Sulla legge Alfano

di Valerio Onida

(Onida è presidente emerito della Corte Costituzionale)


Riceviamo questo articolo di Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale, sulla legge Alfano da Enrico Peyretti che lo ha ricevuto direttamente dall’Autore il 28-07- 2008.


La legge sulla immunità delle "alte cariche" durante il mandato entra in vigore, a poco più di venti giorni dalla presentazione del progetto governativo (confermando fra l’altro che, quando c’è una volontà politica determinata della maggioranza, l’iter delle leggi, nonostante il bicameralismo, può essere non rapido ma rapidissimo). Ma il problema della sua legittimità costituzionale è ancora per intero davanti a noi. Che il Presidente della Repubblica, fosse o non fosse personalmente d’accordo con la legge, non l’abbia rinviata alle Camere, come alcuni forse speravano, ma l’abbia promulgata, non significa gran che: nel nostro sistema il Capo dello Stato non è giudice della costituzionalità delle leggi, anche se può usare il proprio potere di "veto sospensivo" e di moral suasion ove ritenga di avere obiezioni, di legittimità o di merito, che reputi opportuno (mai doveroso, se non forse in casi estremi) sottoporre al Parlamento. In questo caso, fra l’altro, trattandosi di una legge assai semplice e univoca, sulla cui costituzionalità oltre che sulla cui opportunità maggioranza e opposizione avevano già espresso chiaramente le proprie opposte valutazioni, un rinvio avrebbe avuto comunque poco senso, perché la discussione aveva già avuto luogo, e il Presidente non può bloccare se non provvisoriamente la volontà delle Camere.

La parola è ora al controllore delle leggi, vale a dire alla Corte costituzionale, il cui intervento richiede solo l’iniziativa di un qualsiasi giudice chiamato ad applicare il provvedimento. Nel caso il giudice c’è, ed è il Tribunale che stava celebrando un processo a carico del Presidente del Consiglio, e che, se non riterrà l’eccezione di costituzionalità "manifestamente infondata" (e se l’imputato eccellente non rinuncerà allo "scudo"), potrà o meglio dovrà, specie se sollecitato dalla pubblica accusa, sollevarla davanti alla Corte, sospendendo intanto il procedimento in corso, in obbedienza non alla legge "Alfano" ma alla legge sui giudizi di costituzionalità. E’ questo dunque un caso in cui il sistema di controllo sulla legittimità costituzionale delle leggi è in grado di funzionare immediatamente e facilmente.

Non resta dunque che attendere serenamente e con rispetto il giudizio della Corte. Questa si era già pronunciata sulla analoga legge del 2003 (sentenza n. 24 del 2004). Oggi i sostenitori della legge Alfano sostengono che essa è immune dai vizi che la Corte aveva riscontrato nella precedente "edizione"; molti oppositori lo negano, ma soprattutto contestano che alla sentenza del 2004 si possa far dire ciò che essa non dice, e cioè che una legge come l’attuale è invece senz’altro conforme alla Costituzione.

Il vero nodo, a mio giudizio, non sta nell’astratta "apprezzabilità" dell’interesse che i proponenti dello "scudo" invocano, quello di garantire la "serenità" dell’esercizio (sia pure solo per una legislatura: una serenità "a tempo") di certe funzioni pubbliche: sta nell’uso, che si è ritenuto di poter fare, della legge ordinaria, e non della legge costituzionale, per introdurre una nuova forma di prerogativa o di immunità a favore dei titolari delle quattro cariche.

Il ragionamento è semplice. Ogni forma di immunità costituisce una eccezione al principio dell’eguale sottoposizione di tutti i cittadini alla giurisdizione penale, quindi una deroga non ad una qualsiasi regola processuale, ma ad un principio costituzionale, di cui l’obbligatorietà dell’azione penale è per così dire un riflesso. Forme di immunità sono astrattamente possibili, a tutela di interessi giudicati ragionevolmente meritevoli di protezione; e di fatto esistono, dalla immunità sancita a favore dei parlamentari e dei consiglieri regionali per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle funzioni (articoli 68, primo comma, e 122 Cost.), a quella, sempre a favore dei parlamentari, della necessaria autorizzazione della Camera di appartenenza per l’adozione di misure restrittive della libertà personale o di comunicazione (articolo 68, secondo comma, Cost.; e fino al 1993 nella forma più ampia della necessaria autorizzazione anche per poterli sottoporre a procedimento penale); a quella a favore dei componenti del Governo per fatti compiuti nell’esercizio delle rispettive funzioni, anche qui nella forma della necessaria autorizzazione di una Camera per procedere nei loro confronti (articolo 96 Cost. e legge costituzionale n. 1 del 1989); alla irresponsabilità del Presidente della Repubblica per gli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni, salvi i casi dell’alto tradimento e dell’attentato alla Costituzione (articolo 90 Cost.); alla necessaria autorizzazione della Corte costituzionale per procedere penalmente nei confronti di uno dei suoi membri (articolo 3, secondo comma, legge costituzionale n. 1 del 1948).

Come si vede, però, in tutti questi casi è servita una norma della Costituzione o di una legge costituzionale per sancire l’immunità.

Si è detto che così non è nel caso della insindacabilità dei membri del Consiglio superiore della magistratura per le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni, e "concernenti l’oggetto della discussione", sancita dall’articolo 5 della legge (ordinaria) n. 1 del 1981, e ritenuta legittima dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 148 del 1983. Ma non è vero: in quel caso la Corte ha ritenuto legittima la legge solo in quanto ha giudicato che quella forma di immunità sia imposta (non semplicemente consentita) implicitamente dalla Costituzione per tutelare l’indipendenza dei componenti del Consiglio. Quindi anche in quel caso il fondamento dell’immunità sta nelle norme costituzionali. Ora, nemmeno i sostenitori della legge Alfano possono credibilmente sostenere che la Costituzione implicitamente obblighi ad attribuire ai titolari delle quattro cariche l’immunità temporanea per reati comuni che oggi si è voluta introdurre. Né si dica che la posizione dei Presidente del Consiglio è oggi diversa da quella di un tempo (ma che cosa c’entrerebbero allora i Presidenti della Repubblica e delle Camere?): nessun riferimento improprio alla cosiddetta "Costituzione materiale" potrebbe giustificare uno "strappo" all’unica Costituzione che vale, quella in vigore, tanto più su un punto così rilevante.

Non diverse considerazioni valgono per la estensione delle prerogative dei membri delle Camere a favore dei parlamentari europei, sancita da un Protocollo annesso ad un Trattato europeo, reso esecutivo in Italia con la legge (ordinaria) n. 437 del 1966, ma abilitato ad apportare deroghe alla Costituzione in forza dell’articolo 11 della Costituzione, che fonda le "limitazioni di sovranità" a favore delle istituzioni comunitarie. Anche in questo caso l’eccezione si basa dunque su una norma costituzionale, e la Corte perciò ha giudicato non applicabile il principio secondo cui si deve "escludere che, attraverso legge ordinaria, sia ammissibile un’integrazione dell’art. 68, secondo comma, Cost., e comunque la posizione di una norma che attribuisca analoghe prerogative" (così, testualmente, la sentenza n. 300 del 1984).

Consentire che la discrezionalità del legislatore ordinario possa esplicarsi anche creando o ampliando (sia pure nei limiti della non irragionevolezza) nuove forme di immunità dalla giurisdizione, integrando le eccezioni previste dalla Costituzione, sarebbe molto pericoloso. Diventerebbe possibile perfino reintrodurre con una semplice legge ordinaria come la legge Alfano l’autorizzazione a procedere per i parlamentari, un tempo sancita dalla Costituzione e soppressa, secondo alcuni improvvidamente, dalla legge costituzionale n. 3 del 1993.






Valerio Onida





Martedì, 29 luglio 2008