"lettere dal palazzo"
Finanziaria : ICI e Vaticano

(motivi di un’astensione)


di Lidia Menapace

( da Liberazione 9 novembre 2007 )


La questione "Ici e Vaticano", sulla quale mercoledì l’aula del Senato ha respinto un emendamento socialista dà luogo a molti fraintendimenti. E’ noto che il gruppo Prc/Se si è astenuto e certo non senza sofferenza. Ai molti compagni/e che ci chiedono perché non abbiamo votato insieme ai socialisti vorrei chiarire che la proposta dei socialisti non era stata discussa con l’intera sinistra, per non parlare dell’insieme dell’Unione, dove gli equilibri al Senato sono troppo delicati per consentire margini sostanziali di autonomia. Inoltre sarebbe stato anche bene che la posizione un po’ massimalista della prima stesura del loro emendamento non fosse stata corretta all’ultimo minuto. Nella prima stesura volevano far pagare l’Ici anche al bar dell’oratorio, il che è eccessivo, mentre avevano pienamente ragione sulla questione vera: la concorrenza sleale di moltissimi alberghi, pensioni, ristoranti in tutte le città d’arte e lungo le due spiagge gestite da religiosi. Ma la questione ancora più vera sulla quale siamo - credo - a sinistra tutti e tutte d’accordo è che nel Parlamento italiano c’è una sorta di censura preventiva su tutto ciò che riguarda il Vaticano. La cosa è cominciata in questa legislatura dal discorso del Papa a Ratisbona per arrivare al divieto di discutere dell’otto per mille, come materia che sarebbe già attribuita al concordato e poi anche alla questione dell’Ici. Chi propone posizioni laiche sa già di essere minoranza, tuttavia si ha diritto di conoscere consistenza e collocazione politica di tale minoranza e anche avere la possibilità di esporre i propri argomenti in modo da diventare maggioranza: in democrazia non c’è altra strada che l’esercizio del diritto di parola e l’abilità di convincere altri. In verità in questo Parlamento un problema enorme è la fragilità delle opinioni sulla laicità dello Stato, massimamente in presenza di un Pontificato che esegue una politica da Sillabo (dei tempi di Pio IX perciò) senza alcuna incertezza. A questa fragilità dà ampio spazio il PD che al suo interno alberga non solo un gruppo di cattolici integralisti, ma anche residui di togliattismo sofisticato e un po’ indifferente. Il che fa una miscela poco gradita. L’altro grande problema è che tutta la maggioranza non ha ancora ben elaborato che cosa sia un Governo di coalizione. Infatti una coalizione non è né - ovviamente - il Governo di una sola forza maggioritaria, ma nemmeno la copia di un Governo democristiano tripartito o quadripartito. Infatti in questa ultima locuzione che fa ricordare molti Governi, se non tutti, della prima Repubblica, il Governo è costituito come una società per azioni, nell’interno della quale chi è azionista alquanto minoritario, vende cari i propri voti, in una sorta di condizione di perenne ricatto. Una coalizione invece è un accordo tra forze politiche che già si sanno differenti e che si giudicano componibili sulla base di un programma concordato. Nei Governi di coalizione non vale, se non in maniera attenuata, il brutale rapporto di forze, cosa che Dini e anche altri più atteggiati da ex Governo ad egemonia DC della prima Repubblica sembrano non capire. Nei Governi di coalizione le decisioni si prendono col metodo del consenso, cioè trattando fino ad un punto di accordo. Esattamente ciò che stiamo facendo sul "pacchetto sicurezza". Un grave vulnus a questo metodo è stato inferto alla prima crisi di Governo del centro sinistra quando ai voti determinanti per la sua messa in minoranza di Andreotti, Cossiga, e Pininfarina, si aggiunsero i voti non determinanti, ma politicamente pesanti di Turigliatto e Rossi. Prodi prese la palla al balzo e decretò che da quel momento avrebbe avuto valore il dodecalogo da lui stabilito e la sua parola come decisione ultima. E’ difficile ma necessario risalire da questa condizione a quella originaria di Governo di coalizione che decide col metodo del consenso. Come se anche ai nostri tempi valesse il significato che la carica di dittatore aveva nell’antico ordinamento romano: il dittatore dura in carica sei mesi e poi si ristabilisce una più complessa e matura democraticità.
P.S. Tornando un momento agli esercizi commerciali della chiesa, vorrei anche fare riferimento allo sfruttamento del lavoro delle suore: infatti, a somiglianza di Maria, molte di loro si dichiarano "ancilla Domini", non certo ancilla del cliente. Anni fa le suore ospedaliere rivendicarono il diritto a remunerazioni e contratti di lavoro regolari. Non solo è una questione di giustizia, ma anche di libertà. Infatti non tutte le suore sono soggette a voti perpetui: molti ordini religiosi ripetono i voti ogni cinque o dieci anni: ma se non è possibile avere una professione riconosciuta e un salario contrattuale, la ripetizione del voto diventa obbligatoria. Come sempre, la condizione delle donne è un po’ più sfavorita.



Sabato, 10 novembre 2007