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Una manifestazione del gruppo Neonazista di Forza Nuova

Le elezioni del 13 maggio 2001

Da che parte viene la violenza

 di  Marco Travaglio

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«Onorevoli colleghi, il fatto è davvero grave. (...) Un’attività spionistica ai danni del leader dell’opposizione che, da chiunque sia stata ordita, rientra perfettamente nel panorama non limpido della vita nazionale. Mai, in nessun periodo della storia repubblicana, sono gravate sulla libera attività politica tante ombre e tanto minacciose. (...) Le aule parlamentari possono diventare ricettacolo per attività spionistiche di agenti provocatori (...) delazione, provocazione, spionaggio. (...) Nella giustizia malata di questo paese siamo arrivati fino alle intercettazioni virtuali. (...) Si arriva al punto di falsificare un teste d’accusa affermando che si tratta della registrazione scritta di un’intercettazione ambientale mentre è soltanto il resoconto sommario di un origliamento da bar». L’allarme era grave, e l’ora drammatica, quel 16 ottobre 1996, quando dinanzi all’aula di Montecitorio gremita come non mai il cavalier Silvio Berlusconi arringò gli onorevoli colleghi, mai così sgomenti e silenti. Cinque giorni prima, l’11 ottobre, dietro un termosifone della sua magione di via del Plebiscito a Roma, lo statista di Milanello aveva rinvenuto una cimice. Subito, prima ancora di avvertire i carabinieri e la procura, aveva avvisato prima l’amico Massimo» (D’Alerna, segretario del Pds e candidato alla presidenza della commissione Bicamerale per le riforme istituzionali) e poi le telecamere dell’amica Rai e dell’amica Mediaset. La microspia, delle dimensioni di un frigobar, «era molto sofisticata e perfettamente funzionante, tanto da poter trasmettere fino a 300 metri di distanza», almeno secondo le parole usate dal Cavaliere, nell’improvvisata conferenza stampa a caldo. Sotto accusa le fantomatiche «procure eversive», che pur di spiare il capo dell’opposizione calpestano l’immunità parlamentare. La cosa destò unanime scalpore, si invocarono immediate riforme contro il malvezzo delle intercettazioni. si denunciò l’ignobile attentato al leader dell’opposizione. Clima da vigilia di golpe, allarme democratico ai massimi livelli. Il presidente della Camera Luciano Violante, sempre cosi sensibile, convocò d’urgenza l’assemblea in seduta straordinaria. E lì, al microfono, si alternarono i leader della maggioranza e dell’opposizione. Solo Maroni e Veltri, malfidati, ipotizzarono che il Cavaliere la cimice se la fosse messa da solo.

Il professor Buttiglione parlò di «scandalo non inferiore al Watergate». Lamberto Dini denunciò: «Sono a rischio le libertà fondamentali». Mussi reclamò un’imprescindibile «riforma dei servizi segreti». Manconi addirittura il licenziamento in tronco di «tutti i vertici di tutti i troppi servizi di informazione, intelligence, spionaggio e controspionaggio». Previti mise subito le mani avanti:

«I servizi non centrano e non si toccano». Gli onorevoli di An Lo Presti, Fragalà, Simeone e Cola invocarono una commissione parlamentare d’inchiesta. Craxi si fece sentire da Hammamet: « E’ un’azione da professionisti, una sporca operazione a orologeria politica». Sgarbi colse l’occasione per chiedere le immediate dimissioni di Antonio Di Pietro da ministro dei Lavori pubblici. Tiziana Maiolo parlò «di rapporti occulti e illegali fra politica, magistratura e criminalità». Mancuso si limitò a un laconico commento: « Villani!». Rebuffa ventilò una «guerra per bande fra apparati polizieschi e giudiziari». Taradash puntò diritto sui «poteri occulti», magari collegati con «qualche procura che non perde occasione per farci sapere che la Costituzione non conta nulla». Paolo Cento tuonò contro il «clima torbido e chiese l‘intervento del Viminale. Pisanu evocò le «procure deviate» e gli «agenti provocatori penetrati in parlamento per indurre i deputati a commettere reati». La Loggia minacciò: «Qualcuno dovrà pagare».

Ma non pagò nessuno. Anche perché, a pagare, avrebbe dovuto essere la presunta vittima del presunto attentato: il cavalier Berlusconi medesimo. Infatti fu indagato, per truffa e simulazione di reato, un tal Paolo Izzi, titolare della «Sirte Service» di Pomezia, chiamato dallo stesso Berlusconi a «bonificare» la sua dimora, e sospettato di aver piazzato il cimicione (un ferrovecchio che non funzionava da anni) per poi farlo ritrovare. Un cimicione fatto in casa. Così la procura di Roma chiese mestamente l’archiviazione della tragicomica denuncia del leader di Forza Italia per spionaggio politico, violazione di domicilio, intercettazione abusiva, abuso d’ufficio e addirittura attentato ai diritti costituzionali del capo dell’opposizione. E il gip Salvatore Giangreco accolse la richiesta, stendendo un velo pietoso sulla grottesca vicenda.

Ma se le presunte minacce al Cavaliere si sono rivelate, fin qui, altrettante bufale, non possono dire la stessa cosa alcuni personaggi che hanno attraversato la sua strada senza chiedergli il permesso.

Gianfranco Mascia, 33 anni, pubblicitario di Ravenna e (lirigente dei Verdi del «Sole che ride», fondò i comitati Bo.Bi., «Boicottiamo il Biscione», nel ‘93, alla vigilia della «discesa in campo» del Cavaliere. Un giorno si presentò nella sede di Forza Italia del suo comune per iscriversi, sotto falso nome, al nuovo partito. Poi andò da Michele Santoro, a Il Rosso e il Nero, e raccontò la sua esperienza di insider. Un’altra volta, a Torino, si calò in una fontana per contestare una visita pastorale di Berlusconi, con lo striscione: «Rema contro l’Unto, sgrassa con Bo.Bi.». Il primo avvertimento anonimo gli arrivò sul telefonino: «Smettila di rompere i coglioni. Hai la voce da deficiente. Sei una testa di cane. Bastardo. Vi conosciamo tutti. Vi spacchiamo il culo. Gruppo Silvio Forever». Dalle parole ai fatti: il 24 febbraio ‘94, a un mese dalle elezioni, in pieno giorno (ore 11), due uomini a volto scoperto fecero irruzione nel suo studio, appena fuori città. «Sei tu Gianfranco Mascia?». «Sì, perché?». «Finalmente ti abbiamo trovato. Tu lo sai perché siamo qui». Gli immobilizzarono le mani e le gambe col filo di ferro, gli otturarono la bocca con un tampone. A seguito delle bestiali violenze svenne e riacquistò i sensi solo dopo due ore. Fu ricoverato in stato di choc, subì serie conseguenze a livello psicologico, non riuscì mai a identificare i suoi aggressori. Furono sospettati due buttafuori di una discoteca del Veronese, ma poi l’inchiesta finì in nulla. Intanto il portavoce del Bo.Bi. di Bologna, Filippo Boriani, consigliere comunale dei verdi, denunciò di aver ricevuto una busta per posta: dentro, una lingua di vitello mozzata e un biglietto con scritto: «La prossima sarà la tua».

Edoardo Pizzotti, direttore degli affari legali di Publitalia, venne licenziato su due piedi nell’autunno ‘94, dopo aver rifiutato di coprire i maneggi di un nuovo pittoresco «consulente» dell’azienda, l’avvocato cuneese Giorgio Bertone, ingaggiato da Marcello Dell’Utri per distruggere le carte compromettenti sulle false fatture appena scoperte dalla procura di Torino. Il primo e l’ultimo dirigente mai licenziato nella storia del gruppo Fininvest. «Fu», racconta Pizzotti al processo di Torino a carico di Dell’Utri, nel 1996, «una rappresaglia per essermi io rifiutato di coprire le attività illecite dell’avvocato Bertone e di altri personaggi», Dell’Utri compreso. Pizzotti fu licenziato in tronco il 20 ottobre ‘94. L’indomani cominciò a ricevere strane telefonate mute, chiaramente minatorie, a casa. Telefonate che, come dimostrano i tabulati Telecom, provenivano dal suo apparecchio d’ufficio a Publitalia. Altre lo raggiunsero «da località balneari del Sud della Francia». Poi, «il giorno immediatamente dopo l’udienza dal pretore del lavoro (cui s’era rivolto per far annullare il licenziamento, n. d. a.), il 17 gennaio ‘95, pochi giorni dopo che ero stato a Torino a deporre come teste (in procura, sulle false fatture di Dell’Utri, n. d. a.), ero in centro a Milano. Pochissimi minuti prima delle 6, mi sono avvicinato a una cabina "a guscio" per telefonare a mia moglie, e mentre stavo armeggiando sono stato preso alle spalle, diciamo un po’ rivoltato. Io ho fatto un po’ di resistenza. C’erano due figuri, uno mi si è piazzato diritto in faccia, l’altro invece girava un po’ attorno, e mi ha detto delle espressioni, le prime assolutamente incomprensibili, direi in dialetto campano, poi m’ha detto: "Guarda che ti facciamo scoppiare la testa, te la facciamo scoppiare davvero!, ha girato attorno e poi i due se ne sono andati per la strada». Nei mesi seguenti, ancora «un’infinità di telefonate mute, ma veramente un’infinità. anche più di 10-15 al giorno. Per sei mesi...».

Nel luglio 1995 Stefania Ariosto inizia a raccontare al pool di Milano le mirabolanti imprese dell’avvocato Cesare Previti e dei suoi amici giudici romani, come Renato Squillante e Filippo Verde, con tanto di presunte mazzette per acquistare sentenze a un tanto al chilo, e inseguimenti nel garage del circolo Canottieri Lazio al grido di «A Rena’, te stai a dimentica’ ‘a bbusta!». I suoi scottanti verbali vengano secretati e la notizia rimane riservata per 7 mesi, almeno per il grande pubblico: si scoprirà più tardi che Previti e altri amici avevano almeno subodorato la cosa ben prima che diventasse pubblica, con il casuale ritrovamento della famosa microspia al bar Tombini e il conseguente arresto di Squillante & C. Fin da subito, comunque, la donna viene munita di una protezione armata e va ad abitare a casa di amici. Ciononostante, il 23 dicembre 1995, un fattorino consegna al portiere dell’abitazione un pacco dono per lei. Lei lo apre. Contiene un coniglio sgozzato e scuoiato, con un biglietto d’auguri: «Buon Natale». Da allora le minacce di morte - telefoniche, postali e personali - non cesseranno più.

Chiara Beria d’Argentine era vicedirettrice dell’Espresso, il 23 maggio 1996, quando un misterioso incendio doloso mandò letteralmente in polvere la sua villa sulla collina di Camaiore. Incendio appiccato dopo aver cosparso il seminterrato di una miscela esplosiva. «Il tetto è volato via, non s’è salvato nemmeno un cucchiaino», disse la donna sconvolta. Qualcuno pensò subito alla sua più recente inchiesta giornalistica, che in aprile aveva portato alla pubblicazione del famoso album di famiglia di Stefania Ariosto, col contorno di Berlusconi, Previti, avvocati, magistrati e parenti tutti, immortalati in barche, in ville e a New York, nell’indimenticabile pellegrinaggio aereo organizzato dall’apposito Cesare a spese del Psi per festeggiare degnamente la premiazione di Bettino Craxi come «uomo dell’anno» dell’associazione Niaf. Proprio quel giorno, l’Espresso usciva con una copertina dal titolo «Forza Ilda» e una grande fotografia del pm Ilda Boccassini, impegnata nell’inchiesta «toghe sporche». Il leghista Mario Borghezio parlò di «attentato di stampo mafioso» e invitò il governo a verificare se esso fosse «da ricollegarsi con la recente inchiesta sui loschi affari legati a un pool di magistrati e avvocati romani in concorso con noti esponenti politici e imprenditoriali». Le indagini della procura di Lucca accertarono subito che la giornalista non aveva mai, in precedenza, ricevuto minacce, salvo due brevi telefonate mute il giorno precedente l’attentato. E imboccarono ben presto la pista della ritorsione per la sua attività giornalistica, tant’è che furono consultati anche i pm del pool di Milano. Venne anche indagato per incendio doloso un pregiudicato per reati di droga. Che però, dopo una prima proroga di sei mesi delle indagini, venne prosciolto. E la cosa finì lì.

Il resto è cronaca delle ultime settimane. Indro Montanelli attacca Berlusconi in tv e subito riceve sul telefono privato di casa (il numero è noto a pochissime persone) una raffica di chiamate da voci femminili che lo insultano e lo minacciano. Una lettera minatoria lo attende sul tavolo del ristorante dove, la domenica seguente, va a pranzo con il direttore del Gorriere della Sera Ferruccio De Bortoli.

Il finanziere pregiudicato Filippo Alberto Rapisarda, siciliano, ex principale, ex socio ed ex amiCO di Marcello Dell’Utri, rivela in tv, a Il raggio verde di Michele Santoro, di avere subito intimidazioni e attentati ogni qual volta ha parlato con i giudici antimafia di Dell’Utri: nel 1987, dopo la prima denuncia per collusioni mafiose, uno sconosciuto lo minacciò di morte davanti a casa; nel 1998, dopo aver accusato Marcello di riciclaggio a Palermo, scoprì per caso che qualcuno aveva tranciato di netto i fili del motore del suo aereo privato; dieci giorni fa, dopo l’intervista su Dell’Utri concessa a Sandro Ruotolo di Il raggio verde, una lettera da Palermo con tre proiettili. La redazione di Santoro, intanto, riceveva lettere e telefonate minatorie e sul muro di fronte alla casa di Ruotolo compariva la scritta: «Ruotolo, merda comunista». Firmato: una croce celtica, simbolo di Forza nuova.

 

"Il Dialogo - Periodico di Monteforte Irpino" - Direttore Responsabile: Giovanni Sarubbi

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