Il liberismo da Friedman a Berlusconi

di Rosario Amico Roxas

“ Per troppi anni in Italia le idee di merito, di individualismo, di Stato minimo, sono state distanti anni luce dall’esperienza culturale di Veltroni e dei suoi.”
Così scrive Nicola Porro su “Il Giornale” del 24 febbraio, ritenendo di esaltare il liberismo berlusconiano e tentare di fornirgli un ulteriore avallo in quanto Veltroni cercherebbe di imitarlo.
E’ il gioco delle tre carte al quale i commentatori incaricati (e retribuiti) di esaltare le gesta del cavaliere ci hanno da tempo abituati.
Il liberismo berlusconiano, che peraltro si affannano a chiamare liberalismo, è , e resta, liberismo, e ce lo conferma lo stesso Porro, quando fa appello alle teorie di Friedman, il liberista convinto che è stato più volte definito l’anti- Keynes, per il suo rifiuto verso qualsiasi intervento dello Stato nell’economia ed il suo sostegno convinto a favore del libero mercato e della politica del laissez-faire .
Le sue idee sono ancora oggi oggetto di accesi dibattiti: ad esempio, Friedman rifiutò la responsabilità sociale d’impresa, sul piano economico ed etico, sostenendo che i manager sono agenti per conto terzi e dipendenti dei proprietari-azionisti, e che devono agire nell’interesse esclusivo di questi ultimi (utilizzare il denaro degli azionisti per risolvere problemi sociali, significa fare della beneficenza con i soldi degli altri, senza averne il permesso e tassarli senza dare un corrispondente servizio, violando il principio del «no taxation without rapresentation»).
Anche il giusto salario viene inteso da Friedman come problema sociale, che l’azienda non deve risolvere, in quanto il lavoro viene inteso come una merce e come tale deve seguire le leggi di mercato della domanda e dell’offerta; così quando il proprietario dei mezzi di produzione ritiene di dover abbattere i salari non deve far altro che ridurre la domanda di lavoro e ricattare i prestatori d’opera per esercitare lo sfruttamento che consente la materializzazione del surplus come guadagno extra dell’impresa, al quale i prestatori d’opera non devono partecipare, pur avendolo prodotto.
La premessa di uno Stato o di un governo del laissez-faire, impedisce anche l’intervento equilibratore delle istituzioni, mortificando totalmente lo Stato sociale, che è stata una conquista anti-liberista.
Purtroppo sono pochissimi i lettori del citato quotidiano, e quei pochi appartengono alla classe dominate che dalle teorie di Friedman hanno solo da guadagnare; per questo accolgono il “verbo” berlusconiano come il vangelo del capitalismo.
La richiesta di maggiori poteri al presidente del consiglio, programmata da Berlusconi, diventa la virata definitiva verso il crollo del sistema democratico che si trasforma in regime autoritario.
La democrazia che ha consentito il formarsi del capitalismo, viene respinta come sistema politico dallo stesso capitalismo che privilegia il sistema autoritario per tenere a bada le prevedibili rimostranze di quanti saranno costretti a subire il rinato liberismo.
Tutto ciò non ci ricorda gli anni ’20 quando, per frenare la domanda di giustizia sociale che emergeva dal popolo, con il sostegno della borghesia avvenne quella disgraziatissima marcia su Roma che portò la nazione allo sfacelo ?


Rosario Amico Roxas



Lunedì, 25 febbraio 2008