Una campagna elettorale disgustosa

di Rosario Amico Roxas

Una campagna elettorale disgustosa; è difficile intuire qualcosa di peggiore da ciò che stiamo subendo. Lo scontro non è più ideologico, programmatico, propositivo, ma è farcito di promesse allettanti che proiettano nell’immaginario collettivo un futuro roseo, brillante, accattivante.
Vince chi riesce a far credere alle proprie promesse; allora l’altro rilancia e promette di più. Fanno credere di avere un gioco servito, ma si tratta di un bluff sulla pelle dei creduloni.
Le forze in campo si scontrano, senza esclusione di colpi:
· la destra che insiste a chiamarsi centro-destra, ma il suo leader esibisce, disinvoltamente quanto volutamente, una camicia nera, dopo avere abbandonato l’usuale cravatta a pallini; segno dei tempi e mediatica dichiarazione di intenti;
· la destra estrema, defraudata degli argomenti e degli uomini (e donne)-simbolo, non trova di meglio che ringhiare alla luna, dopo essere stata illusa di essere il figlio prediletto del grande arruffapopolo;
· il centro con nostalgico impegno prende le distanze da tutti, distribuendo accuse e contumelie senza risparmi di energie;
· il centro-sinistra è costretto ad inseguire i sondaggi taroccati che vengono esibiti come risultati acquisiti, distribuendo promesse al rialzo, come in un’asta di beneficenza;
· l’estrema sinistra propone soluzioni per la cui realizzazione occorrerebbero tempi generazionali, invece chiedono “tutto e subito”, ottenendo “niente e per sempre”;
· la Chiesa…Sì, la Chiesa, quella del Vaticano, partecipa più che attivamente, lanciando sul campo neo-convertiti e papa-boys, pronti a identificare e premiare i buoni e punire i cattivi.
I giochi dell’economia si affidano alla “finanza creativa”, mentre le responsabilità di situazioni drammatiche vengono respinte da tutti con l’eterno gioco dello “scaricabarile”.
Una parte si vanta di avere aggiustato i conti dello Stato, mentre l’altra parte lo accusa di avere mortificato i consumi, con i consumi la produzione, con la produzione la competitività, con la competitività i posti di lavoro, con i posti di lavoro i conti dello Stato: come quel cane che insegue la sua coda.
L’Alitalia è diventato un ghiotto boccone di propaganda; nessuno si è accorto che da quindici anni la compagnia di bandiera era stata trasformata nel refugium peccatorum dentro il quale venivano scaraventate le esigenze dei singoli componenti la casta, con una dilatazione dei costi insostenibile.
La costruzione del ponte sullo stretto di Messina viene presentata come la panacea per il meridionalismo, la soluzione di tutti i problemi, quando già si preannuncia una pesante intromissione della mafia e della ‘drangheta, di qua e di là dello stretto, in ossequio alla par condicio, con un costo che si quantifica in non meno di 50 miliardi di euro e una durata di almeno 50 anni, formalizzando, di fatto, l’alleanza generazionale tra politica e malaffare, che assumeranno, insieme, l’onere di amministrare un miliardo di euro l’anno per i prossimi 50 anni.
Non piace la “par condicio” che regolamenta le apparizioni propagandistiche nei media, così si promette che la prima legge da modificare è proprio quella, in modo da poter utilizzare la tecnica del lavaggio del cervello in maniera sempre più pressante; praticamente si vorrebbe legalizzare l’ipotesi che alle Olimpiadi non devono partecipare i migliori e tutti nelle medesime condizioni e medesime ciance, in rispetto della democrazia e della volontà popolare, ma dovrebbero partecipare solo i figli dei vincitori delle Olimpiadi precedenti, o loro succedanei.
L’oro della Banca d’Italia rientra nella politica economica della finanza creativa; quell’oro costituito per ¾ da quello che Garibaldi rapinò, manu militari, al Banco di Sicilia (allora Istituto di emissione) e al banco di Napoli; si prospetta la vendita di quell’oro, insieme ai pochi gioielli di famiglia rimasti, dopo la grandissima abbuffata democraticamente gestita, all’Italia e al popolo italiano. Tutto in vendita per pagare il debito pubblico che ci colloca ai primissimi posti del pianeta; un debito pubblico superiore al PIL, del quale non esiste traccia e con il quale si sarebbe potuto trasformare l’intera nazione in un paese di bengodi; invece è rimasto solo un piccolo manipolo di plurimiliardari che tengono gelosamente il malloppo all’estero

Rosario Amico Roxas



Domenica, 30 marzo 2008