L'esegesi biblica

Domenica 11 maggio 2003
Quarta Domenica di Pasqua


Esegesi attuale|Esegesi patristica


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Testi patristici

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Letture: Atti 4,8-12

1 Giovanni 3,1-2

Giovanni 10,11-18

1. Il buon pastore e il mercenario

Avete udito, fratelli carissimi, dalla lettura evangelica odierna, un ammaestramento per voi e un pericolo per me. Infatti colui che è buono non per un dono aggiuntivo, ma per sua stessa natura, dice: "Io sono il buon pastore" (Gv 10,11). Poi, subito evidenzia l’elemento costitutivo della sua bontà, per far sì che noi possiamo imitarlo, ed aggiunge: "Il buon pastore dà la vita per le sue pecore (ibid.)". Inoltre, egli fece quel che insegnò, e mostrò con l’esempio quanto comandava. Il buon pastore dette la sua vita per le pecore del suo gregge, cambiando il suo corpo e il suo sangue nel nostro Sacramento, per sfamare con il cibo della sua carne coloro che aveva redento. In tal modo ci viene indicata la via del disprezzo della morte, perché possiamo seguirla; ci viene proposto un modello da imitare. Anzitutto noi pastori di anime dobbiamo dare i nostri beni per le pecore del Signore; poi, se si rende necessario, per esse dobbiamo affrontare la morte. Dal dono delle cose esteriori che poi è il meno si arriva al dono della vita, che è il massimo tra tutti i doni. E siccome l’anima che ci fa dei viventi è incommensurabilmente più preziosa delle cose terrene in nostro possesso, chi non dà per le pecore del Signore i beni esteriori, come farà a dare per loro la propria anima? Eppure quanti sono coloro che per l’attaccamento ai beni del mondo si alienano il diritto di essere chiamati pastori! Di costoro, la divina Parola dice: "Il mercenario, e chi non è pastore, a cui non appartengono le pecore, quando vede venire il lupo abbandona le pecore e fugge " (Gv 10,12).

Non pastore, bensì mercenario è detto chi pasce le pecore del Signore animato non dall’amore sincero, ma dalla bramosia della ricompensa materiale. Mercenario è chi esercita l’ufficio di pastore, ma, invece di cercare il bene delle anime, ricerca i propri agi, il guadagno terreno, gli onori delle dignità ecclesiastiche e si pavoneggia alle riverenze degli uomini. Ecco i compensi del mercenario! Egli trova quaggiù la ricompensa che va cercando per il suo lavoro di pastore di anime, ma alla fine sarà escluso dalla eredità del gregge. Finchè non si presenta un’occasione straordinaria, non è possibile distinguere il buon pastore dal mercenario. In tempo ordinario, pastore e mercenario custodiscono il gregge nell’identico modo. E’ quando sopraggiunge il lupo che si svela la interiore disposizione con la quale ciascuno dei due stava a guardia del gregge. Il lupo cala sul gregge ogni qualvolta un ingiusto o un rapitore affligge gli umili e fedeli servi del Signore. Allora, colui che appariva pastore, senza esserlo, lascia le pecore e fugge, per paura del pericolo che gli incombe e non si arrischia a resistere all’ingiustizia. Dire che fugge non vuol dire che egli cambia dimora, bensì che non dà il proprio aiuto. Fugge, perché pur vedendo l’ingiustizia, tace; fugge, perché si nasconde dietro il silenzio. Di tali pseudo-pastori, il profeta Ezechiele dice: "Non siete saliti sulle brecce, e non avete costruito alcun baluardo in difesa degli israeliti, perché potessero resistere al combattimento nel giorno del Signore" (Ez 13,5).

Salire sulle brecce significa resistere con parola franca e coraggiosa a tutti i potenti che agiscono male. In più, resistiamo al combattimento nel giorno del Signore e ricostruiamo le mura della casa d’Israele, se difendiamo i fedeli innocenti, con l’autorità della giustizia, contro l’ingiustizia dei malvagi. Per evitare di far questo, il mercenario scappa al sopraggiungere del lupo.

C’è però un altro lupo che, senza desistere, ogni giorno, dilania non i corpi, bensì le anime. E’ lo spirito maligno che si aggira attorno ai recinti in cui stanno le pecore e cerca di ucciderle. Di questo lupo, il Signore, subito dopo, aggiunge: "Il lupo rapisce e disperde le pecore" (Gv 10,12). Viene il lupo e il mercenario scappa. Come dire: Lo spirito maligno dilania le anime con le sue tentazioni, mentre colui che riveste il ruolo di pastore non sente premura e sollecitudine. Le anime si perdono e il pastore si gongola nei suoi guadagni terreni.

Il lupo rapisce e disperde il gregge, quando attrae qualcuno alla lussuria, accende un altro d’avarizia, fa insuperbire un terzo infiamma d’ira un quarto; pungola questo con l’invidia, inganna quell’altro con la falsità. Il lupo, insomma, disperde le pecore, allorché il diavolo uccide con le tentazioni il popolo fedele.

Epperò, contro tutte queste cose, il mercenario non s’accende minimamente di zelo, non si risveglia in lui alcun fervore d’amore: mentre è alla ricerca soltanto dei propri vantaggi esteriori, all’interno sopporta con negligenza tutti i danni spirituali del gregge. Per questo, il Maestro divino aggiunge: "Il mercenario fugge proprio perch‚ è mercenario e non gli importa nulla delle pecore" (Gv 10,13). L’unica causa della fuga del mercenario è che egli è appunto un mercenario. Come dire: Non può stare al pericolo insieme alle pecore, chi ricopre il suo ufficio non per amore alle pecore, ma per desiderio di guadagni terreni. Il mercenario che accetta gli onori e si gongola nei propri lucri terreni, paventa di esporsi al rischio e di sfidare il pericolo, perch‚ corre l’alea di perdere ciò che più ama. Ma, dopo aver denunciato le colpe del falso pastore, il Signore ci prospetta ancora il modello, quasi la forma in cui dobbiamo calarci. Afferma difatti: "Io sono il buon pastore". Quindi, aggiunge: "Io conosco", ovvero amo, "le mie pecore, e le mie pecore conoscono me" (Gv 10,14). Come se intendesse dire: Le anime che mi amano, mi obbediscono, perché chi non ama la verità è segno che non la conosce ancora.

Avendo udito, fratelli carissimi, il pericolo cui siamo esposti noi pastori di anime, sforzatevi di scoprire nelle parole del Signore i pericoli che del pari correte voi. Interrogatevi se siete davvero le sue pecore, chiedetevi se lo conoscete, se possedete la luce della verità. Dico possedere la luce della verità, non soltanto per fede, ma per amore; non soltanto perciò credendo, ma anche operando. Infatti, lo stesso evangelista Giovanni, autore del brano evangelico odierno, ci ammonisce che: "Colui che dice di conoscere Dio, e poi non osserva i suoi comandamenti è un bugiardo" (1Gv 2,4). Ecco perchè, nel brano letto, il Signore aggiunge: "Come il Padre conosce me, così io conosco il Padre, e do la mia vita per le mie pecore" (Gv 10,15). In altri termini: Da questo si dimostra chiaramente che io conosco il Padre e da lui sono conosciuto: dal fatto che do la mia vita per le mie pecore. Cioè: Dall’amore con cui mi voto alla morte per le mie pecore, si può intuire quanto grande sia l’amore che ho per il Padre.

Siccome però il Signore era venuto per la redenzione di tutti, non solo degli Ebrei, ma anche dei Gentili, la Scrittura prosegue: "Ho altre pecore che non sono di questo ovile, anche quelle io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore" (Gv 10,16).

Quando asseriva di voler condurre e chiamare anche altre pecore, il Signore prevedeva la nostra redenzione. Noi, in effetti, veniamo dal paganesimo. Il che, fratelli potete vedere realizzato ogni giorno; e questo potete verificare, dal momento che i pagani si sono riconciliati con Dio.

Egli fa di due greggi quasi un solo ovile, poiché unifica nella sua fede il popolo ebreo e quello pagano. E quanto attesta Paolo, che afferma: "Egli è la nostra pace; è colui che ha unito i due in un sol popolo" (Ef 2,14). Quando egli, da entrambe le nazioni, chiama i semplici alla vita eterna, conduce le pecore al proprio ovile.

(Gregorio Magno, Hom. in Ev., 14, 1-4)



 

2. Gesù, porta dell’ovile e pastore del gregge

Il Signore propone la parabola della porta dell’ovile e del buon pastore. Chi non entra nell’ovile attraverso la porta è un ladro e un bandito. Chi entra per la porta, è il pastore del gregge. Il Signore applica a se stesso la similitudine dicendo: "Io sono la porta e Io sono il buon pastore".

Quanto alla similitudine della porta, mentre afferma d’esser lui la porta dell’ovile, parla anche di ladri e banditi e afferma: "Tutti quelli che son venuti prima di me son ladri e banditi". E la similitudine è introdotta con le parole: "Disse loro, dunque, di nuovo Gesù: - In verità, in verità vi dico"; e la solennità della formula introduttiva vuole evidentemente richiamare l’attenzione dei discepoli e sottolineare l’importanza di quanto il Maestro vuol dire.

"Io sono la porta": L’ufficio della porta è quello d’immettere nella casa. E questo s’addice bene a Cristo, perché, chi vuol entrar nel mistero di Dio, bisogna che passi per lui (Sal 117,10): "Questa è la porta del Signore" - Cristo - "e i giusti entreranno in essa". Precisa: "Porta del gregge", perché non solo i pastori sono immessi nella Chiesa presente e poi nella beatitudine eterna attraverso Cristo, ma tutto il gregge, com’è detto appresso: "Le mie pecore ascoltano la mia voce... e mi seguono, e io do loro la vita eterna".

Poi, quando dice: "Tutti quelli che son venuti prima di me son ladri e banditi", dice chi siano i ladri e i banditi e quali ne sian le note.

Quanto alla identificazione dei ladri e dei banditi, bisogna evitar l’errore dei Manichei, i quali da queste parole presumono di ricavar la condanna di tutti i Patriarchi e Profeti del Vecchio Testamento. Ma l’interpretazione dei Manichei è falsa per tre motivi.

Prima di tutto perché contrasta con le parole precedenti della stessa parabola. Infatti tutti questi venuti prima che son condannati come ladri e banditi son certamente quegli stessi li cui il Signore ha detto: "Chi non entra per la porta è ladro e bandito". Non sono, dunque, ladri e banditi coloro che semplicemente son venuti "prima" di Cristo, ma coloro che non son passati "attraverso la porta", che è Cristo. E’ chiaro, allora, che Patriarchi e Profeti del Vecchio Testamento, entrarono attraverso la porta, che è Cristo, perch‚ proprio Cristo, che doveva venire, li mandava; lui, fatto uomo nel tempo, ma presente nell’eternità, come Verbo di Dio (Eb 13,8: "Gesù Cristo ieri e oggi e in tutti i secoli"). I Profeti poi furono mandati nel nome del Verbo e della Sapienza (Sap 7,27: "La Sapienza di Dio si diffonde attraverso i popoli nelle anime sante dei Profeti e li fa amici di Dio"). Perciò, a proposito dei Profeti, leggiamo continuamente "La Parola di Dio è giunta al Profeta", proprio perchè, attraverso la comunicazione del Verbo, i Profeti annunziarono la parola di Dio.

"Coloro che sono venuti": Questo verbo sta a dire che il loro venire non dipendeva da una divina missione, ma era una loro presunzione, e di tali Geremia disse (Ger 22,21): "Io non li mandai, ma essi correvano". Questi, certo, non erano messaggeri del Verbo di Dio (Ez 13,3: "Guai ai profeti sprovveduti, che seguono il loro stesso spirito e non vedono niente"). Ma questo non lo si può dire dei Patriarchi e Profeti del Vecchio Testamento, perché essi erano proprio figure e annunziatori di Cristo.

Ed è anche falsa l’interpretazione dei Manichei per la conseguenza che deriva dalle parole: Le pecore non diedero loro ascolto. Il segno, quindi, di riconoscimento dei ladri e banditi sta nel fatto che le pecore non li ascoltarono. Ma questo non lo si può dire così in generale dei Patriarchi e dei Profeti; i quali furono vere guide del popolo d’Israele e nella Scrittura sono biasimati coloro che non li ascoltarono (At 7,52: "Quale dei Profeti non hanno perseguitato i vostri padri?" e Mt 23,37: "Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i Profeti e tiri sassi a quelli che sono stati mandati a te!)".

Bisogna dire dunque: "Tutti quelli che son venuti", non attraverso me, senza divina ispirazione e mandato, e con l’intenzione di cercare non la gloria di Dio, ma la propria, questi sono ladri, in quanto si appropriano di un’autorità d’insegnamento che non gli spetta (Is 1,23: "I tuoi principi infedeli sono alleati di ladri)"; e "sono banditi", perché uccidono attraverso la loro malvagia dottrina Mt 21,13: "Voi ne avete fatto una spelonca di ladri"; e Os 6,9: "Compagno di ladri, che ammazzano coloro che passano per la strada)". Ma "costoro", cioè i ladri e banditi, "le pecore non li ascoltarono", almeno in modo costante, perch‚ altrimenti non avrebbero fatto più parte del gregge di Cristo, perché "non segue un forestiero e fugge da lui".

"Io sono la porta; chi entra attraverso me, sarà salvo".

Qui il Signore, prima di tutto, vuol dire che il diritto di uso della porta è suo e che fa parte del piano della salvezza. Il modo della salvezza è accennato nelle parole: "Potrà entrare e uscire". La porta salva quelli che son dentro, trattenendoli dall’esporsi ai pericoli, che son fuori, e li salva, impedendo al nemico di entrare. E questo s’addice a Cristo, poichè in lui abbiamo protezione e salvezza; ed è questo ch’egli vuol dire con le parole: "Se uno entrerà attraverso me" nella Chiesa, "sarà salvo". Aggiungi anche la condizionale, se persevererà (At 6,12: "Non è stato dato agli uomini nessun altro nome nel quale salvarsi"; e Rm 5,10: "Tanto più saremo salvi nella sua vita").

Il modo della salvezza è significato con le parole: "Entrerà e uscirà e troverà pascoli"; ma queste parole possono essere spiegate in quattro modi.

Secondo il Crisostomo non significano altro che la sicurezza e la libertà di coloro che sono con Cristo. Infatti, colui che non entra per la porta, non è padrone di entrare e uscire quando vuole; lo è, invece, colui che entra per la porta. Dicendo, dunque: "entrerà e uscirà", vuol significare che gli apostoli, in comunione con Cristo, entrano con sicurezza e hanno accesso ai fedeli, che sono nella Chiesa, e agli infedeli, che ne son fuori, poiché essi sono stati costituiti padroni del mondo e nessuno li può cacciare fuori (Nm 27,16: "Il Signore di tutti gli spiriti provveda per il popolo un uomo che possa entrare e uscire, perché il popolo del Signore non sia come un gregge senza pastore"). "E troverà pascoli", cioè la gioia nella conversione e anche nelle persecuzioni che gli capiterà di affrontare per il nome di Cristo (At 5,41: "Gli Apostoli uscivano dal sinedrio pieni di gioia, perché erano stati fatti degni di subir ignominia per il nome di Gesù").

La seconda spiegazione è di sant’Agostino nel commento al Vangelo di Giovanni.

Chi fa il bene realizza un’armonia tra ciò ch’è dentro di lui e con ciò ch’è fuori di lui. Al di dentro dell’uomo c’è lo spirito, al di fuori c’è il corpo (2Cor 6,16: "Sebbene il nostro uomo esteriore si corrompa, l’uomo interiore si rinnova di giorno in giorno). Colui dunque, ch’è unito a Cristo, "entrerà" attraverso la contemplazione per custodire la sua coscienza (Sap 8,16: Entrando nella mia casa - la coscienza -, "mi riposerò con essa" -la Sapienza -); e "uscirà" fuori, per controllare il suo corpo con le opere buone (Sal 103,23: "Uscirà l’uomo per i suoi impegni e per il suo lavoro fino a sera"); "e troverà pascoli", nella coscienza pura e devota (Sal 16,15: "Verrò al tuo cospetto, mi sazierò alla vista della tua gloria") e anche nel lavoro (Sal 125,6: "Al ritorno verranno esultanti, portando i loro covoni").

La terza interpretazione di san Gregorio.

"Entrerà" nella Chiesa, credendo (Sal 41,5: "Andrò dov’è una tenda meravigliosa"), il che vuol dire entrare nella Chiesa militante; "e uscirà", cioè passerà dalla Chiesa militante alla Chiesa trionfante (Ct 3,11: "Uscite, figlie di Sion, e vedete il re Salomone col diadema di cui lo cinse sua madre il giorno delle nozze"); "e troverà pascoli" di dottrina e di grazia nella Chiesa militante (Sal 22,2: "Mi pose nel luogo del cibo"); e pascoli di gloria nella Chiesa trionfante (Ez 34,14: "Pascolerò le mie pecore in pascoli ubertosissimi").

La quarta spiegazione è nel libro "De Spiritu et Anima", che viene erroneamente attribuito ad Agostino; e ivi è detto che i santi "entreranno" per contemplare la divinità di Cristo e "usciranno" per ammirare la sua umanità; e nell’una e nell’altra "troveranno pascoli", perché nell’una e nell’altra gusteranno le gioie della contemplazione (Is 33,17: "Vedranno il re nel suo splendore").

Si tratta poi del ladro. Il Signore prima dice quali sono le proprietà del ladro e poi afferma che egli ha le proprietà opposte a quelle del ladro: "Io son venuto, perché abbiano la vita". Dice, dunque, che quelli che non entrano per la porta - che è lui - sono ladri e banditi e la loro condizione è malvagia. Infatti, "il ladro non viene che per rubare", per portar via ciò che non è suo, e questo avviene, quando eretici e scismatici tirano a sè coloro che appartengono a Cristo. Il ladro poi viene "per uccidere", diffondendo una falsa dottrina o costumi perversi (Os 6,9: "Compagno di ladri che ammazzano sulla strada quelli che vengono da Sichem"). Il ladro viene ancora, in terzo luogo, per distruggere, avviando alla dannazione eterna le sue vittime (Ger 50,6: "Il mio popolo è diventato un gregge perduto"). Queste condizioni non son certo nel buon pastore.

"Io venni perché abbiano la vita". E pare che il Signore volesse dire: Costoro non son venuti attraverso me; se fossero venuti attraverso me, farebbero cose simili a quelle che faccio io, ma essi fanno tutto l’opposto; essi rubano, uccidono, distruggono. "Io son venuto perché abbiano la vita" della giustizia, entrando nella Chiesa militante attraverso la fede (Eb 10,38; Rm 1,17: "Il giusto vive di fede"). Di questa fede, è detto in Gv 3,14: "Noi sappiamo che siamo stati trasferiti dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. E perché l’abbiano più abbondantemente"; abbiano cioè la vita eterna all’uscita dal corpo; la vita eterna della quale appresso è detto (Gv 17,8) ch’essa consiste "nel conoscere te solo vero Dio".

Che Cristo poi sia pastore è evidente dal fatto che, come il gregge è guidato e alimentato dal pastore, così i fedeli sono alimentati dalla dottrina e dal corpo e sangue di Cristo (1Pt 2,25: "Eravate pecore senza pastore, ma ora vi siete rivolti al pastore delle vostre anime"; e Is 40,11: "Pascolerà i suoi, come il pastore pascola il suo gregge"). Ma, per distinguersi dal ladro e dal cattivo pastore, aggiunge l’aggettivo "buono". Buono perché compie l’ufficio del pastore, come si chiama buon soldato colui che compie l’ufficio del soldato. Ma, poiché Cristo ha già detto che il pastore entra per la porta e che lui stesso è la porta, bisogna concludere ch’egli entra nell’ovile attraverso se stesso. Ed è proprio così, perché egli manifesta se stesso e attraverso se stesso conosce il Padre. Noi, invece, entriamo attraverso lui, perché attraverso lui otteniamo la gioia. Ma guarda che nessun altro è la porta, se non lui, perché nessun altro è la luce vera; gli altri son luce riflessa. Lo stesso Battista non era lui la luce, ma uno che testimoniava per la luce. Ma di Cristo è detto: "Era la luce vera che illumina ogni uomo" (Gv 1,8). Perciò, nessuno presume di esser la porta; solo Cristo poté dir questo di sè; ma concesse anche ad altri di essere pastori: difatti, Pietro fu pastore, e tutti gli apostoli e tutti i buoni vescovi furono pastori (Ger 3,5: Vi darò dei pastori secondo il mio cuore). Sebbene però i capi della Chiesa sian tutti pastori, tuttavia egli dice al singolare: "Io sono il buon pastore", per suggerire la virtù della carità. Nessuno infatti è pastore buono, se non diventa una sola cosa con Cristo, attraverso la carità, e si fa membro del vero pastore.

Ufficio del pastore è la carità; perciò dice: "Il pastore buono dà la vita per le sue pecore". Bisogna sapere che c’è una differenza tra il pastore buono e il cattivo; il pastore buono guarda al vantaggio del gregge; il cattivo guarda al proprio vantaggio; e questa differenza è segnalata in Ez 34,2: "Guai ai pastori che pascono sè stessi. Ma non è il gregge che dovrebbe essere pascolato dal pastore"? Colui, dunque, che si serve del gregge, per pascolar se stesso, non è un pastore buono. E da questo deriva che il pastore cattivo, anche quello materiale, non vuole subire nessun danno per il suo gregge, perché non si cura del bene del gregge, ma del proprio. Invece il pastore buono, anche quello materiale, si sobbarca a molte cose per il gregge, perché ne vuole il bene; perciò, Giacobbe in Gen 31,40, disse: "Giorno e notte ero bruciato dal freddo e dal caldo". Ma nel caso di pastori materiali, non si chiede che un buon pastore rischi la sua vita per la salvezza del gregge. Ma, poichè la salute spirituale del gregge è più importante della vita corporale del pastore, quando è in pericolo la salute eterna del gregge, il pastore spirituale deve affrontare anche la morte, per il suo gregge. Ed è questo che il Signore dice con le parole: "Il buon pastore dà la sua vita per le sue pecore"; è pronto a dar la vita sua temporale con responsabilità e amore. Due cose son necessarie: che le pecore gli appartengano e che le ami; la prima, senza la seconda, non basta. Di questa dottrina si fece modello Gesù Cristo. Leggi in 1Gv 3,16: Se Cristo ha offerto la sua vita per noi, dobbiamo anche noi offrire la nostra vita per i nostri fratelli.

(Tommaso d’Aquino, Ev. sec. Ioan., 10, 3, 1s.)



 

3. Il Padre ci ha affidati al suo Verbo, nostro divino Pedagogo

Gesù, Logos di Dio, pedagogo al quale Dio ci ha affidati come un padre affida i suoi bambini ad un vero maestro; e ci ha espressamente prescritto questo: "Questi è il mio Figlio diletto, ascoltatelo " (Mt 17,5 e parr.).

Il divino Pedagogo è del tutto degno della nostra fiducia, poich‚ ha ricevuto i tre ornamenti più belli: scienza, benevolenza e autorità. La scienza, perché egli è la sapienza del Padre - "ogni sapienza viene dal Signore ed essa è presso di lui per sempre" (Sir 1,1) -; l’autorità, perché egli è Dio e Creatore - "tutto fu fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto di ciò che esiste (Gv 1,3) -; la benevolenza, perché si è offerto da sè come vittima unica in nostro favore: "Il buon pastore dà la vita per le sue pecore" (Gv 10,11), e la dette, senza alcun dubbio. Ora la benevolenza altro non è se non volere il bene del prossimo, per sè stesso.

(Clemente di Ales., Paedagogus, XI, 97, 2-3)



 

4. Non ricerca di gloria o di potere, ma solo la volontà di Dio

La gloria in questo mondo, gloria vana, non darmi, o mio Maestro;

Non datemi la ricchezza transeunte, né talenti d’oro;

Non un trono eccelso, né potere su realtà che passano!

Mettimi con gli umili, con i poveri e tra i miti,

Divenga anch’io umile e mite

Quanto al mio ufficio, se non posso rivestirlo in modo utile,

Sì da piacerti e da stare al tuo servizio,

Permetti che ne sia discacciato

E ch’abbia a piangere solo, o Maestro, i miei peccati:

Mio solo intento sia il tuo giusto giudizio

E il modo di difendermi dopo averti tanto offeso!

Sì, o dolce, buono e compassionevole Pastore,

Che salvi vuoi tutti i credenti in te,

Abbi pietà, la prece che invio esaudisci:

Non irritarti, il volto tuo da me non sia distolto,

Insegnami a compiere il tuo divin volere,

Poiché non chiedo che si faccia la volontà mia,

Bensì la tua, e che servirti io possa, o Misericordioso!

(Simeone Nuovo Teologo, Hymn., 17)