"lettere dal palazzo"
Costituzione, lavoro, armamenti

( agli atti del convegno di Torino sulla Tyssen Krupp )


di Lidia Menapace

11 febbraio 2008

Quando ho sentito l’inizio della canzone per i morti della Thyssen Krupp, composta da un compagno operaio, ho avuto una emozione profonda e una retrodatazione che mi colpisce sempre quando sento una sirena che suona a lungo quasi senza modulazioni: per le persone della mia età la sirena che suona a lungo è guerra, è bombardamento aereo. Questa volta poi sul suono profondo e cupo della sirena si sono sentite anche esplosioni e l’identificazione è stata totale: è guerra, è guerra e non si può parlare di "morti bianche". A me per la verità non piace tanto nemmeno dire "caduti", che è un ipocrita eufemismo, solo un po’ meno grande del precedente: bisogna dire "uccisi", "morti ammazzati". E l’omicidio è un crimine che non conosce prescrizione.

Vorrei introdurre a questo punto una argomentazione che a mio parere sostiene la nostra ferma convinzione che la questione del lavoro non è "corporativa", ma pienamente politica, e nemmeno però generalgenerica, ma pienamente di indirizzo politico, di specificità politica.

E così argomento: la Costituzione dice che l’Italia è -per forma- una repubblica; -per metodo- una democrazia, e per fondamento ha un valore che si chiama "lavoro". Queste parole non sono da prendere una alla volta, ma sono profondamente connesse tra loro e legano i primi 11 articoli, i quali disegnano per l’appunto il volto della Repubblica italiana. Qui bisogna ricordare subito che quel volto è di pace e di ripugnanza e ripudio della guerra in qualsiasi forma. Sicchè i compiti della repubblica sono da combinare in modo che si costruisca uno stato che tiene conto di tutte le mete, indicate per l’appunto nei primi 11 articoli.

Prendiamo la questione delle fabbriche di armi: esse sono certamente "lavoro"; ma un lavoro che non rispetta l’art.11 e quindi una politica costituzionale corretta vuole che esse vengano sottoposte ad analisi che ne delimitino rigorosamente i confini difensivi e le trasformi in fabbriche di altri prodotti utili e non bellici. Ancora: se le donne hanno difficoltà maggiori per ragioni storiche o di costume o altro, ad accedere al lavoro, la repubblica deve rimuovere quegli ostacoli. E come si fa? ammettendo anche le bambine ragazze e donne a tutti i gradi e livelli dell’istruzione (e questo è avvenuto), curando che si distribuiscano con equilibrio verso tutti i tipi e gradi di studio, perchè non vi siano ghetti professionali femminili, ma libertà di scelta della propria strada (e questo non è ancora attuato). Quindi bisogna fare politiche scolastiche che indirizzino anche il genere femminile verso gli studi scientifici usando giochi, che non vedano le bambine solo con l’orrenda Barbie (e i maschietti con pistole-giocattolo), indicando anche -se occorre- i grandi esempi di madame Curie e Montessori e Levi Montalcini. E rimuovere le forme di organizzazione sociale che ne ostacolano l’accesso al lavoro. Il che significa che bisogna avere una rete di servizi sociali che surroghino il lavoro non pagato delle donne nel casalingato, cioè servizi pubblici tendenzialmente gratuiti come asili nido, scuole dell’infanzia, personale per le situazioni di malattia, condizioni di anzianità e insomma tutti i servizi che ben conosciamo: questo configura quella forma di stato che chiamiamo "stato sociale" e che, a parte la sua intrinseca alta civiltà, è assolutamente necessario perchè le donne possano accedere al lavoro in condizioni di relativa parità. Inoltre le professioni di cura sono quelle verso le quali le donne si indirizzano spontaneamente, perciò una politica siffatta ridurrebbe anche la disoccupazione femminile. Uno stato che soddisfa universalmente come diritti soggettivi esigibili i bisogni sociali che ho sommariamente elencato è uno stato le cui risorse vengono usate nei servizi e non per fare la guerra, che risulterebbe subito non solo un divieto costituzionale, ma anche strutturalmente un "lusso" che non ci possiamo permettere. Dico incidentalmente che il lavoro non pagato si chiama "riduzione in schiavitù" ed è per questo che il lavoro casalingo non viene considerato lavoro: le casalinghe dovrebbero essere liberate da questo ostacolo culturale per modificare la definizione di lavoro e il calcolo del PIL.

E si vedrebbe con ciò anche la strada da seguire per fare delle fabbriche di armi fabbriche di sussidi sanitari, pedagogici, aiuto alla disabilità, costruzione di palestre corsi di ginnastica esercizio sportivo, tutela del territorio e delle sue risorse e bellezze e patrimonio artistico ecc.ecc. Insomma lo stato sociale è quello che consente di sviluppare il lavoro in senso pienamente costituzionale, adempiendo anche altri solenni impegni della Costituzione: la pace, l’eguaglianza, la lotta contro gli ostacoli e le discriminazioni ecc.

In questo modo la presenza dei lavoratori e delle lavoratrici esce da qualsiasi nicchia assistenziale e diventa pienamente politica, sostegno e realizzazione della forma di stato che dopo le tremende esperienze della guerra di aggressione, del colonialismo e del razzismo abbiamo costruito e che possiamo anche presentare all’Europa come uno dei modelli possibili di stato democratico.

Aggiungo solo un paio di notazioni: ho sentito un compagno parlare con disprezzo della "riduzione del danno": eppure ogni politica di riconversione di fabbriche d’armi in fabbriche di cose utili è una riduzione del danno ed è l’unica strada per fare qualcosa, dato che la chiusura immediata e completa delle fabbriche d’armi sarebbe rifiutata dagli stessi operai che ci lavorano, a tutela del loro lavoro, e finirebbe per spaccare la classe e impedire alcunchè.

Persino la 194 che difendiamo dagli attacchi vaticani è una "riduzione del danno": l’aborto non è un diritto, ma una facoltà che viene riconosciuta alle donne per ridurre il danno dell’aborto clandestino e consentire con l’uso dei contraccettivi di governare la riproduzione, come gridavamo negli anni in cui abbiamo lottato per avere la 194:"aborto libero per non morire, contraccezione per non abortire". Credo che il massimalismo di certe dichiarazioni configuri la solita malattia infantile, come diceva Lenin.

E a proposito di bandiere e stelle rosse e falci e martelli, sono certo simboli cari e significativi, ma non ci si può attaccare ad essi nominalisticamente: sono importanti i contenuti. Per fare un esempio, a me non sembra che la Cina di oggi che pure è governata da un solo partito che si chiama comunista e ha simboli del tutto tradizionali possa essere considerata uno stato comunista e nemmeno socialista: è assolutamente capitalistico, con le forme esteriori della democrazia che lo stesso capitalismo doc ha ormai ridotto al rito elettorale che sappiamo benissimo quanto può essere mistificato. Un modello che credo piaccia molto anche da noi, come forma di democrazia autoritaria.



Luned́, 11 febbraio 2008