Il partito di Dio

di Rosario Amico Roxas

Alle individuali pretese di trascinare Dio dalla propria parte e farne sostenitore delle proprie ragioni o delle proprie prepotenze, ebbi a rispondere, in una nota pubblicata in questa rubrica, “quando l’uomo si schiererà dalla parte di Dio ?”.I commenti che ho ricevuto non hanno colto il segno, in quanto hanno preferito privilegiare l’aspetto laico e politico, con approvazioni o disapprovazioni lontanissime dai miei intendimenti.
L’equivoco nasce dalla recente pretesa, rivolta dai vertici della Chiesa italiana ai politici cattolici, di esprimere pubblica obbedienza al Magistero, in una sorta di revival della “lotta per le investiture” di medievale memoria, quando la contesa tra papato e impero verteva sull’obbedienza dovuta dai vescovi al Pontefice, in quanto vescovi, oppure all’imperatore in quanto nominati da quest’ultimo “conti” con assegnazione di feudi (ma non ereditari per probabile mancanza di eredi).
Tale equivoco ha portato molti a vedere nell’attuale papa non esclusivamente un capo spirituale, ma anche un capo politico, e per di più schierato dalla parte considerata più conservatrice del paese, in uno scontro aperto tra laicità dello Stato e confessionalità della Chiesa.
La condanna del relativismo non viene capita dentro tutti i suoi limiti, discussa, criticata e accolta nella sua giusta, ma limitata, dimensione, bensì viene recepita strumentalmente e proiettata all’interno di una miriade di contraddizioni che sfruttano il relativismo nella lotta contro il relativismo.
Il superamento del relativismo, in particolare del relativismo etico, per superare l’individualismo, ha una sua ragion d’essere. Il relativismo, infatti, considera tutto come relativo ai singoli soggetti e alle singole concezioni e pone la guida del comportamento esclusivamente nella volontà dei singoli individui. Ma se ogni religione e ogni fede è relativa a una cultura particolare, a individui particolari situati spazio-temporalmente, storicamente ed esistenzialmente, il centro da cui si parte e attorno a cui si ruota non è Dio ma è l’Io; non hanno centralità i valori di cui la religione è portatrice, ma l’individuo. Con la conseguenza che ognuno è lasciato a se stesso, è rimandato a se stesso e diviene egli stesso la misura di tutto e il riferimento ultimo (l’uomo misura di tutte le cosa !). Opporsi al relativismo deve limitarsi a significare opporsi all’egocentrismo. I
n questa forma sono perfettamente d’accordo con papa Ratzinger.
Ma se è giusto che la Chiesa si preoccupi del relativismo, è anche giusto che si preoccupi della sua relazione col mondo e con gli uomini che lo abitano.
È stato il Concilio Vaticano II a sottolineare in modo forte questa esigenza della Chiesa.
Leggiamo nella costituzione dogmatica Gaudium et spes al n. 1:
«Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi […] sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo».
Ora, tra le gioie, le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi ci sono anche quelle dei non cristiani, dei laici, dei non credenti, di chi ha convinzioni diverse da quelle della Chiesa cattolica. Se queste devono essere anche quelle dei cristiani, la Chiesa voluta dal Concilio è una Chiesa aperta, dialogante, che costruisce ponti e non muri.
E la Lumen gentium, la costituzione dogmatica del Vaticano II sulla Chiesa, afferma al n. 1 che la Chiesa dev’essere strumento «dell’unità di tutto il genere umano». La Chiesa, dunque, non può spingere la legittima difesa dei valori in cui crede fino al punto di apparire quasi come un partito di Dio, quasi alla stregua degli ultraortodossi ebrei e dei fondamentalisti islamici.
Se la Chiesa apparisse come un partito schierato contro un altro partito che è il mondo, tradirebbe la sua stessa autocomprensione conciliare.
In ambito cattolico il Magistero ha saputo cambiare opinione e ricredersi, e lo ha fatto diverse volte. Si pensi, ad esempio, alle affermazioni oggi superate del Decreto per i copti del Concilio di Firenze (1442), alla bolla “Hebraeorum gens” del 1570 di San Pio V con la quale si inaspriva la persecuzione contro gli ebrei, oppure al Syllabus di Pio IX (1864), o ancora al Decreto del Sant’Uffizio Lamentabili sane exitu (1907), o all’enciclica di Pio X Pascendi Dominici gregis (1907).

L’accanimento della lotta al relativismo, se dilatata e professata da tutti, rischia di diventare lotta contro il mondo, quando miri a far sì che ogni norma della religione diventi legge della società, ogni divieto della religione diventi divieto dello Stato.
Così la lotta contro l’egocentrismo rappresentato dal relativismo, non dovrebbe diventare lotta contro gli uomini, bensì invito agli uomini a superare l’egocentrismo, mostrando come la gioia che nasce dall’amore per gli altri è più grande del piacere o della soddisfazione che nasce dall’amore per se stessi.
L’esigenza di relazionalità, che si oppone all’egocentrismo, non è estranea al cristianesimo; ma anzi ne è parte costitutiva.
Se dunque la lotta della Chiesa contro il relativismo apparisse come una lotta contro la relazionalità, la Chiesa rischierebbe di non annunciare nella sua pienezza il Cristo, principio di comunione, e non intercetterebbe, ma anzi respingerebbe, la domanda di comunione e di relazionalità che viene dal mondo.
Il richiamo anti-relativismo, quando culmina nell’esaltazione delle “radici cristiane dell’Europa” (e solo dell’Europa e dell’Occidente !), però, non deve dimenticare che rischia di essere visto come un’apologia della cultura occidentale rispetto al resto del mondo.
Nel suo insegnamento Cristo non si è schierato da una parte nella lotta tra il Bene e il Male, tra il giusto e il non giusto, tra il puro e l’impuro, lotta che è rimasta come elemento di base della cultura occidentale, piuttosto ha predicato l’avvicinamento dell’umano e del divino, unificando il genere umano nell’unica “razza” della quale ha voluto essere partecipe: l’unica “razza divina” che assimila in sé tutto il genere umano.




Rosario Amico Roxas



Martedì, 13 maggio 2008