Crisi sistemica e alternative della nonviolenza

di Nanni Salio ( *)

EDITORIALE Marzo 2012 della rivista Tempi di fraternità


Ringraziamo gli amici di Tempi di Fraternità (www.tempidifraternita.it) per averci messo a disposizione l'editoriale di Marzo 2012.

(*) Presidente del Centro Studi Sereno Regis

La caduta del muro di Berlino e il successivo sfaldamento dell’Unione Sovietica furono l’occasione storica che gli USA colsero per realizzare il loro Progetto Imperiale Americano esplicitamente dichiarato e presentato in documenti resi pubblici e aggiornato di anno in anno.

Nel primo periodo, dal 1991 al 2001, questo progetto non trovò ostacoli. Si tradusse nella globalizzazione neoliberista e il potere politico divenne subalterno al potere economico dei decisori globali riuniti annualmente a Davos, sotto le insegne del Forum Economico Mondiale. In quegli anni si consolida una classe capitalista transnazionale che possiede una ricchezza personale enorme e progetta una economia-mondo basata sulla illusione di una crescita continua e su una innovativa economia finanziaria senza regole con lo scopo di creare denaro da denaro, abbandonando l’economia reale dei produttori a paesi terzi, come l’emergente Cina che in pochi anni diventa la fabbrica del mondo.

Questo modello di ipercapitalismo accentua in modo abnorme le disparità sociali, tanto che, come “se negli anni 1960 occorrevano 40 anni a un salariato medio euro-americano per arrivare a guadagnare quanto un top manager, nel 2008 occorrevano tra i 400 e 1000 anni” (Luciano Gallino). Oltre che sulla avidità illimitata e sulla irresponsabilità, questo modello di economia si fonda sul debito. Gli

USA sono diventati uno dei paesi più indebitati del mondo e continuano a utilizzare il loro potere militare per imporre un precario dominio, che man mano ha creato successive crisi economiche in varie parti del mondo, sino a quella attuale, esplosa nel 2008. È una tipica crisi debitoria, innescata dal crollo delle piramidi del debito, che hanno travolto banche e multinazionali, estendendosi rapidamente anche all’Europa: la più grave crisi dopo quella del 1929.

Ma c’è un altro debito altrettanto grave: quello nei confronti di Madre Natura. A partire dagli anni 1970 abbiamo superato la capacità di carico del pianeta e consumiamo ogni anno più risorse di quelle che gli ecosistemi sono in grado di rigenerare. È come se avessimo un conto in banca che è in rosso. Un aspetto cruciale di questa crisi ecologica è di natura energetica, in particolare la nostra folle dipendenza da fonti fossili, soprattutto da quella più versatile, il petrolio. Senza rendercene conto ci siamo man mano assuefatti all’idea che le merci possano circolare ovunque nel mondo, perché sino a qualche anno fa il petrolio era a basso costo.

Il venir meno di questa risorsa ha contribuito a innescare la crisi del 2008, quando il prezzo del barile si è avvicinato a 150 dollari, e si mantiene tuttora oltre i 100. Le conseguenze sono devastanti per le fasce più povere della popolazione mondiale. Si chiama crisi alimentare, della capacità di produrre e distribuire cibo che riesca a giungere a tutti. Negli ultimi anni il numero di persone che non riesce ad alimentarsi adeguatamente è cresciuto. Si stima che un miliardo di persone soffra la fame: una su sette non riesce a nutrirsi adeguatamente. Sono segni evidenti che questo sistema-mondo non è sostenibile dal punto di vista economico, sociale, ambientale, alimentare.

A tale proposito, le parole di Luciano Gallino sono illuminanti: “Non appare sostenibile il tipo di essere umano, ovvero di personalità e di carattere, che l’economia contemporanea è orientata a produrre. Il lavoro mercificato, le tecnologie usate contro l’intelligenza, l’introiezione dell’obbligo di consumare, atrofizzano il seme stesso della personalità”. “In un mondo del genere la civiltà è giunta alla fine. Bisogna ammetterlo: abbiamo costruito, tutti insieme, un mondo ferocemente iniquo”.

La crisi sistemica è la somma di quattro grandi aree di crisi che si intrecciano e retroagiscono tra loro:

crisi di sostenibilità energetica/climatica/ ecologica (picco del petrolio, geopolitca dell’energia; crisi climatica, impronta ecologica crescente, perdita di biodiversità);

crisi di sostenibilità alimentare (industria zoo-agroalimentare, vegetarianesimo e veganesimo, cibo-spazzatura, malnutrizione, fame e miseria);

crisi di sostenibilità economico/finanziaria (dogma della crescita; crisi del capitalismo neoliberista, diseguaglianza, debito sovrano, lavoro, disoccupazione; impero USA vs UE vs BRICS, criminalità finanziaria, deregolamentazione, finanza speculativa; superricchi, Wall Street, 1% contro 99%; spesa militare; crisi della democrazia; sistema troppo complesso, fuori controllo);

crisi di sostenibilità sociale/esistenziale/ etica/culturale (depressione, crisi spirituale, esasperazione bisogni indotti).

Le parole chiave che caratterizzano ciascuna area di crisi mettono in evidenza l’enorme complessità del problema. Ma sin dal 1972, un gruppo di eminenti studiosi e manager, riuniti nel Club di Roma, elaborarono un modello globale basato su un numero ridotto di varia

bili ‘popolazione’, ‘capitale industriale’, ‘inquinamento’ e ‘terra coltivata’ e pubblicarono il famoso rapporto su “I limiti della crescita” (malamente tradotto con “I limiti dello sviluppo”), lanciando un allarme su quanto sarebbe successo nei primi decenni del XXI secolo. L’allarme non fu raccolto e oggi ne vediamo le conseguenze.

La maggior parte degli economisti è incapace di rendersi conto che l’economia umana si regge su quella di Madre Natura e in un sistema finito, come quello terrestre, la crescita illimitata del famigerato PIL non è possibile.

Di fronte ai clamorosi fallimenti del socialismo reale e del neoliberismo ci si chiede se esistano alternative. Sin dall’inizio del secolo scorso, Gandhi affermò perentoriamente: “Questa civiltà è tale che con un po’ di pazienza si distruggerà da sola” (Mahatma Gandhi, Vi spiego i mali della civiltà moderna. Hind Swaraj, Gandhi Edizioni, Pisa 2009, p. 53). E a proposito della sua India disse: “Dio non voglia che l’India debba mai adottare l’industrialismo secondo il modello occidentale. L’imperialismo economico di un solo piccolo stato insulare (la Gran Bretagna) tiene oggi il mondo in catene. Se un’intera nazione di trecento milioni di abitanti si mettesse sulla strada di un simile sfruttamento economico, essa denuderebbe il mondo al modo delle locuste” (Giuliano Pontara, L’antibarbarie, EGA, Torino 2006, p. 300).

Ma non si limitò a queste constatazioni e, richiamandosi a John Ruskin e Tolstoj, propose un programma costruttivo per realizzare una “economia nonviolenta”, basato su sette concetti fondamentali: selfreliance (autosufficienza); lavoro per il pane; non possesso e non attaccamento; amministrazione fiduciaria, eguaglianza, non sfruttamento, satyagraha.

In seguito, Ivan Illich e Ernst Schumacher ripresero queste idee e le svilupparono.

Indignados, Occupy e una miriade di altri movimenti che si richiamano alla “semplicità volontaria”, alla “transizione” e alla “decrescita” sperimentano a piccoli passi la fuoriuscita da un modello di sviluppo distruttivo per le persone umane e per gli altri viventi: sono esempi concreti della possibilità di cambiare e segno di speranza per il futuro.



Martedì 06 Marzo,2012 Ore: 17:56