"lettere dal palazzo"
nonviolenza e azione non violenta

di Lidia Menapace

30 ottobre 2007
Ho molte cose da raccontare, il viaggio ad Atene, la recita al teatro Valle, il dibattito a Capannori sull’uccisione non ancora giudicata di Emanuele Sceri morto otto anni fa nella caserma di Pisa della Folgore e che dobbiamo impegnarci a non lasciar cadere nell’oblio.
Ma per ragioni di tempo e di scadenze e anche perchè mi parrebbe ingiusto lasciare -da parte mia- senza un cenno le generose acute argomentazioni piene di saggezza e di speranza di Peyretti sulla nonviolenza, voglio appunto parlare di "nonviolenza" e di "azione nonviolenta".
L’assolutezza della nonviolenza non si discute, ma la concretezza dell’azione nonviolenta invece ha bisogno di molta discussione e anche di stabilire procedure, esempi, progetti, ricadute, risultati, rapporti di forza, tempi e strumenti. Almeno questa è la mia opinione, dato che non mi saprei accontentare di una dichiarazione di principio sempre uguale e sempre contraddetta da rapporti di forza che mutano; e se noi che ci reputiamo inclini alla nonviolenza non mutiamo mai, rapporti sempre più squilibrati a favore della violenza, che oggi ha infatti una assai ampia legittimazione in moltissime persone ed è una cultura egemone. Non solo nella mostruosità della guerra, ma anche nella quotidiana richiesta di misure di sicurezza contro immigrati prostitute lavavetri ambulanti nomadi ecc.ecc.
Altra cosa da tener presente è che se la nonviolenza è sempre affermabile, l’azione nonviolenta deve essere affermata e proposta in un preciso momento, altrimenti diventa inagibile. Faccio un esempio che mi riguarda. Quando incominciai ad occuparmi dell’Afghanistan, che era citato nel programma dell’Unione in modo meno perentorio dell’Iraq, dato che in effetti alcune differenze tra i due casi, sia pure solo dal punto di vista diplomatico, ci sono (e a me pare che dovremmo tener presente il motto di Tommaso d’Aquino:"distingue frequenter" "distingui spesso") e quindi la richiesta di immediato ritiro era improponibile, anche perchè l’Afghanistan è paese sovrano e non si può trattarlo come una colonia andandoci, venendo via senza trattare col suo governo, mi cominciai a chiedere che cosa potessi proporre per ridurre il danno. Partii dalla considerazione che il problema forse principale era l’enorme crescita della coltivazione del papavero da oppio, che produce eroina in quantità decuplicata da quando c’è la guerra. Le truppe Usa bruciano i raccolti, i Talebani li difendono e i contadini stanno ovviamente con i Talebani. Bisognava trovare chi potesse controllare il raccolto, non distruggerlo, venderlo a prezzo remunerativo per i contadini alle industrie farmaceutiche, per fare antidolorifici, proporre per gli anni avvenire altre colture concordando gli interventi anche con il mercato equo e solidale: insomma rimettere in piedi una agricoltura sana e remunerativa. Bisognava trovare chi potesse fare il lavoro di controllo dei raccolti: mi venne in mente la Finanza, che è un corpo armato, ma non combattente (riduzione del danno), e che quando il tabacco era monopolio di Stato da noi, aveva controllato i raccolti foglia per foglia. La proposta fu accolta da irrisione insulti e minacce dalla destra e da sinistra praticamente dal silenzio e dall’indifferenza. Che cosa mi sarei aspettata? che qualcuno facendo una piccola ricerca trovasse che per l’appunto di questo tipo è la proposta che avanza l’Oms, in quattro paesi, e che non ha avuto grande successso, ma forse non era previsto un corpo addestrato come la Finanza, oppure si potrebbe tentare di fare meglio. Ma ormai la proposta è da buttare, la situazione è peggiorata e non si può più intervenire in questa forma. In ogni modo sono ora meno rare e meno flebili le voci che chiedono il ritiro: è il momento di studiare bene un piano di ritiro e proporlo e trattarlo, altrimenti arriviamo alla prossima scadenza sempre superati dagli eventi.
Può anche bastare, dopo che avrò avanzato una nuova proposta, e spero che qualcuno vorrà rispondere. In questi mesi mi sono occupata di militari, dato che faccio parte della commissione ad hoc, e ho constatato che è fortissima la spinta alla sindacalizzazione: la appoggio pienamente, anche contro mistificazioni che vengono dai comandi e dai partiti di destra che temono moltissimo un esercito non più dedito al più acritico "signorsì"
Dopo la sindacalizzazione che stiamo discutendo ed è stata presentata una legge in proposito da Silvana Pisa, Giannini e me, con l’appoggio della Cgil e molto consenso dai Cocer, vorrei aprire ii dibattito sul diritto all’obiezione di coscienza anche per i militari non di leva, ma di professione. Oggi chi trovasse un contrasto insanabile tra ciò che ha firmato con ingaggio e gli ordini che riceve ha la sola strada di dimettersi e non mi pare giusto che sia la sola: si potrebbe aprire il diritto all’obiezione di coscienza e trasferire l’addestramento e la conoscenza di quei militari ai Corpi di pace o di intervento di vario tipo non combattente, per la polizia internazionale. Non mi sembrerebbe sbagliato usare un addestramento che già c’è per rifornire reparti molto difficili e che richiedono grande perizia e nessuna improvvisazione.
Ogniqualvolta si parla di caschi bianchi, di corpi di pace ecc., a me viene in mente che sono necessarie persone addestratissime e molto capaci e molto professionali: altrimenti ci ritroviamo sempre con la generosa e inutilizzabile risorsa delle ong ( che sarebbe criminale utilizzare come lo è stato lasciarle andare senza nessuna protezione nelle zone a rischio di uranio impoverito: la commissione comincerà ad occuparsi anche di loro), non addestrate alla bisogna. E’ appena un cenno, ma non mi spiacerebbe che qualcuno lo prendesse in considerazione. grazie



Marted́, 30 ottobre 2007