PACS... DICO
Unioni civili: regolarle non attenta al matrimonio

di Giannino Piana

In C. S. New per l’Italia solidale del 21 settembre 2005


Su segnalazione di Giancarlo Martini,che ringraziamo, riprendiamo dal sito http://www.finesettimana.org un articolo che Giannino Piana scrisse per la rivista dei cristiano sociali nel settembre del 2005. Dati i tempi che corrono e l’assenza di voce di tutta quella parte di mondo cattolico non rappresentata da Avvenire (come lamentava Pietro Scoppola nell’articolo di ieri su "La Repubblica") forse è bene far circolare queste posizioni.


Le reazioni indignate di una parte di mondo cattolico all’intervento di Romano Prodi circa l’opportunità di introdurre, anche nel nostro ordinamento, il Pacs (Patto civile di solidarietà) sono ingiustificate. L’accusa di “lacerare la famiglia” o di “incutere un vulnus alla millenaria istituzione familiare” è del tutto gratuita. Il Pacs è infatti un contratto, riconosciuto dalla legge, tra due persone conviventi, volto a garantire una serie di diritti che si trasmettono da una persona all’altra e che discendono dalla loro vita comune. Come tale, esso si estende ad uno spettro assai ampio di situazioni, che vanno dalle coppie di fatto, sia etero che omosessuali, fino a persone anziane (parenti o meno) che decidono di coabitare per ridurre le spese di gestione della casa.

Non vi è dubbio che il Pacs abbia risvolti etici. Ci sembra, tuttavia, fuorviante considerarlo - come si è fatto con toni allarmistici in questi giorni - come un grave attentato alla famiglia fondata sul matrimonio. A parte, infatti, la diversità qualitativa delle due realtà - diversità che Prodi ha fin dall’inizio sottolineato e che, anche sul piano legislativo, viene con chiarezza affermata (il Pacs non implica una totale equiparazione dei diritti dei conviventi a quelli di coloro che compongono la famiglia tradizionale) - le ragioni invocate suonano quanto meno pretestuose. La crisi, che la famiglia fondata sul matrimonio oggi attraversa, non è certo causata da dispositivi legislativi come il Pacs, (con i quali semmai si prende atto della sua esistenza e si tenta di porvi rimedio), ma ha radici ben più profonde riconducibili a processi sociali e culturali, che meritano - questi sì - un’attenta considerazione.

La perdita del significato istituzionale dell’unione di coppia (e perciò la scelta sempre più diffusa della convivenza) è conseguenza di una tendenza generalizzata alla privatizzazione frutto dell’individualismo proprio della nostra cultura, ma anche della mancanza di un sostegno reale nei confronti della famiglia - si pensi soltanto alla persistente carenza di politiche familiari adeguate - che rinvia a precise responsabilità istituzionali, non ultime quelle della stessa Chiesa. D’altra parte - e anche questo va detto con chiarezza – la risposta che si deve dare, sul terreno politico, a un fenomeno di così vaste proporzioni - si tratta di milioni di persone coinvolte - non può certo riflettere le posizioni di un’etica particolare, religiosa o laica che sia, ma va formulata sulla base dei criteri di un’etica pubblica frutto del confronto allargato tra le diverse componenti della società cui apparteniamo. Un’etica che - abbiamo ragione di ritenere anche in forza dei più recenti sondaggi di opinione - non può che considerare legittimo il ricorso a un istituto giuridico che ha come obiettivo la tutela dei diritti della persona, e che pertanto non fa che rendere operante il principio della fondamentale uguaglianza tra tutti i cittadini.

A questo livello (e non ad altro) va, in definitiva, ricondotta la valenza morale della questione. L’assenza di un intervento dello Stato a regolamentare, sul piano giuridico ed economico (che è poi quello al quale il Pacs fa riferimento), forme di convivenza che si protraggono nel tempo e da cui si originano diritti e doveri reciproci ci sembra una inaccettabile inadempienza, che finisce per ledere la dignità umana. Il fatto che persone che hanno a lungo convissuto tra loro, istituendo spesso rapporti comunionali profondi, non possano godere, nel caso in cui uno di loro muore, di benefici quali la reversibilità della pensione, il subentro nel contratto d’affitto, ecc., costituisce un atto di ingiustizia contro cui è doveroso reagire. La rigida ed astratta difesa dei principi (ma di quali principi si tratta?) quando in gioco vi sono persone che vengono discriminate o che si trovano comunque a vivere in situazioni difficili, oltre a essere espressione di inciviltà, è retaggio di una mentalità farisaica, che contraddice apertamente il più autentico spirito evangelico.



Domenica, 11 febbraio 2007