo motivo la festa era chiamata anche «Hag ha-Qatsìr» (Festa delle messi; cf Es 23,16) o «Yom ha-Bikkurīm (Giorno [dell’offerta] delle primizie»; cf Nm 28,26). Insieme a Pesah/Pasqua e a Sukkôt/(festa delle) Capanne, Shavuôt è una delle tre feste di pellegrinaggio annuale perché ogni israelita era tenuto a salire a Gerusalemme. Il Talmud la chiama anche con il nome di Atsèret che significa Assemblea solenne (cf Lv 23,36; Nm 29,35; Dt 16,8) che successivamente prese il significato di «conclusione della festa», in quanto Shavuôt venne considerata la festa conclusiva della Pasqua. In origine è festa agricola che nel post esilio, durante la riforma di Giosia del 621, è associata all’evento del Sinai, cioè al «dono della Toràh» (ebr.: Yom mattàn Toràh).
All’inizio del cristianesimo, nella Palestina del sec. I, i cristiani celebravano la Pasqua della morte e risurrezione del Signore Gesù all’interno della Pasqua ebraica, ma essi ritenevano che la Toràh fosse compiuta e attualizzata nell’insegnamento e nella persona del Messia, per cui celebravano la «nuova Pentecoste» come dono dello Spirito del Messia Gesù, effuso come avevano predetto i profeti. Nel secolo IV si comincia a distinguere le feste della Resurrezione, della Ascensione e di Pentecoste, facendone celebrazioni separate. Alla Pentecoste si diede la stessa importanza della Pasqua tanto che in questo giorno si amministrava anche il battesimo. Si inserì anche la veglia notturna simile per solennità a quella pasquale di cui seguiva la schema: in alcune chiese si aggiungeva anche la benedizione e l’esposizione del cero con il canto dell’Exultet. Di questa tradizione oggi resta la Messa della Vigilia con una ricchezza di letture e testi, che purtroppo nessuno più celebra. Lentamente si sviluppò come per la Pasqua anche l’Ottava di Pentecoste che divenne stabile già nel sec. V con Leone Magno.
Durante i secoli X e XI, la festa di Pentecoste veniva scelta per la consacrazione dei Re di Francia. Tra la fine del secolo XI e l’inizio del secolo XII rinasce una particolare devozione allo Spirito Santo.Nel Medioevo latino furono composti i due bellissimi inni: il Veni creator, inno dei Vespri, attribuito a Rabano Mauro, Abate di Fulda, in Germania (780-856) e la Sequenza Veni Sancte Spiritus, detta anche «Sequenza aurea» composta tra il 1150 e il 1250 da Stefano di Langhton arcivescovo di Canterbury († 1228) o, secondo altri, dal suo contemporaneo Lotario dei Conti di Segni divenuto papa Innocenzo III nel 1198. Nel 1955 Pio XII riformava la settimana santa e della grande e lunga veglia di Pentecoste rimase solo la Messa della vigilia. Nel 1968 la riforma di Paolo VI mantiene la messa vigiliare, ma arricchita di testi propri.
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Paolo Farinella, prete – 31/05/2009 – San Torpete – Genova
Domenica 9a del Tempo Ordinario – B, Solennità di Pentecoste – Liturgia accompagnata dalla Cappella Musicale Accademia dei Virtuosi della Parrocchia di S. M. Immacolata e S. Torpete.
[1] I testi liturgici sono tratti dal nuovo lezionario, entrato in vigore con la 1a domenica di Avvento-A del 2007.
[2] Sul simbolismo del numero «40», vedi l’introduzione alla liturgia del «Mercoledì delle ceneri A-B-C».
[3] E’ importante mettere in evidenza questo aspetto della risposta di Israele che non s’impegna soltanto ad eseguire le parole del Signore, ma accoglie la Toràh prima ancora di sapere cosa c’è scritto. Il testo ebraico e il testo greco della Lxx lo evidenziano e anche noi dobbiamo farlo perché esprime un rapporto profondo che la letteratura ebraica fa rifiorire narrando su questo punto aneddoti edificanti di notevole pregio. Uno di questi racconti narra che Dio propose la Toràh a tutti i popoli della terra, uno dopo l’altro e tutti prima s’informarono di cosa si trattasse e conosciuto il contenuto la rifiutarono. Per ultimo la propose a Israele: «Vuoi accettare la mia Toràh?». Israele senza preoccuparsi del contenuto, rispose come un sol uomo: «Quello che il Signore ha detto, noi faremo e ubbidiremo». Israele prima la mette in pratica e poi se ne domanda la ragione: (ebr.) «‘asher dibèr Adonai ne’hassèh wenishmà’» che la Lxx traduce con «Panta hòsa elàlesen Kýrios poiêsomen kài akousòmetha» (Sul rifiuto dei popoli e l’accoglienza d’Israele cf, L. Ginzberg, Le Leggende degli Ebrei, vol. IV. Mosè in Egitto, Mosè nel deserto, Adelphi Edizioni, Milano 2003, 199-201 e 320 nota 180 con bibliografia dei Midrashìm.
[4] Nel Medio Evo, in maniera progressiva, si diffuse l’usanza di chiamare la festa di Pentecoste col nome «Pasqua delle rose». Il colore rosso della rosa ed il suo profumo erano facili simboli delle lingue di fuoco discese nel Cenacolo su ciascuno dei presenti come tanti petali di rosa. Fu questa simbologia ad indurre nella liturgia l’uso del colore rosso non solo per la festa, ma anche per tutta l’Ottava. In questo modo Pentecoste era equiparata alla Pasqua. Durando di Mende (1286-1292)nel suo Rationale divinorum officiorum, prezioso per gli usi liturgici del Medio Evo, annota che nel sec. XIII nelle chiese, alla Messa di Pentecoste, si liberavano alcune colombe volteggianti sopra i fedeli, a ricordo della prima manifestazione dello Spirito Santo sul Giordano e contemporaneamente dalla volta si buttavano sui fedeli batuffoli di stoppa infiammata insieme a fiori, a ricordo della discesa dello Spirito nel Cenacolo (Cf Prosper Guéranger, dom, L’anno liturgico. II. Tempo Pasquale e dopo la Pentecoste, trad. it. L. Roberti, P. Graziani e P. Suffia, Edizioni Paoline, Alba, 1959, 273).
[5] E’ una delle tre feste bibliche di pellegrinaggio (le altre due sono: Pesàh – Pasqua e Capanne), di origine biblica. Nella Bibbia ebraica ha diversi nomi: «Festa delle [sette] Settimane - Hag Shavuôt» (Es 34,22; Dt 16,10): senza contare quello di Pasqua, 49 giorni la separano da essa (=7x7); «Festa della mietitura - Hag ha-Katsir» (Es 23,16); «Festa delle primizie - Yom ha-Bikkurim» (Nm 28,26). In greco diventò correttamente «Pentēkostês - cinquanta giorni» dopo Pasqua.
[6] «19 Darò loro un cuore nuovo e uno spirito nuovo metterò dentro di loro; toglierò dal loro petto il cuore di pietra e darò loro un cuore di carne, 20 perché seguano i miei decreti e osservino le mie leggi e li mettano in pratica; saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio» (Ez 11,19-20). «24 Vi prenderò dalle genti, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. 25 Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; 26 vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. 27 Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi» (Ez 36,24-27)
[7] Esplicito riferimento ai popoli elencati nella tavola dei popoli di Gen 10,1-37.
[8] I due testi in A.C. Avril-P. Lenhardt, La lettura ebraica della Scrittura, Qiqajom, Magnano 19892,86-87. Allo stesso modo si esprime Ambrogio: «Semel locutus est Deus, et plura audita sunt/Dio parlò una volta sola e furono udite molte [parole]»(In Psalmo LXI, n. 33-34 [PL, XIV, 1180 C]; cf Origene, In Romanis, VII,19 [PG XIV, 1153-1154]; Id., In Lucam, Hom. 34 [PG 199-200]; Agostino, In Psalmo LXI, n.18 [CCL = Corpus Christianorum, series Latina, Turnholti 39, 786]). Per la tradizione secondo cui la terra era abitata da 72 popoli che parlavano 72 lingue (v. tabella dei popoli in Gen 10), cf l’apocrifo cristiano del IV sec. d.C. contenente materiale anche ebraico, molto antico, La Caverna del Tesoro, 24,18, in E. Weidinger, ed., L’altra Bibbia che non fu scritta da Dio, Casale Monferrato 20022, 73).
[9] E’ interessante notare che questo termine è molto vicino al termine «ecclesìa/chiesa» che deriva dal greco «ek-kaléō» nel senso proprio di «chiamo/invito da… [Dio]», definendo così anche da un punto di vista semantico l’origine della Chiesa e l’affinità linguistica tra «ek-klesìa» e «parà-klito», perché anche il secondo termine deriva dallo stesso verbo, cambiando solo la preposizione. Sembra che la figura del «paràclito» fosse una figura riconosciuta per la sua dirittura e autorevolezza che tutti gli attribuivano: un uomo il cui giudizio era inappellabile e che pertanto aveva anche una valenza giudiziaria particolare[9]. Quando un uomo veniva accusato, se il «paràclito» si alzava e in silenzio si poneva accanto a lui, la sua testimonianza dirimeva il giudizio che era di assoluzione. La sua presenza era sufficiente a garantire la giustezza della giustizia.
[10] Della formula di autopresentazione «Io-Sono» ne abbiamo parlato la Domenica 4a di Pasqua B, riportando nelle note 1-10 tutti i testi relativi da cui emerge che l’espressione nel suo complesso in Gv ricorre 26x.
Venerd́ 29 Maggio,2009 Ore: 10:38 |