L’opinione
L’elemosina come reato

di Rosario Amico Roxas

SONO già numerose le amministrazioni comunali (vedi case del PdL e della Lega) che hanno assunto rigorose misure contro l’accattonaggio, queste disposizioni non sono altro che il metro dei nostri tempi, nel quale domina sovrana la confusione generalizzata che coinvolge anche i valori antichi.

Prendiamo atto che è diventato reato lavare i vetri ai semafori, con una ammenda di 100 euro e la confisca del corpo del reato: una spugna e un catino d’acqua.

La violenza contro una coppia in gita ciclistica in Italia, con rapina, pestaggio e stupro collettivo della donna, non è più reato, non prevede neanche l’ammenda e, men che meno, la confisca del corpo del reato, che nel caso dello stupro genererebbe conflitti di competenza (chi deve esercitare la confisca il chirurgo o il carabiniere ?).

Ma il vertice massimo penale spetta all’accattonaggio, anch’esso perseguito con la confisca di quanto ricevuto in elemosine, e altra ammenda, per pagare la quale il criminale (!) non potrà che reiterare il reato, in un circolo vizioso del quale non si intravede la fine.

E pensare che ci sono popoli che noi occidentali, europei, figli delle radici cristiane dell’Europa, consideriamo incivili, che considerano l’elemosina uno dei pilastri della religione, perché tale gesto si eleva dalla semplice e occasionale generosità momentanea, per diventare carità, come intima partecipazione .

Ma cos’è l’elemosina, figlia della carità, che oggi dichiariamo un reato da stroncare ?

Ma allora è reato anche la povertà !

In questo caso, però, chi commette tale reato ?

Il povero o chi si rifiuta di andare incontro verso quelle necessità la cui mancanza determina lo stato, punibile, di povero ?

L’elemosina è un dare inconsapevolmente senza partecipazione emotiva e senza attendere ricompensa; è un gesto della mano che non comporta alcun sacrificio.

Ben diversa è la Carità che prevede una partecipazione umana e la com-passione verso quei nostri simili che necessitano del nostro aiuto. E’ un gesto dell’anima, del cuore, compiuto nella certezza di ricevere una ricompensa superiore al gesto stesso che viene compiuto, una ricompensa che solo Dio è in grado di elargire.

La Carità eleva l’uomo al livello stesso di Dio, perché nell’atto caritatevole quell’uomo diventa interprete della Divina Provvidenza e solleva il fratello dal bisogno.

La religione musulmana fa della Carità uno dei pilastri della fede, in quanto è intesa come il riconoscimento “dei diritti dei poveri” che rappresentano l’immagine stessa dell’Altissimo che nei poveri, nei deboli, nei bisognosi proietta la Sua stessa Immagine, per cui ciò che sarà fatto ad un povero è come se fosse fatto a Dio stesso.

Per i Cristiani le stazioni della Via Crucis hanno una continuità nel tempo e nello spazio; Cristo continua a ripercorrere le Stazioni in un mondo che diventa ogni giorno più egoista e insensibile ai bisogni dei deboli; riscatta gli egoismi elevando i più deboli fra i deboli, che per il mondo opulento sono i figli indesiderati da nascondere, al livello di figli prediletti di Dio per i quali è riservato un posto nel regno dei Cieli.

Ma come è possibile vivere una vita spirituale all’insegna della Fede, se non si è in grado di vivere la stessa vita ?

E’ il quesito che si è posto S.S. Giovanni Paolo II quando promulgò l’Enciclica “Centesimus Annus”, dove trasformò lo sviluppo del Pensiero Sociale della Chiesa nella Sociologia del Nuovo Umanesimo. La maggioranza della popolazione mondiale vive al di sotto dei limiti accettabili alla dignità umana, mentre una maggioranza avida e insensibile spreca il superfluo; da qui il diritto inalienabile delle religioni di intervenire per svegliare le coscienze e rinnovare l’itinerario di una mai sopita sete di Giustizia.

La Carità rappresenta il viatico per modificare le distorsioni del mondo e deve diventare il riconoscimento dei diritti di tutti gli uomini di vivere una vita vivibile, perché la fame, i bisogni, la miseria, le malattie, sono i mali dinamici del pianeta che, se non contrastati con normative compensative che restituiscano al mondo della fame il diritto alla propria dignità, sono in grado di anticipare l’Apocalisse.

Per i laici deve diventare un principio di equità e di giustizia per non incorrere in quel “peccato sociale” identificato da Paolo VI nella “Populorum Progressio”; per i credenti deve diventare una partecipazione al progetto di Dio.

Anche quando si è con Dio e si vive in comunione con Lui, si deve restare coscienti di quello che Egli ci dona e non dimenticare mai la relazione che abbiamo con l’Altissimo nella gestione del nostro benessere. Non c’è una frattura tra le due sfere. E’ il senso di purificazione del quale parliamo. Esiste, certamente, anche una dimensione orizzontale, comunitaria. L’uomo è sempre solo con Dio sapendo che Egli dona, ma è insieme alla comunità sapendo che anch’egli deve donare.

Il partecipazione al progetto divino ci offre un grande insegnamento quando sostiene che i credenti sono coloro che sono coscienti del: “ diritto per il povero ed il bisognoso”. La formula è chiara ed attribuisce a colui che possiede, l’esigenza di dare; al povero, la dignità di ricevere e di rivendicare il suo diritto, e non di restare in attesa solo dell’inclinazione pietistica dei suoi simili.

Alla luce della trascendenza, la solidarietà si traduce in responsabilità e diritto, non nel valore della sola bontà, commossa e occasionale mendicità verso il proprio simile.

Rosario Amico Roxas



Mercoledì, 27 agosto 2008