Dopo aver galleggiato sull'indifferenza dei più, la campagna
elettorale si è finalmente scaldata, e si è cominciato a percepire quale sia la posta
veramente in gioco; anche il Manifesto, fin troppo attento alle ragioni di un
astensionismo di sinistra che nelle presenti circostanze non può essere giustificato,
parlando della paura che l'eventualità di un governo Berlusconi suscita, ha riconosciuto
che "ricomincia a circolare la parola fascismo".
In effetti c'è il pericolo, in gran parte determinato da una legge elettorale che è già
essa stessa una violenza contro i cittadini, che tutta la destra vada al potere in Italia.
Una destra che non è solo la destra mercantile di Berlusconi, ma è la destra della
grande industria e della grande distribuzione, la destra che si vuole appropriare del
bottino fiscale, la destra che organizza la secessione dei ricchi e delle regioni ricche
dai poveri e dalle regioni povere, la destra del Grande Fratello, inteso come
amministratore unico di un'unica azienda, la destra che vuole governare almeno per dieci
anni, per rivoltare l'Italia come un calzino; una destra che non crede all'obbligatorietà
dell'azione penale, e vorrebbe riservare alla maggioranza parlamentare la decisione sulle
priorità dei reati da perseguire, sicché a decidere quali reati debbano essere puniti
sarebbe chi possa aver interesse, se indagato, a non rispondere in tribunale dei propri.
Poiché questa destra è tutta la destra, dentro di essa ci sono delle frange liberiste e
clerico-moderate, ma ci sono anche componenti atee, stataliste, illiberali, antisindacali,
e c'è quella destra che continua ad avere come modello e come rimpianto il fascismo, e
non solo perché c'è la nipote di Mussolini. E del resto se non ci fosse il fascismo in
tutta la destra riunita in un unico fascio di forze, come in Italia non avveniva da oltre
cinquant'anni, il fascismo dov'è?
Certo la storia non si ripete, come nessuno può bagnarsi due volte nello stesso fiume.
Questo lo sapeva anche Bertolt Brecht, che pur ammoniva a fare attenzione, perché il
grembo che una volta ha partorito il fascismo è sempre gravido.
Il fascismo è una cultura, di cui non è difficile identificare gli ingredienti.
Anzitutto esso cerca la propria autolegittimazione nel presupposto dell'ignominia del
nemico. Se tutti gli altri sono bolscevichi, comunisti, statalisti, fabbricanti di miseria
e perfino terroristi, il fascismo è legittimato. Se gli altri dicono cose per cui non
sono "meritevoli" di essere ascoltati, non si discute nemmeno, e il dibattito
politico è finito. Che tutte le televisioni siano in mano di uno solo non è conflitto di
interessi, è regime.
La cultura del fascismo è la cultura del cominciamento assoluto. Tutto quello che è
stato prima è perverso e sbagliato. La Costituzione, per la quale è sacra la patria e
non l'impresa, è "sovietica" e deve essere riscritta. La Corte Costituzionale,
che pretende difenderla, va cambiata. Tutto l'edificio della codificazione e della
legislazione va distrutto e rifatto in tre giorni, ci vuole un Giustiniano. Per rifare
l'ordinamento e l'apparato statale, è lì che arriva Napoleone.
La cultura del fascismo è, quando sente il vento nelle vele, un delirio di onnipotenza:
si possono fare gli imperi, vincere le demoplutocrazie, o proclamarsi il miglior politico
del mondo e volersi comprare l'Italia; ma quando la fortuna gira, e si sente perdere il
consenso, esso si rovescia nella sindrome del vittimismo, nello spirito di persecuzione,
nella denuncia di minacce e di complotti.
La cultura del fascismo è la cultura dei vincitori e dei perdenti. Forza Italia e abbasso
lo straniero. In Germania negli anni trenta si riuscì a far passare l'idea che esistesse
"una questione ebraica". In Italia si vorrebbe ora istituire una politica
sull'idea che esista "una questione musulmana", che esista "una questione
immigrati". Dall'antisemitismo all'antixenitismo. Tra le accuse al centro-sinistra
c'è che durante il suo governo non sono diminuiti gli immigrati. Dunque che almeno stiano
al loro posto: o braccia nelle imprese e servi nelle case, o in prigione o espulsi.
Ma nella cultura del vincitore, del "winner", come si dice nell'amato sistema
anglosassone, non c'è solo il ripudio dello straniero. C'è la selezione tra chi ce la fa
e chi non ce la fa nella società tutta ridotta a mercato. Gli scelti e i lasciati. I
necessari e gli esuberi. Gli appagati e gli esclusi. I sommersi e i salvati. Perciò il
ricco si propone come l'ideale realizzato, come il simbolo della riuscita, come il modello
da rincorrere; e a questo titolo si propone come il sovrano da incoronare. Appunto non è
più la democrazia. E non è nemmeno il diritto, non è più, non può essere la pace.
Purtroppo questa non è solo la cultura che viene proposta all'Italia. È la cultura che
sta dando forma al nuovo rapporto dell'Occidente ricco, del Nord Atlantico, con il resto
del mondo, una cultura che torna a una concezione inegualitaria della società e del
rapporto internazionale; una diseguaglianza che non si pretende più di giustificare in
sede teorica, come si è fatto per secoli, ma su cui si costruisce l'intero progetto di
governo della società globale, che è un progetto di selezione prima ancora che di
dominio. Perciò la partita che si gioca in Italia non ha valore solo per noi, può
diventare un punto di resistenza di valore più generale, per l'Europa e per l'Occidente;
purché non si aspetti che gli eventi si compiano, e si decida di resistere prima, con un
voto capace di battere Berlusconi e la destra. Ci sembra questa l' "azione
responsabile" che Bonhoeffer, resistendo, diceva essere propria dei cristiani
dal sito di ADISTA n. 31 |