Il popolo dei vinti

di Rosario Amico Roxas

Riceviamo e pubblichiamo


Oggi abbiamo anche gli storici del presente, aggrappati al carro del vincitore o del più forte per ottenere il dono di partecipare alla spartizione del bottino o, nel peggiore dei casi, di recuperare le prebende in compenso dei servizi resi. Non possono che saltare sul carro del vincitore, perché è quello che paga meglio, anzi è il solo in grado di pagare, così tutti i mass media fanno a gara per essere compiacenti nel raccontare la loro verità o per nascondere le parti più imbarazzanti per negare alla storia l’esistenza stessa del “popolo dei vinti”.
Il popolo dei vinti, però, esiste, pur nella sua disperazione; una disperazione che ha travalicato il confine tra la vita e la morte. Disperazione e morte formano quella tragica simbiosi che riempie la cronaca dei vinti di tutti i giorni: è una cronaca disperata scritta dai vinti, che non si vuole far diventare storia.
Sono disperati gli annegati che fuggono sulle carrette del mare in cerca di una ragione di sopravvivenza; sono disperati quei fanatici che si imbottiscono di bombe e si fanno esplodere, provocando e seminando altra disperazione.
Entrambi sono salutati dai parenti con una antica esortazione araba:
Vai ! modifica il corso delle stelle e vivi una vita migliore !
La morte diventa l’ipotesi di una “vita migliore”, perché quella che offre la quotidianità è diventata peggiore dell’annullamento nella morte.
I disperati del mare operano in proprio, facendo una scelta sul modo di morire, inseguendo la chimera di una vita più giusta; i disperati suicidi concretizzano un metodo studiato di morte che, secondo i loro disegni, dovrebbe condurre alla affermazione della propria identità e, quindi, al trionfo sulla stessa morte nella eternità di un lontanissimo Paradiso degli Eroi.
Li accomuna solo un denominatore: sono entrambi disperati; sanno bene che il loro futuro, che dipende da altri, potrà migliorare solo con l’abbattimento delle diversità. Non hanno compreso che la forza e il potere consistono nel sapere andare avanti nella storia e non retrocedere verso il passato ancestrale dove rifugiarsi per ritrovare le antiche origini e la ragione stessa della affermazione del diritto alla vita dandosi e dispensando la morte.
La disperazione dei secondi è troppo spesso pilotata da quanti non rischiano mai in proprio, ma delegano la distribuzione della morte ai più disperati, plagiati nell’anima. La disperazione è diventata una condizione irrimediabile della loro storia quotidiana; da modo di vivere è diventata metodo di morire.
Si pone oggi, in maniera imperativa, l’esigenza di combattere il terrorismo degli attentati, in grado di colpire quando e dove vuole, capace di suscitare quel panico che il mondo Occidentale riteneva di avere esorcizzato. Oggi si analizza il fatto in sé, per trovare la maniera cruenta di abbatterlo, nessuno si prende la briga di studiare il rapporto causa-effetto che ha generato questo tragico fenomeno che annienta ogni certezza e rende vana ogni ipotesi di programmazione del vivere civile dell’intero pianeta.
La programmazione era stata già studiata, e prevedeva l’instaurazione di un nuovo ordine planetario secondo le esigenze e gli interessi di chi riteneva di poter dominare, con la logica del terrore, l’intero pianeta; nessuno ha guardato dietro l’angolo, ritenendo che ci fossero solamente popolazioni derelitte, atterrite, pronte e disponibili ad arrendersi e piegarsi alla logica del potere. Non è stato lasciato alcuno spazio per collocare un tavolo di concertazione, attorno al quale discutere della reciprocità degli interessi e del rispetto della dignità umana.
Nell’angolo più recondito dell’animo umano si nascondono categorie che non emergono nel corso dell’ordinaria quotidianità; categorie che appartengono alla sfera del bene come a quella del male, quando si scatenano raggiungono vertici di inaudito livello, che passano dalla santità, nel caso della sfera del bene, alla più crudele ferocia, nel caso della categoria del male. Ma in ognuno dei casi occorre che ci sia l’elemento scatenante, la causa che produce quell’effetto; sarebbe troppo comodo per tutti analizzare solamente gli effetti senza valutare le cause che li hanno provocati.
Il terrorismo che si materializza nella dispensazione del terrore, specie quando coinvolge nella logica della morte lo stesso attentatore, è un rifiuto della vita propria e un disprezzo della vita altrui, ma rimane effetto di quella causa scatenante che è più brutale della logica del terrore, perché ammantata da perbenismo e da ipocrita crisi di solidarietà e che pretende dal mondo intero comprensione e riconoscenza.
La vita, nel suo quotidiano evolversi con il riproporsi di antiche litanie di dolore, diventa, a volte, ancora più dura da tollerare della morte, che assume le vesti di una liberazione e di una promessa, mentre nello stesso tempo si trasforma in un castigo per quelli che vengono indicati come i responsabili. Si dilata la teoria delle vittime nella esaltazione di un gesto la cui sostanza non è riposta nell’obiettivo fisico da raggiungere, ma nel messaggio che si vuole affermare. Non vale né l’obiettivo né la forma del gesto terroristico, anche se ha tutte le categorie della visibilità, vale piuttosto la sostanza che è contenuta nel messaggio che essa contiene. Se si trattasse di una azione operativa, a carattere militare, la risposta adeguata, nella impossibilità del ricorso alla diplomazia e alla politica, potrebbe essere quella a carattere militare, e potrebbe anche chiamarsi difesa legittima; trattandosi di un gesto sostanziale, con un preciso contenuto politico, è solo a livello politico e diplomatico che può essere affrontato e debellato; occorre che vengano meno le ragioni che hanno determinato l’esigenza di quel messaggio.
Occorre trovare l’antidoto alla reazione terroristica.
Il solo antidoto possibile è l’accettazione e il riconoscimento della Verità, unito alla programmazione della giustizia.
Si afferma che non può esserci Pace senza Libertà; che non può esserci Pace senza Democrazia; non ho ancora sentito nessuno affermare che non ci sarà mai Pace senza la Verità, espressione primaria della Giustizia e cardine di ogni vera Democrazia.
Se poi intendiamo per Verità il contenuto di quanto scrivono i vari mentori del falso, al servizio del più forte, allora significa che la deriva del buon senso ci ha portati fuori dalla Ragione, altro che Forza della Ragione, senza la Verità la Ragione perde anche il diritto di cittadinanza nella comunità degli esseri umani !
La Verità non è quella del più forte o del vincitore: è una categoria assoluta che non lascia margini alle libere interpretazioni o a dialettici voli pindarici. La Verità, la Giustizia e la Democrazia devono essere appannaggio di tutti, altrimenti non lo saranno mai di nessuno. Occorre cercare nella radice dei fatti tutti gli aspetti caratterizzanti, come i diritti che devono essere uguali per tutti, altrimenti diventano privilegi del più forte; come i doveri che devono rendere uguali tutti gli esseri umani, altrimenti si eccede fino al ritorno alla peggiore forma di schiavitù. Il riconoscimento, nella Verità, dei torti che sono stati imposti ai propri simili, da entrambe le parti, è il solo antidoto alla violenza preventiva, così come alla risposta terroristica. Nascondendosi, ciascuno, dietro la propria Verità, l’itinerario che conduce alla possibilità di Pace diventa una meta destinata a non comparire mai in nessuna nuova alba, fino allo sterminio totale.
Ci sono ragioni storiche, politiche, che non possono essere collocate dalla parte del più forte. Quelle ragioni non sono, inoltre, solamente di ordine politico, bensì, anche, di ordine economico, per cui anche una risposta politica o diplomatica non può raggiungere alcun effetto se, a monte, non vengono ridimensionate le ragioni economiche che ne hanno alimentato la pretesa affermazione.
La negazione di tutti i diritti, anche con la forza, la perdita di ogni speranza, conduce alla disperazione.
La disperazione non è uno stato patologico, come lo è l’ansia o la depressione, è uno stato esistenziale, che non anticipa l’annullamento nella morte, come fa il depresso che si suicida, né è una fuga dalla realtà come l’agorafobia dell’ansioso, il disperato vive la sua morte con lucida freddezza, al punto da fargli affermare:
Voi amate la vita, noi amiamo la morte.
Ogni uomo ha un limite alla sopportazione dell’ansia, della depressione e della disperazione; superato quel limite si impone una scelta, perché le condizioni di vita non consentono di tollerare oltre l’inerzia. Molto spesso la scelta è di fuga; così è una scelta di fuga l’agorafobia dell’ansioso e il suicidio del depresso; è scelta di fuga quella del disperato che affida la propria vita ad una carretta del mare per annegare, impietosamente, quando è arrivato in vista di una nuova Terra Promessa. E’ scelta di fuga dalla realtà farsi esplodere, perché in quella realtà hanno visto morire i propri cari, i propri figli, alterando anche la logica della vita che prevede che i figli sopravvivano ai genitori; avviene il contrario, perché sono i genitori ad essere costretti a piangere i propri figli in bombardamenti definiti, a posteriori, sbagliati.
Vedono soffrire il proprio popolo, senza riuscire ad intravedere una sia pur remota soluzione che riesca a riconciliarli con la vita.
La violenza aumenta in maniera esponenziale, dall’una e dall’altra parte, perché il più forte non vuole accettare che la sua strategia di stimolare il terrore per vincere è risultata perdente; non ci sono armi che possono combattere contro la disperazione, la sola soluzione possibile è quella di trovare l’antidoto al tossico della disperazione ed eliminare la causa che lo ha generato.
Viene presentata solo un gran confusione che mira a mimetizzare le vere ragioni delle scelte di violenza e di guerra. Viene provocata una reazione per poterla identificare come la causa di una contro-reazione, trascurando il rapporto concreto di causa/effetto.



Mercoledì, 01 agosto 2007