Funerali degli operai uccisi sul lavoro a Torino
La lectio magistralis del cardinale Poletti

di Rosario Amico Roxas

L’omelia di mons Severino Poletti ai funerali delle vittime del lavoro di Torino, è andata oltre la funzione del pastore che consola i parenti e prega per le anime dei defunti.
Ma non è stato un comizio sindacale come alcuni quotidiani l’hanno voluto identificare.
Certo un intervento deciso, duro, senza tentennamenti, che accusa l’arroganza dell’egoismo che condanna a morte con la sola inadempienza dei doveri, suona male ai tanti difensori di quella genìa che si propone e si impone come la sola in grado di decidere, anche della vita e della morte.
L’arma del ricatto rende tutto più fattibile; è il ricatto del lavoro, che deve essere accettato, altrimenti si spalanca la voragine della disoccupazione. Il lavoro così diventa un atto di amore grandissimo, amore verso la propria famiglia, per consentire il necessario, l’indispensabile, non certo il superfluo.
Il lavoro, nelle parole di Poletti, diventa il viatico d’amore, anche se conduce a morte, anche se prevede la morte.
Risuona in queste parole l’eco del prete operaio, che non ha dimenticato di esserlo stato, di esserlo adesso e di continuare nella propria missione in mezzo a quelle vittime dell’amore, che per amore sono disposte a morire.
C’è un parallelo sconcertante; ha usato parole di sacrificio anche Berlusconi, sostenendo che "per una causa giusta sarebbe disposto a morire", ma la sua causa giusta è l’arroganza del potere, del suo potere, rattoppato per figurare nel metodo del suo interesse.
Parlare di essere disposto anche a morire pur di riaccaparrarsi la presidenza del consiglio, proprio mentre altre persone sono morte per l’unica ragione per la quale val bene la pena anche morire: l’amore per la propria famiglia, diventa, in bocca al cavaliere una provocazione.
Tacciano i sepolcri imbiancati, per pudore, per prudenza, per onestà etica; tacciano coloro che fanno morire per soddisfare esigenze personalissime e spediscono ragazzi desiderosi di guadagnare ciò che in Patria viene negato, mandandoli in guerra per compiacere il socio-compare.
Quegli operai di Torino non volevano morire, come non lo volevano i militari in Iraq e in Afghanistan; l’ipocrisia delle parole interviene a cambiare le carte in tavola; così i militari sarebbero "morti per la Patria", quando sono "stati uccisi in una guerra dissennata" e non per la Patria bensì per il governo che li ha mandati allo sbaraglio; anche per gli operari di Torino ci sono parole di ipocrisia, come "vittime del lavoro"; il lavoro non vuole vittime, è la viltà del possesso che le genera e le liquida fornendo una valutazione monetaria, quanto basta per tacitare quello che resta di una coscienza moribonda.
Il cardinale Poletti ha tenuto la sola "lectio magistralis" che da qualche tempo si è ascoltata proveniente dalla Chiesa; ha chiamato ogni cosa con il suo nome; ha chiaramente escluso i responsabili dalla veglia di dolore, richiamando il solo sentimento che può confortare: l’amore che i morti hanno elargito alle loro famiglie e che adesso ricevono da quanti partecipano con il cuore, lontanissimo dalle speculazioni che si vorrebbero utilizzare per promuovere l’oblio.

Rosario Amico Roxas(raroxas@tele2.it)



Sabato, 15 dicembre 2007