I FUOCHI

di Raniero La Valle

Riceviamo da Enrico Peyretti questo articolo di Raniero Lavalle della rubrica "Resistenza e pace" in uscita su Rocca (rocca@cittadella.org ), 15 settembre 2007


Quest’estate non ci ha portato solo la notizia che la crisi climatica è vera, che la natura è in subbuglio e che il termometro impazzisce, sicché sono altamente irresponsabili le politiche che non prendono in carico il futuro, ma ci ha anche offerto lo spettacolo della nostra crescente assuefazione e vulnerabilità al disastro.

Abbiamo visto sgomenti (e i giornali titolavano a piena pagina) un’Italia che bruciava; anzi un’Italia da bruciare. Bruciavano il Gargano e la Sicilia, la costa calabra e la corona di monti intorno a Messina, il verde di Patti e di Cefalù, i Nebrodi e le campagne di Partinico, il Lazio e la Sardegna; e non solo le piante, i parchi naturali, la macchia mediterranea, ma case, frazioni periferiche, villaggi estivi, automobili e persone. E nessun leader è andato alla Televisione a prendere il lutto per l’Italia che bruciava, a gridare che per noi, Paese di mare e di boschi, di borghi e di piccole città, di bellezza, di arte e di turismo, quello era un attacco al cuore dello Stato, era un po’ come il nostro 11 settembre, ma non per l’aggressione di un nemico stregato da un suo disegno razionale e malvagio, bensì per l’insorgere e il contagio di una follia diffusa, di un dolo irragionevole e perverso.

E il problema non era solo che mancassero i Canadair, che non bastassero i mezzi di soccorso o che i vigili del fuoco arrivassero con due ore e mezzo di ritardo; il problema era che l’Italia appariva abbandonata a se stessa, senza più una guida, senza maestri, senza nessuno che interpretasse un’emozione collettiva e un vero, generale interesse pubblico.

E su tutto ciò piombava la notizia che la maggior parte dei roghi erano stati appiccati per motivi futili e banali: non solo i pastori per procurarsi nuovi spazi, ma i disoccupati per vendicarsi delle guardie forestali assunte al posto loro, o per farsi assumere domani, piccoli e grandi delinquenti e mafiosi per risolvere liti o dare una lezione a persone non gradite, e molti anche solo per divertimento, per dare sfogo allo stress, per il gusto di farla franca e perfino per predisporre i campi bruciati non all’edilizia, e nemmeno al pascolo, ma semplicemente perché vi crescessero gli asparagi selvatici, che alle prime piogge spuntano sui terreni riarsi: un bosco per fare una frittata.

È stato come un monito a ricordarci della banalità del male, che del resto ha mostrato il suo volto irreprensibile e feroce in molti degli ultimi delitti, perpetrati per motivi irrisori, tra vicini di casa, nel sacrario della famiglia e perfino tra genitori e figli.

Sono segnali d’allarme di un perduto legame sociale. E ciò non può che chiamare in causa la cultura che si sta affermando nel nostro Paese, i messaggi che vengono veicolati dai mezzi di comunicazione di massa, la volgarità di ciò che è esibito come pubblicamente rilevante e, ciò che più conta, la fine dell’educazione come funzione sociale: e qui non parliamo solo della scuola e delle altre istituzioni educative, parliamo della società stessa che se vuole restare unita e sopravvivere deve porsi come comunità educante permanente, nella quale tutti si istruiscano l’un l’altro e si trasmettano esperienze, valori e saperi da una generazione all’altra, come hanno cercato di farci capire, nel Novecento, Ivan Illich e don Lorenzo Milani.

Perciò non è solo questione di repressione, di prevenzione, o di eserciti da muovere per controllare il territorio e spegnere gli incendi. Il fatto è che l’Italia sta perdendo la sua forma e la sua figura; e ciò che dà forma e unità a una comunità umana, è la politica. Essa nel giro di pochi anni, tra la fine e l’inizio del secolo, di riforma in riforma ha perduto questo ruolo, ed anzi ha dato corpo a due Italie politiche dissociate, contrapposte e nemiche, fieramente in conflitto tra loro per fare poi la stessa società, e struggentemente aggrappate al mito del bipolarismo, dal quale ciascuna si ripromette di ottenere per sé tutto il potere. È questa vanità del conflitto, il suo esacerbato avvinghiarsi sul niente, la banalità delle alternative proposte e duramente respinte, la rinunzia a persuadersi l’un l’altro, l’indifferenza per gli effetti delle proprie scelte e delle proprie azioni che fanno scuola, dai piani alti della politica giù giù per tutta la scala sociale. E non è coi partiti pigliatutto né col buonismo dei volenterosi che si potrà arrestare questa deriva e si potrà rivoltare la frittata.


Raniero La Valle



Lunedì, 10 settembre 2007