Politica
Il degrado dell'Italia

Angelo D’Orsi

Siamo davanti a un passaggio decisivo: o lasciare andare alla deriva la barca, aspettando il cozzo contro gli scogli, o tentare di indirizzarne la rotta. Un grido di allarme che proviene dall'intellettualità più avvertita e meno disposta a pronarsi dinnanzi alla barbarie di un potere sempre più osceno e pericoloso.


 L’Italia è molto oltre la crisi di nervi. L’Italia che festeggia oggi la nascita della Repubblica – uno dei pochi momenti della sua storia in cui il popolo è stato sovrano, attuando una rivoluzione istituzionale, che si legava dal “vento del Nord”, la grande speranza suscitata dalla Resistenza – si trova a fronteggiare, quasi inerte, una crisi drammatica.
Non è soltanto la crisi dell’economia, la crisi dell’occupazione (con il 30% dei giovani senza lavoro), la crisi della produzione, delle esportazioni, della finanza; non è neppure solo la crisi istituzionale, che pure si palesa in una dimensione di estrema pericolosità; né è sufficiente il richiamo alla crisi dell’informazione, che sta per giungere al suo punto più estremo, almeno nella scala finora percorsa.
Ci troviamo, a ben vedere, e senza alcuna esagerazione retorico-ideologica, nel cuore di una decadenza morale e intellettuale, politica e antropologica degli italiani. I quali oggi, come in altre stagioni della loro storia – segnatamente quella fascista e quella del tragico eppure glorioso biennio ’ 43- 45 –, si trovano in una situazione di contrapposizione radicale. Altro che memorie condivise. Altro che solidarietà nazionale. Altro che unità repubblicana, che, da tempo, del resto, ormai una forza politica mette sotto accusa, quasi fosse uno dei grandi mali del Paese, disconoscendone, anzi negandone provocatoriamente il valore storico e il significato politico.
Quali sono i segnali di un degrado che sta diventando ogni giorno più evidente e insieme più pericoloso? In primo luogo, la crisi istituzionale, che ci mostra una democrazia sulla strada dell’eutanasia, soppiantata dal populismo mediatico. Come è possibile che un presidente del Consiglio intervenga telefonicamente in quasi ogni programma televisivo di discussione politica per aggredire, ingiuriare, e minacciare conduttori non graditi, giornalisti scomodi, e persino il pubblico non accomodante? E come è possibile che simili ricorrenti performances passino sotto silenzio, o tutt’al più vengano un po’ bonariamente offerte al sorriso dei lettori, da qualche giornale non proprio ossequente? Com’è possibile che un programma televisivo – che può essere definito “di regime” – come il famigerato “Porta a porta” abbia un potere decisamente superiore a quello delle due Camere? E come stupirsene, d’altro canto, se si bada alla inefficienza vergognosa della Camera dei Deputati e, ancor più, del Senato della Repubblica?  Inefficienza, badiamo bene, non legata semplicemente alla scarsa “voglia di lavorare” dei nostri rappresentanti, bensì alla pesante involuzione del sistema parlamentare, nel degrado della democrazia rappresentativa. Abbiamo assistito impotenti, ancorché, molti tra noi, via via più indignati, alla confusione deliberata di spazi pubblici e spazi privati, all’emergere di criteri di selezione del ceto politico del tutto impropri: avvenenza fisica, look, “visibilità” acquisita in televisione, disponibilità sessuale. E, naturalmente, favori ricevuti che devono essere a un certo punto “ricambiati”.
Il voto di scambio è oggi persino più grave che in passato, a dispetto dell’ azione della magistratura. E’ un voto che passa attraverso organizzazioni criminali, che, per quel che è dato di sapere, sono strettamente legate alle fortune finanziarie e all’ascesa politica di alcuni personaggi oggi ai vertici del potere, e in particolare di uno di loro. I poteri locali, segnatamente nel Sud d’Italia, sono spesso intrecciati ai poteri nascosti, ed efficientissimi, delle “cosche” e delle “cupole”: ma la mafia ormai ha raggiunto, oltre che le grandi città del Nord, le istituzioni finanziarie, avvicinandosi al cuore del potere politico.
Di questo passo, lo Stato sarà appaltato ai capibastone, così come, nel succedersi di maggioranze governative, esso ha ceduto, sovente a prezzi irrisori, proprietà, competenze, controlli a privati. Il demone della privatizzazione e dell’aziendalizzazione, del resto, ha non da oggi equiparato, largamente, “destra” e “sinistra”. Il governo italiano è ormai, in modo non solo palese ma sfrontato, ridotto al ruolo di super-comitato d’affari di comitati d’affari. La politica fiscale, per fare un solo esempio, ne è la prova assoluta.
E sul fronte dell’etica pubblica si assiste a un degrado di cui mai era visto l’eguale. Un giornalista di destra, legato all’area governativa, dopo aver rotto con il suo capo, ha coniato il termine “mignottocrazia”, per definire la situazione in atto nella politica italiana: difficile dire meglio. E superfluo insistere sul tema, utile tuttavia a dare il segno estremo di una decadenza che sta toccando il fondo, tipica delle epoche degli imperi al tramonto. Ma, nello stesso tempo, questa leadership immorale mostra un ossequio grottesco nei confronti della Chiesa cattolica, accettandone i diktat, e sollecitandone l’ appoggio in cambio di favori economici e a livello di potere; ma lasciando cadere nel vuoto gli appelli che da essa giungono a una politica dell’ accoglienza e del rispetto verso i migranti, ormai ridotti al rango di “non persone”, tanto nella legislazione in atto e nelle scelte politiche, quanto in un diffuso senso comune che, fondato sull’ignoranza e sulla paura del diverso, è ormai semplicemente razzista.
E che dire dell’indifferenza colpevole davanti alle questioni ambientali? La gran parte del ceto politico, anche di opposizione appare del tutto sordo, o quanto meno in ritardo, su quello che appare il tema dei temi del prossimo avvenire, e non solo italiano, ma evidentemente mondiale.
Davanti al degrado, sintomo e insieme causa, ma anche strumento di salvaguardia delle cricche affaristiche che “governano” la cosa pubblica, il controllo dell’informazione appare un punto dirimente. Di qui la politica volta a mettere le mani sul servizio pubblico radiotelevisivo, a controllare la stampa e l’editoria, i tentativi di esercitare la censura sulla Rete e quant’ altro. Com’è possibile che il presidente del Consiglio, a capo del maggiore impero mediatico europeo, sia lasciato libero di decidere i giornalisti, i conduttori, i dirigenti del servizio pubblico, ma anche, addirittura, di larga parte della carta stampata? E sempre nell’indifferenza, o quanto meno nella sottovalutazione della cosiddetta “pubblica opinione”.
L’altro punto essenziale del programma dei berlusconidi, veri e propri cloni del “capo”, di cui eseguono senza alcuna esitazione o dubbio le direttive, tutte fondate sul perseguimento degli interessi di un individuo e delle sue clientele, è la drastica messa sotto controllo della magistratura, come Terzo Potere indipendente dagli altri due. La legge sulle intercettazioni telefoniche rappresenta un punto di incontro tra due distinti attacchi: alla libertà d’ informazione e all’indipendenza (e alla stessa efficienza) della magistratura, straordinario regalo alla grande criminalità, da quella in colletti bianchi a quella della lupara. Un evidente do ut des, da cui il primo a trarre benefici è il “capo del governo”, e la banda di affaristi che gli si raduna intorno, dentro e fuori le istituzioni.
Il catalogo, insomma, è lungo. Catalogo di inefficienze e nefandezze, di menzogne e di sprechi, di iniquità sociali e di bassezze morali, che stanno devastando il panorama italiano: dall’ambiente alle istituzioni, dal futuro delle giovani generazioni, completamente azzerato, alla ricerca, vittima di un vero attacco persecutorio, gravissimo nelle sue conseguenze a medio e lungo termine, dalla scuola all’università, messe sotto accusa in quanto ultimi santuari di un sapere critico, dalla cultura, in tutta evidenza considerata un “comparto superfluo”, ove non si contenti di fornire circenses alla plebe… Ma oggi non solo non ne possiamo più di circenses, ma ci manca il panem.  Gli operai sui tetti delle fabbriche, dipendenti che si incatenano ai cancelli delle officine, la sequenza di suicidi di lavoratori e persino di imprenditori, il libero vagare sulla scena finanziaria e “imprenditoriale” di fallimentatori di professioni, spregiudicati avventurieri della finanza, che sono responsabili della gran parte del dissesto del sistema produttivo… Oggi esisterebbero le condizioni oggettive per una riscossa di quella parte d’Italia che si riconosce nelle ragioni dei proletari, dei subalterni, dei giovani disoccupati e sottoccupati: di quella parte d’Italia che si è richiamata storicamente alla Sinistra. E invece? Il paradosso che stiamo vivendo è che al cospetto di una crisi epocale del capitalismo, la Sinistra appare morente: dovrebbe essere la sua stagione, dopo il crollo del biennio “rivoluzionario” 1989/91, e invece essa appare afasica e impacciata, a esser eufemistici, incapace di elaborare strategie, dominata da un personale politico troppo sovente inadeguato, rissoso, e, talora, autoreferenziale.
L’alternativa, a livello nazionale, e locale, sembra impossibile. Eppure essa è necessaria, non per la “rivincita” della Sinistra, ma per la salvezza dell’ Italia. Oggi, più che mai il motto “socialismo o barbarie” suona come lo squillo di tromba che deve ridestarci e spingerci all’azione, in modo serio e meditato, ma determinato e capace di superare, innanzi tutto, la tendenza pericolosa della difesa dell’ “identità” di micropartiti e, addirittura, di frazioni di micropartiti. Dall’altro canto, tuttavia, occorre tenere ferma la barra sull’alternativa radicale a un sistema in cui le complicità e le connivenze tra istituzioni, forze politiche di vario orientamento, gruppi di interesse, stanno distruggendo il Paese, il suo tessuto connettivo, la sua forza propulsiva, e la stessa capacità di preservare la propria memoria, l’ avvenire della gioventù, la cui esistenza è ridotta a un precariato ormai devastante su tutti i piani, condannata a vivere l’istante come se fosse eterno.
Siamo davanti a un passaggio decisivo: o lasciare andare alla deriva la barca, aspettando il cozzo contro gli scogli, o tentare di indirizzarne la rotta.  Siamo pochi? Siamo molti? Intanto, contiamoci. E scendiamo allo scoperto, rompendo gli indugi, vincendo i timori, superando antiche divisioni, pronti ad allearsi con chiunque, pur di raggiungere l’obiettivo: che, detto in una sola parola, enfatica, ma oggi inevitabile, è la salvezza d’Italia, cominciando, magari, da Torino e dal Piemonte. Non ci preoccupiamo se l’espressione suoni retorica e magari richiami echi mazziniani, o garibaldini: non ce ne preoccupiamo, in quanto riteniamo il Risorgimento un grande moto progressivo, la cui importanza rimane fondante per la nostra storia.
Dunque occorre radunare le forze, puntando su tutti coloro, singoli o esponenti di associazioni, circoli, gruppi organizzati, abbiano innanzi tutto la consapevolezza del momento epocale in cui ci troviamo e in secondo luogo in un momento storico in cui la gran parte del ceto intellettuale è troppo intento a badare ai fatti propri, o in attesa di una comparsata in un talk show televisivo, per scendere in campo contro la menzogna e l’indifferenza, occorre che qualcuno faccia sentire una voce di verità, e rischi, di persona, pur di suscitare un moto generale di reazione: che, riteniamo, debba essere innanzi tutto eticamente fondato.
Da questa prima riunione, certamente interlocutoria, vorremmo che uscissero proposte, intendimenti, volontà: di agire, di superare vecchi e nuovi steccati, di unirsi in un ideale Partito della Salvezza contro il Partito in atto, della Devastazione. Occorre agire ora, prima che sia troppo tardi. Correremo il rischio di sbagliare, certo, ma almeno, domani, non saremo tormentati dal senso di colpa di non aver tentato finché era possibile. Ora, dunque. Non domani.
Affrontiamo, insieme, fin da oggi, il fatidico “Che fare?”. Ma esprimiamo da oggi, la nostra volontà di fare.
 Angelo D’Orsi    


Mercoledì 09 Giugno,2010 Ore: 23:19