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Il Presidente dei DS D'Alema

Il dopo elezioni del 13 maggio 2001 : Riflettere sugli ultimi 5 anni ma guardare al futuro

 

Le radici di una sconfitta
Berlusconi ha vinto ma non è riuscito a convincere la maggioranza assoluta degli italiani. Ci sono le condizioni per impedire svolte autoritarie o attacchi allo stato sociale se si fa tesoro dell’esperienza del passato e della nuova ripartizione delle forze in campo.

di Giovanni Sarubbi

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La sconfitta elettorale dell’Ulivo, con la conseguente "presa del potere" da parte di Berlusconi, viene da lontano. Paradossalmente essa è iniziata il giorno dopo la vittoria del 21 aprile del 1996 allorché l’allora PDS da un lato e l’allora PPI dall’altro, imboccarono la via della "Cosa 2" e del rafforzamento del centro. I massimi dirigenti di quei partiti non si resero conto che il pericolo di una svolta a destra era ancora ben presente nel paese e scelsero la strada della divisione interna al centrosinistra piuttosto che quella della emarginazione della destra a livello sociale e politico. L’estremismo inconcludente e parolaio di Rifondazione e del suo leader hanno fatto il resto, unitamente all’arrivismo di questo o quel dirigente del PDS o del PPI o di singole personalità politiche come Di Pietro o D’Antona che hanno fatto a gara non solo a danneggiare l’Ulivo ma anche se stessi, stando agli attuali risultati elettorali che consegnano la maggioranza degli italiani alla minoranza berlusconiana. Quest’ultima, infatti, raccoglie poco più del 42% degli elettori al senato e circa il 45% alla camera. "Divide et impera" dicevano i latini ed è quello che Berlusconi ha fatto. Ma andiamo con ordine. Ripercorriamo i momenti salienti degli ultimi 5 anni, partendo dalla vittoria dell’Ulivo del ’96, per comprendere come affrontare la nuova situazione che si è creata.

SU COSA SI BASÒ LA VITTORIA DELL’ULIVO NEL ‘96?

Determinante per la vittoria furono la formula politica inedita che venne proposta agli italiani e le iniziative che messe in campo a suo sostegno (il pullman, le varie convention all’americana, la stesura del programma comune della coalizione). Coloro che nel 1994 si erano presentati divisi si unirono prima per sostenere il governo di transizione di Dini e poi per costituire una coalizione che, per la prima volta dopo 45 anni, superava la contrapposizione fra i due maggiori partiti popolari del nostro paese e cioè la ex DC e l’ex PCI che insieme, durante la Resistenza, avevano lottato contro il nazifascismo. Il risultato, anche al di la della volontà di coloro che a livello nazionale promossero la coalizione, fu la mobilitazione di masse notevoli di cittadini.

Chi si mobilitò percepì una spiegazione della coalizione per così dire "buonista", che rafforzava gli elementi di unità piuttosto che quelli di divisione fra le forze politiche. Grande, infatti, fu lo spirito unitario che si realizzo fra la fine del '94 e l'inizio del '96. Unità suggellata anche da imponenti manifestazioni di massa contro le leggi liberticide del primo governo Berlusconi. E’ quello che fu definito poi lo "spirito del 21 aprile ‘96". Emblematico fu il dato elettorale che assegnò più voti alla coalizione nel suo insieme nei collegi uninominali (45,4) che ai singoli partiti nel sistema proporzionale (43,4). Alla gente, cioè, piaceva la coalizione e chiedeva il superamento dei singoli partiti.

Il risultato per "Il Polo" fu inverso con il 40,3% al maggioritario ed il 42,1% al proporzionale, con la Lega Nord attestata attorno al 10% dei voti su scala nazionale. La coalizione, così come era percepita dagli elettori, corrispondeva ai desideri di un’intera generazione di militanti dell’ex PCI e della ex DC, che si erano battuti per la realizzazione dell’ipotesi politica per la quale lavorarono Berlinguer e Aldo Moro.

PER LA PRIMA VOLTA SI MANIFESTA A FAVORE DI UN GOVERNO

Che questi siano stati i sentimenti diffusi fra gli elettori dell’Ulivo, lo si è potuto toccare con mano durante la prima crisi del governo Prodi provocata da Bertinotti in occasione della finanziaria del 1997: centinaia di migliaia di persone, non solo di sinistra, fecero pressione, furono definiti "il popolo dei fax", sui "rifondatori" per farli desistere dalle loro decisioni, cosa mai verificatasi nei cinquant’anni della Repubblica, che hanno dovuto registrare o il disinteresse della gente sulle sorti dei governi o decine di manifestazioni per farli cadere. Per la prima volta nella storia dell’Italia la gente si mobilitò a difesa di un governo che era percepito come proprio, qualcosa di cui ci si poteva fidare. La loro azione ebbe successo, la crisi rientrò, anche se in modo rocambolesco.

Il fatto che ex democristiani ed ex comunisti stessero insieme (un popolo unito), fu dunque l’elemento che fece vincere le elezioni all’Ulivo. Era il segnale forte della fine di un epoca. L’anno successivo, quando cadde il governo Prodi e venne eletto quello D’Alema, il "popolo dei fax" tacque: la rottura si era consumata fra base e vertici istituzionali.

LA QUESTIONE DELLA STABILITÀ DI GOVERNO

Decisive per la vittoria del ’96 furono, inoltre, anche le incaute dichiarazioni di Berlusconi sul fatto che, in caso di vittoria dell’Ulivo, non si sarebbe più votato per altri vent’anni. Si trattava di un lapsus freudiano ma quella dichiarazione trasmise alla gente la convinzione che con l'Ulivo si sarebbe andati incontro ad un lungo periodo di stabilità, quella stabilità che il governo Berlusconi non era riuscita a garantire nel 1994. L’Ulivo fu premiato perché diede agli elettori la sensazione di poter garantire proprio quello che la gente chiedeva.

LO SPETTRO DEL FASCISMO

Decisivo per la mobilitazione di migliaia di militanti, fu il dramma vissuto nei sei mesi del governo Berlusconi e non solo sulle questioni economiche quali le pensioni. Il vedere Maroni al Ministero dell’Interno o i ministri ex Msi nelle stanze dei bottoni; il vedere un tentativo di rivalutazione culturale di Mussolini da parte di Fini, che lo definì il più grande statista del 1900, o della marcia su Roma, sono state le cose che spinsero migliaia di persone in tutta Italia, a ritornare alla politica, buttandosi dietro le spalle le vecchie certezze e le vecchie contrapposizioni. In gioco era il destino dell’Italia.

ANDARE OLTRE I SINGOLI PARTITI

La vittoria dell'Ulivo provocò anche un profondo movimento all'interno dei militanti dei vari partiti che si erano mobilitati. Migliaia di militanti dei partiti di centro-sinistra, pensarono che potesse concepirsi una coalizione nella quale ci si potesse sentire tutti di centrosinistra, senza il trattino. Tutti cioè contemporaneamente di centro e di sinistra, senza rinnegare nulla della propria storia ma anche senza attardarcisi sopra, nella consapevolezza di dover tutti cambiare qualcosa di se stessi per affrontare le sfide del futuro.

E’ con questo spirito, per esempio, che ad Avellino ci fu chi, nel PDS, si batté con successo, contro la maggioranza del gruppo dirigente arroccato su posizioni anti PPI, per far vincere i candidati dell’Ulivo in tutti e sei collegi, pur essendo essi appannaggio, per i 5/6, di ex democristiani passati nel PPI fra cui Ciriaco De Mita, già segretario della ex DC.

Si trattava di cambiamenti forti, di un impegno determinante per il futuro dell’Italia. La prospettiva nazionale fu la molla che fece mettere da parte le beghe locali tipiche della provincia italiana.

Ebbene quella spinta ideale, quella mobilitazione di energie umane è stata tradita. Lo è stato, come dicevamo all’inizio, un attimo dopo le elezioni del ‘96, con il lancio della "Cosa2" da parte di D’Alema e dall’altro con il tentativo di rafforzamento del cosiddetto centro.

L’allora vicepresidente del Consiglio Veltroni, lasciò sperare in qualcosa di diverso perché sostenne la necessità di garantire un lungo periodo di stabilità politica e di governo del paese: i partiti del centrosinistra non dovevano competere fra loro ma governare il paese per garantire ai cittadini il diritto alla governabilità, cioè alla risoluzione dei problemi concreti per troppo tempo messi in secondo piano rispetto agli appetiti economici delle varie lobby che controllavano il parlamento ed il governo del paese e che sfociò in tangentopoli. Questo pensavano migliaia di semplici militanti di base e semplici cittadini, preoccupati dall’instabilità determinata da tangentopoli e dalla Lega e dalla possibilità che la destra potesse di nuovo diventare forte. Ma la posizione veltroniana durò poco e fu lasciata cadere quasi del tutto.

Che la stabilità dovesse essere la linea da seguire, lo dimostrano anche i magri risultati conseguiti sia dalla "cosa2" che dal parallelo rafforzamento del "centro". Praticamente nulli per il PDS i risultati della trasformazione in DS. Di altrettanta inconsistenza il rafforzamento dell’area di centro, che portarono al distacco del gruppo facente capo a Cossiga-Mastella dal Polo con la formazione dell’UDR, sfasciato però subito dopo la sua creazione, proprio dal suo fondatore. Analoghe le vicende di Rinnovamento Italiano, dei sindaci di Centocittà, del movimento de "I democratici": nessuno di questi movimenti è riuscito ad andare al di la di coloro che già si sentivano di centrosinistra. La stessa Margherita, ultima nata al centro dell’Ulivo, non ha fatto altro che riequilibrare i voti che già stavano nel centrosinistra.

L’ESPLOSIONE DELLA CRISI

La crisi dell’Ulivo si è manifestata con la caduta del governo Prodi nel 1988. Con la nascita del governo D’Alema, il paese tornò in piena instabilità politica. Il "popolo dei fax" che l’anno prima aveva ricondotto Bertinotti all’ovile tacque. Rifondazione si spaccò in due ed il governo D’Alema nacque con i voti di Cossiga e di Mastella che si erano staccati dal Polo. Quel governo nacque dopo la sconfitta della Bicamerale maturata sulla questione della Giustizia, con Berlusconi, a cui si era dato il credito di "padre costituente" della cosiddetta "seconda repubblica", mettere innanzitutto al centro le sue pendenze con la giustizia piuttosto che gli interessi del paese.

La sconfitta della Bicamerale non fu però percepita dalla gente come una responsabilità di Berlusconi, come obbiettivamente è stato, ma come un grave errore di D’Alema che a Berlusconi aveva dato credito, salvandolo così, fra l’altro, dal fallimento delle sue aziende.

LA GUERRA DEL 1999

Subito dopo la formazione del governo D’Alema l’Italia, fin dal primo momento, entra nell’Euro che inizia la sua vita il primo gennaio del 1999. Ma la strada per la nuova moneta è cominciata subito in salita. Di li a pochi mesi, e forse proprio per piegare l’Euro agli interessi USA, scoppiò la guerra in Kossovo. Quella guerra fu voluta dagli USA e dall'Inghilterra proprio con lo scopo di piegare i paesi dell'Euro e per colpire l'economia europea che poteva mettere in discussione la loro supremazia economica.

E la guerra creò divisioni profonde a tutti i livelli, dal Governo nazionale in giù. Coloro che erano per la pace si ritrovarono ad essere una sparuta minoranza non solo a livello di potere politico ed economico, ma anche a livello sociale.

Nonostante la decisa opposizione alla guerra manifestata da Giovanni Paolo II, il cosiddetto mondo cattolico si schiera a favore dell’intervento in Kossovo. La sinistra si spacca ulteriormente, con i DS assumere una posizione rigidamente filoatlantica e subalterna agli interessi USA.

Ne venne fuori una politica "cerchiobottista", con l’invenzione della "Missione Arcobaleno" da un lato e con l’aviazione italiana impegnata a bombardare il Kossovo insieme agli altri aerei della Nato. Da un lato le Bombe sul Kossovo a Nord, dall’altro in Albania, a sud, la "missione arcobaleno" impegnata ad accogliere i profughi che le bombe facevano fuggire. Nonostante l’allarme lanciato dagli ambientalisti e dai pacifisti, nessuno si curò dei proiettili all’uranio. Migliaia di giovani italiani fecero la fila per arruolarsi volontari, col miraggio di guadagnare 5 o sei milioni al mese. Andarono alla guerra come i loro nonni sotto Mussolini durante le guerre coloniali, per soldi, per arricchirsi, non importa se a danno di un’intero popolo o della propria salute.

La posizione guerrafondaia attraversò tutte le componenti sociali e tutte le confessioni religiose. Ci furono parroci cattolici che criticarono apertamente il loro Papa per la posizione pacifista assunta. Ci furono chiese protestanti che si schierarono a favore della guerra e pastori che parteciparono ad iniziative di pace a Belgrado bombardata dagli aerei Usa. Trionfò la cultura della guerra. Gli ex comunisti dimenticarono che lo stesso Lenin nel 1915 così scriveva: "I socialisti hanno sempre condannato le guerre fra i popoli come cosa barbara e bestiale" (Il socialismo e la guerra in Opere Scelte, vol. 2 pag. 379, Editori Riuniti-Edizioni Progress Mosca). Il cardinale Martini in Italia manifestò, in un’intervista al Corriere della Sera di Milano, la sua "comprensione per i piloti che andavano a bombardare". Fu insomma la più grande sconfitta che un governo di centro sinistra potesse ottenere.

E la punizione non si fece attendere. Subito dopo la fine della guerra si votò in Europa per il parlamento europeo ed i partiti dell’Ulivo riportarono un magro risultato. Vinse la destra con FI primo partito. Subito dopo quei risultati cominciò il riavvicinamento di FI con la Lega che venne sancito alla fine del ’99. Da quel momento in poi FI accentua la sua campagna anticomunista con toni sempre più accesi. Giunge persino a farsi scrivere il "catechismo dell’anticomunismo" da quel Baget Bozzo, prete, già deputato europeo del PSI e ora passato armi e bagagli in FI. Ed è proprio Baget Bozzo ad iniziare l’operazione di sdoganamento del nazismo, come già Berlusconi aveva fatto con Fini nel 1993 al momento del suo scontro con Rutelli per la carica di sindaco di Roma. E’ Baget Bozzo che definisce il comunismo come "il peccato che non sarà mai perdonato", mentre del nazismo parla come di un peccato tutto sommato veniale.

La vittoria della destra alle regionali del 2000, manda letteralmente in crisi di idee il centrosinistra. D’Alema, che pure aveva avuto il merito di aver inventato la formula dell’Ulivo, prende atto dei suoi errori e si dimette da ministro. Ma oramai è troppo tardi. La rissosità nell’Ulivo, la sua incapacità a fare alleanze con Rifondazione o con Di Pietro, ha dato la vittoria alla destra che però risulta minoranza nel paese.

Ora non serve dividersi, né piangere sul latte versato, su ciò che si sarebbe potuto fare e che invece non è stato fatto e via recriminando.

Serve fare tesoro di tutto ciò che c’è stato alle nostre spalle e soprattutto non servono fughe in avanti, estremismi verbali o autocompiacimento tipo "io l’avevo detto che finiva così". La divisione, sia al momento del voto, sia nel dopo voto, non paga, soprattutto per coloro che intendono rappresentare i ceti più deboli e sfruttati della popolazione.

Negli ultimi mesi il recupero del centrosinistra c’è stato ed ha impedito che la destra potesse avere i numeri per cambiare la costituzione senza dover ricorrere al referendum popolare di conferma. Visto quello che si prospettava è un risultato eccezionale che va valutato attentamente e che non va sprecato.

Così come non vanno sottaciuti sia la questione morale, che ritorna di nuovo prepotentemente a galla per l’alto numero di inquisiti di nuovo presenti in parlamento, sia il pericolo della destra estrema, dei gruppi neonazisti che possono contare alcune decine di migliaia di militanti, soprattutto giovani, sparsi su tutto il territorio nazionale.

Oggi più che mai, dunque, serve l’unità di tutte le forze di opposizione ad un governo che conta di governare fino al 2006.


"Il Dialogo - Periodico di Monteforte Irpino" - Direttore Responsabile: Giovanni Sarubbi

Registrazione Tribunale di Avellino n.337 del 5.3.1996