Gioca la nazionale

di Rosario Amico Roxas

Sono le 18,30 del 13 giugno; per le strade di Caltanissetta non c’è anima viva; finalmente un po’ di silenzio senza l’assordante traffico che ci inquina.

Gioca la nazionale di calcio e niente ferma l’Italia “sportiva”, neanche la pessima figura della quale ho letto sui giornali.

Sembrava dolore vero, sembrava sincera partecipazione, il segno di cordoglio che aveva invaso i cuori di quanti abbiamo, emotivamente, partecipato alla tragedia di Mineo, con la strage di sei operai; sembrava “la nazionale del dolore”, sostituita oggi dalla nazionale di calcio.

Una soubrette, paradossalmente di cognome Santarelli, ma che non deve fare onore al nome che porta, promette di mostrare le sue nudità in TV se l’Italia (sì proprio l’Italia, non una equipe di giocatori, ma la nazione intera) vincerà il confronto con i Rom della Romania.

Del risultato non può fregarmene di meno, e delle nudità della santarella ancora meno.

Già li immagino: si tratta di 22 persone adulte, alcuni anche padri di famiglia, in mutande, corrono appresso al medesimo pallone, ma danno più l’impressione di volerlo sfuggire che di volersene appropriare; infatti, non appena un giocatore tocca quella sfera di cuoio, due o tre avversari lo agguantano, lo sgambettano, lo tirano per la maglia, lo atterrano.

In mezzo a loro c’è un 23° personaggio, uscito dai fumetti del patologico; corre per tutto il campo con un fischietto in bocca e ogni tanto fischia, sempre correndo, inseguendo la sua stessa ombra.

Altri due personaggi stanno ai bordi del campo; anche loro corrono su e giù per il campo e agitano una bandierina, forse per farsi notare. Intorno la gente freme, urla, lancia petardi, invoca lo scontro fisico con i sostenitori dell’altra squadra come se un antico rancore per colpe generazionali, li spingesse verso una vendetta tanto attesa.

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Mi trovavo per lavoro a Islamabad, città pakistana di nuova fondazione, situata nella parte nord-orientale della nazione, tra le province del Punjab, a cui apparteneva il suo territorio (a nord-est di Rawalpindi, capitale provvisoria dal 1958 al 1967), e di Sarhad; e come mia consuetudine dedicavo il tempo libero a conoscere il mondo nel quale mi trovavo; accompagnato da un taxi e dall’interprete che mi era stato assegnato, mi ero fatto portare verso la periferia, perché in quella città non c’è un centro storico antico, tipico dei paesi arabo-indiani. La mia attenzione fu attratta da una lunga serie di capannoni fatiscenti; non potevano essere industrie, nè depositi, così chiesi lumi all’interprete. Mi spiegò che in quei capannoni venivano prodotti palloni di cuoio, i migliori del mondo, rigorosamente cuciti a mano.

La produzione riusciva a coprire il fabbisogno del pianeta per l’85% .

Si era fatto quasi sera, anche se c’era ancora molta luce, quando vidi uscire da quei capannoni frotte di bambini, maschi e femmine, tutti vicinissimi tra loro, quasi attaccati, per sostenersi a vicenda.

La spiegazione mi fece agghiacciare, erano gli “operai” che cucivano i palloni; le loro manine piccole risultavano ottimali per cucire dall’interno quei palloni; lavoravano dall’alba al tramonto; avevano un pasto al giorno a base di riso; disponevano di latrine all’aperto, da una parte i maschietti e dall’altra le femminucce; le loro famiglie percepivano il salario che veniva pagato settimanalmente, pari a tre dollari…la settimana, ma limitatamente al periodo adolescenziale, quando le loro manine potevano cucire dall’interno i palloni, quindi sarebbero andati ad ingrossare le fila dei disoccupati.

E’ da allora che odio il calcio.


Rosario Amico Roxas



Domenica, 15 giugno 2008