A trent’anni dalla strage di via Fani e dal sequestro di Aldo Moro
Commemorazione a parole.

di Rosario Amico Roxas

SONO passati 30 anni dalla strage di via Fani, dal rapimento di Aldo Moro conclusosi con una esecuzione che ha creato un vuoto di conoscenze e un silenzio assordante.
La mobilitazione ha coinvolto una commissione parlamentare che ha depistato le indagini e non ha promosso nessuna certezza.
Inquietanti sono rimaste le tante domande che ancora oggi la gente comune si pone; si tratta di domande che già nella loro ordinata elencazione indicano strade ben diverse, e più credibili di quelle che ci sono state ammannite.
La prima domanda riguarda i rapporti di Aldo Moro con la super potenza di oltre Oceano; sappiamo, infatti, che poco tempo prima dei fatti di via Fani, Moro era andato a Washington a conferire con Kissinger, per chiarire la linea politica che intendeva portare avanti con il responsabilizzare il PCI di Berlinguer nelle gestione del governo. L’impatto con il massone Kissinger fu disastroso; ho detto “massone Kissinger” perché è ben noto il ruolo della massoneria americana nei fatti internazionali di quel periodo e i vertici toccati di anticomunismo.
Il primo quesito, quindi, riguarda i rapporti di Moro con i potentati americani.
Il rientro di Moro, dopo l’incontro con il capo della diplomazia americana, fu un ritorno da “Filippi”.
Il secondo quesito riguarda la dinamica dell’attentato di via Fani.
Una squadra d’assalto, tecnicamente preparatissima, con armi che non sono facilmente reperibili nel mercatino di Porta Portese, attacca gli equipaggi che conducono Moro; assalta per uccidere con millimetrica precisione; parte una salva di proiettili perfettamente indirizzata sugli uomini della scorta, senza scalfire l’obiettivo da sequestrare. Accettare l’ipotesi che si trattasse di una squadra di brigatisti sarebbe, quanto meno, ingenuo: una preparazione del genere non si improvvisa, necessita di un addestramento di anni e puzza lontanissimo di squadra speciale.
Conoscendo benissimo le attività lecite e illecite che gli americani svolgono a loro piacimento nel nostro paese, sorgono molti dubbi, che non sono stati neanche prospettati come ipotesi.
Il secondo quesito coinvolge gli attentatori e la loro identificazione, fuori dagli schemi precostruiti appositamente per mimetizzare qualunque verità.
A depistare le indagini successive, già annacquate di suo, ci penseranno alcuni generali legati alla loggia massonica P2 e lo stesso gran maestro di quella loggia Lucio Gelli, punto fermo in Italia della massoneria americana e massima espressione di un anticomunismo viscerale, ossessivo, che sta rinascendo oggi, dopo 30 anni.
Il terzo quesito riguarda il ruolo della massoneria americana e italiana.
Era il tempo in cui venivano reclutati personaggi che miravano ad una visibilità nel mondo del potere; era il tempo in cui venne cooptato il “fratello 1816”, quarantenne rampante, con consolidati rapporti con i poteri mafiosi, avendone ricevuto finanziamenti ad alto rischio, ma ad alto rendimento.
Poiché urgono questi quesiti senza risposta, ecco che si commemora un’ombra, giusto per parlarne e continuare con la politica del depistaggio, affermando come vere tutte le menzogne che sono state dette e scritte; menzogne giustificate da un anticomunismo risorto dalle ceneri del 1989, e diventato leit motif che copre l’assenza di veri progetti politici.
Ma quella linea politica che Moro aveva anticipato (forse troppo anticipato) ha proseguito il suo itinerario, realizzando ciò che Moro non poteva neanche intuire: l’incontro tra Democrazia Sociale e Socialismo Umanistico, che si è perfezionato, dopo un decennio di incubazione, in una realtà tutta in divenire, in un unico soggetto politico che, pur dovendosi ancora amalgamare, porta avanti un disegno comune.

Rosario Amico Roxas



Lunedì, 17 marzo 2008