Il cosmo sul comò (ovvero l’Expo 2015)

di Giovanni Colombo

Ho aspettato sei mesi a scrivervi  sull’expo ma negli ultimi due giorni, oplà!,  mi è uscito questo testo (che sarà pubblicato sul n. 5/2008 della rivista “Appunti di cultura e politica”  vedi per maggiori informazioni  www.cittadelluomo.it).

Il titolo l‘ho copiato, senza permesso,  dal prossimo film di Aldo, Giovanni e Giacomo (in uscita a Natale). Il contenuto ruota sostanzialmente intorno ad un’unica  questione : l’esposizione riuscirà a suscitare un nuovo Rinascimento lombardo?  “Il sex appeal  dell’inorganico”, per usare un’espressione del filosofo Benjamin, contagerà anche l’organico? L’uomo vitruviano, che è stato messo nel logo, si metterà a danzare? I preannunciati 29 milioni di visitatori proveranno le vibrazioni intense di tutti i sensi in festa?

Leggetelo, forse ci sono due o tre parole che possono servirci a vivere meglio, a vivere slow...slow food, slow politics...

Chissà  come saremo noi nel 2015... frasi vuoti nella testa e il cuore di simboli pieno...

Saluti preziosi come la parure della Signora

Giovanni 

 

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Il cosmo sul comò  (ovvero l’Expo 2015)



Milano si è aggiudicata l’Esposizione universale del 2015, battendo nettamente la concorrente Smirne, e tutti sono contenti: il sindaco Moratti che l’ha testardamente voluto, i milanesi che sono orgogliosi di vedere la città balzare di nuovo agli onori della cronaca, i commercianti che sperano in  negozi pieni,  i costruttori  milanesi che pregustano ottimi affari, le opposizioni che già preparano «expo-sti» alla magistratura. Esulta Carlin Petrini, il guru di Slow food,  perché il tema è proprio il suo: «Nutrire il pianeta, energia per la vita». Si agita l’ ‘ndrangheta perché il piatto è molto ricco. I big numbers in effetti fanno impressione: 4,1 miliardi di euro di investimenti solo per la sede e l’organizzazione dell’evento; 29 milioni i visitatori previsti; 120 i paesi espositori; 70 mila i nuovi posti di lavoro.  

L’Expo sarà dunque il pensiero fisso dei prossimi anni. E se c’è qualcuno indisposto che vuole evitare di esporsi, che teme la luce e preferisce l’ombra, si metta il cuore in pace. Non ci saranno buchi in città che non saranno raggiunti dal tripudio universale, tra concerti, torpedoni, treni speciali, schermi giganti, botti vari. Non ci sarà a disposizione nessuna via di fuga.



Un nuovo rinascimento?



Le esposizioni universali sono manifestazioni di natura non commerciale, gestite dal Bie (Bureau international des expositions),   che si tengono ogni cinque anni, per una durata di sei mesi, e che trattano temi generali che  interessano la gamma completa dell’esperienza umana. Così recita la definizione ufficiale, che però dice tutto e dice niente. E’ certamente più utile vedere la storia delle esposizioni universali per tentare di capire quel che ci succederà.

Gli studiosi la dividono in tre periodi.

Il primo - la fase d’oro degli albori – inizia da Londra 1851 - la Great exibition of the works of industry of all nations,   passa, per ricordare le esposizioni più famose,  da Parigi 1889 (che celebra l’anniversario della rivoluzione francese con la costruzione della tour Eiffel) e 1900 (che vedrà il trionfo del cinema dei fratelli Lumière); Milano 1906 (il tema fu quello dei trasporti per festeggiare l’apertura del traforo del Sempione) e San Francisco 1915 (la Panama – Pacific international exposition fu organizzata per testimoniare la rinascita della città dopo il terremoto del 1906) e si chiude con un’altra esposizione parigina, l’Exposition des arts et techniques dans la vie moderne del 1937. Tutte le esposizioni del periodo sono focalizzate  sull’espansione del commercio e dell’industria, nonché sulla presentazione al pubblico  di invenzioni tecniche.

Il secondo periodo – l’età di mezzo -  va dalla World’s fair  di New Yorkdel 1939  e passando da Bruxelles 1958 (Bilancio di un mondo, per un mondo più umano), con la realizzazione dell’Atomium, e Montreal 1967  (L’uomo e la sua terra) arriva fino alle esposizioni degli anni ottanta: esse si caratterizzano per un’impronta futuristica  e utopistica, per essere un carnevale della tecnologia, una gara a chi la inventa più grossa per lasciare il mondo a bocca aperta.

Il terzo periodo - la fase attuale - è stata inaugurata dall’Exposiciòn universal di Siviglia nel 1992 e passando per Shangai 2010 arriverà appunto fino a noi.  In quest’ultima fase, l’Expo cambia forse definitivamente la sua funzione: sta diventando a tutti gli effetti un grande evento d’impatto globale in funzione della promozione economica della nazione e della città ospitante. Il cambiamento quindi è radicale. L’Expo non è più un luogo di pellegrinaggio al feticcio merce, per usare un’espressione del filosofo tedesco Walter Benjamin. Oggi nessun prodotto diventa l’orgoglio di una nazione, di una città, di una ditta o di un genio individuale transitando sui banchi delle esposizioni. La gente  non si muove più per veder le merci, le trova su Internet, che è l’universo senza frontiere in perenne esposizione e, ovviamente, in vendita.  E a competere con internet sono rimaste solo le strade-vetrina  di quelle città del mondo – New York, Londra, Parigi  - che ogni mattino reinventano il mondo. Nell’Expo di oggi  è il contenitore - città  che prevale sul contenuto – merce.

L’esposizione diviene la scossa tellurica  per città addormentate, che da sole non ce la fanno a rimettersi in piedi. Costringe come minimo ad auscultarsi, a guardarsi allo specchio, a farsi il check up e può produrre un ripensamento, un cambiamento.

I promotori milanesi sono andati addirittura oltre e in sede di presentazione della candidatura hanno parlato di rinascimento: «nuovo rinascimento lombardo», «nuovo umanesimo».  Con questo spirito ambizioso hanno messo nel logo l’homo ad circulum di Leonardo da Vinci (che ha vissuto trent’anni a Milano). Hanno usato parole così roboanti, così eccessive per quella che è alla fin  fine solo una fiera., che ancora mi domando quanto le abbiamo pronunciate consapevolmente. Perché poi le parole vanno e nessuno più riesce a fermarle e creano aspettative irrefrenabili. Parlare di nuovo umanesimo proprio nel momento in cui parla solo di aree edificabili e si litiga sugli organigrammi vuol dire essere irresponsabili. Si osa svegliare il leone, ovvero  evocare la sfida più cruciale della nostra civiltà:  quella di un nuovo dinamico equilibrio tra l’organico e l’inorganico, tra l’antropologico e il tecnologico, tra la pulsione di vita e la freddezza delle costruzioni, tra la qualità della vita  e il profitto economico. Una città non vive solo del «sex appeal dell’inorganico», per usare un’altra espressione di Benjamin. Ci vuole anche la vibrazione di tutti i sensi in festa, altrimenti l’uomo vitruviano muore.

Adesso che l’hanno svegliato, il leone ruggisce e va in giro cercando chi divorare.  Fuor di metafora: l’Expo 2015 è stato lanciato in maniera così alta, è stato così sovraesposto che ora siamo a un punto di non ritorno. Aut aut, o la va o la spacca: o Milano rinasce come la città di Leonardo, come «la città degli uomini a misura d’uomo per tutti gli uomini», secondo la formula che amava Giuseppe Lazzati, o affonda definitivamente e diventa uno di quei non-luoghi di cui parla l’etnologo e antropologo francese Marc Augè, uno spazio anonimo, senza più storia, utilizzato per scopi molteplici, frequentato da gruppi di persone freneticamente in transito, senza più capacità di relazione.

La sfida è già partita. E noi siamo già in ritardo nel  chiedere, per quanto riguarda gli aspetti urbanistici, che  le nuove costruzioni  e le nuove infrastrutture siano ispirate non alla filosofia dei gretti venditori di cemento, dei soliti costruttori-corruttori, ma invece alla grazia, all’audacia, alla sapienza dell’arte edificatoria (italiana, non solo straniera, siamo pur sempre la patria di Michelangelo & C.) sostenuta - perché no - dall’interesse economico. L’arte e i soldi non sono antagonisti, l’architetto e il costruttore non sono nemici. Il valore simbolico non è nemico del valore economico. Pensarlo significa cancellare le città d’arte d’Italia. E  perpetuare uno schema ideologico che ha già fatto molti danni nella nostra storia recente.

 

Il cibo per tutti (ma proprio tutti)



Se la sfida è quella di un nuovo rinascimento, cambia anche l’ottica con cui affrontare il tema «Nutrire il pianeta, energia per la vita». Sulla carta il progetto è ad ampio spettro. Prevede una serie di filoni espositivi mirati a  rafforzare la qualità e la sicurezza dell’alimentazione; innovare l’intera filiera alimentare, al fine di migliorare le caratteristiche nutritive dei prodotti, la loro conservazione e distribuzione; assicurare la distribuzione delle risorse alimentari per eliminare fame, sete,  mortalità infantile, malnutrizione; educare ad una corretta alimentazione per favorire nuovi stili di vita; valorizzare la conoscenza delle «tradizioni alimentari» come elementi culturali ed etnici.

Ad affrontare questi argomenti sono chiamate innanzitutto le risorse e le eccellenze esistenti nel nostro Paese. Il comparto italiano del cibo  è assai importante: conta 36 mila aziende artigianali e medie, mezzo milioni di addetti, mille miliardi di fatturato annuo. In Italia si svolgono le più importanti manifestazioni fieristiche  mondiali dell’alimentazione di qualità: Salone del gusto, TerraMadre, Cibus vinitaly, Tuttofood, MiWine e Sana che raccolgono circa tre milioni di visitatori ogni anno. In Piemonte nel 2003 è stata aperta l’università di Scienze gastronomiche, il primo ateneo al mondo interamente dedicato alla cultura del cibo. A Parma c’è la sede dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa); a Roma  ha sede la Fao, l’agenzia guida delle  Nazioni unite per combattere la fame  nel mondo.

In teoria ci sono quindi le condizioni per fare un ottimo lavoro. Si aggiunga  che già nella fase di promozione della candidatura sono state attivate forme di collaborazione con i paesi in via di sviluppo (in particolare si è costituita la fondazione «Alleanza per l’Africa», presieduta da Agyekum Kufour, presidente del Ghana) e l’intenzione ufficiale,  scritta nei documenti ed espressa dal sindaco nella sua recente visita all’Onu, è di moltiplicare gli accordi tra  agenzie multilaterali, governi centrali, enti locali e gruppi locali.

Tutto bene? Non direi. In questa impostazione morattiana è come se mancasse la chiave di  volta. Continua a parlare di argomenti oggettivamente importanti come il cibo, la lotta alla povertà, la cooperazione internazionale facendo finta di non sapere la verità che è ormai platealmente sotto i nostri occhi. I nostri padri loro sì potevano non saperla, questa verità, non avevano studiato,  non  avevano  la televisione,  ma noi no.  Noi ormai  sappiamo che l’emancipazione dei popoli e la permanenza del modello di vita occidentale non si possono conciliare. «La buona coscienza  è finita per sempre e l’opulenza non può durare senza crimine», così ha scritto Ernesto Balducci  nel suo libro del 1992, La terra del tramonto. Saggio sulla transizione (ristampato da Giunti editore, Firenze 2005).

Se si dice di volere combattere la povertà, bisogna iniziare ad assumersi le responsabilità. E queste sono innanzitutto legate al fatto che il modello di vita di noi occidentali non può essere partecipato a tutti, perché il pianeta non ce la fa, non dispone delle risorse energetiche necessarie a questa partecipazione. Senza l’assunzione di responsabilità  e la disponibilità a cambiare il paradigma di fondo, anche la manifestazione nasce monca. Il ritrovo rischia di servire unicamente a perpetuare il crimine, a succhiare come vampiri  la residua linfa del mondo. 



Eufemia



Seguo fino in fondo il ragionamento sul nuovo rinascimento, perché mi porta là dove volevo arrivare fin dall’inizio dell’articolo. Milano si è aggiudicata l’esposizione universale, e non poteva non vincere, perché fare fiera è la sua vera natura. Anche le città, come le persone, hanno un daimon, un demone che sono costrette a seguire. Milano è terra di mezzo: come si scrive nei documenti tecnici, «vertice inferiore del quadrilatero centrale dell’Europa economica, baricentro dell’asse europeo est ovest (il corridoio 5) e vertice settentrionale dei collegamenti con il mediterraneo (corridoio 1)». Il suo daimon, il suo carattere, la sua necessità è lo scambio ma,  attenzione, non in senso meramente commerciale. La sua storia dimostra che qui  non si scambiano solo merci ma anche memorie, come a Eufemia, una delle città invisibili descritte da Italo Calvino, il luogo  dove convengono i mercati delle sette nazioni.

«Ciò che spinge a venire fin qui  non è solo lo scambio di mercanzie che ritrovi sempre le stesse in tutti i bazar dentro e fuori l’impero del Gran Khan, sparpagliate ai tuoi piedi sulle stesse stuoie gialle, all’ombra delle stesse tende scacciamosche, offerte con gli stessi ribassi di prezzo menzogneri. Non solo a vendere e comprare  si viene ad Eufemia, ma anche perché la notte accanto ai fuochi tutt’intorno al mercato, seduti su sacchi o sui barili o sdraiati su mucchi di tappeti, a ogni parola che uno dice – come «lupo», «sorella», «tesoro nascosto», «battaglia», «scabbia», «amanti» – gli altri raccontano ognuno la sua storia di lupi , di sorelle, di tesori, di scabbia, di amanti, di battaglie. E tu sai che nel lungo viaggio che ti attende, quando per restare svegli al dondolio del cammello o della giunca ci si mette a ripensare tutti i propri ricordi a uno a uno, il tuo lupo sarà diventato un altro lupo, tua sorella una sorella diversa, la tua battaglia altre battaglie, al ritorno da Eufemia, la città in cui ci si scambia la memoria a ogni solstizio e a ogni equinozio».

Perché 29 milioni di persone (continuo a pensare che la  cifra sia spropositata, una megaballa) dovrebbero venire a vedere l’Expo? Per vedere le mercanzie che ritrovi sempre le stesse in tutti i bazar dell’Impero? Milioni di persone non prenderanno l’aereo se non saranno affascinati dalla possibilità di trovare qualcosa di insolito, di fare incontri interessanti. Lo scambio delle memorie, delle identità, delle speranze non è immediato in un tempo di arroccamento identitario, quando si teme la contaminazione e la stragrande  maggioranza delle risorse e del tempo viene spesa  a ripetere le stesse cose fra omogenei. Ma l’incontro-scontro con l’altro è incancellabile nel nostro dna. Anche di questi tempi mantiene un fascino irresistibile il viaggio dalla propria identità originaria verso l’uomo inedito – per citare ancora una volta Balducci. Quindi si andrà a Milano-Eufemia per stare la notte intorno ai fuochi - o sotto la grande vela del Fuksas - a guardarsi e a raccontarsi in modo tale che tornando a casa la mia patria sarà diventata un’altra patria,  il mio lupo un altro lupo, quasi un agnello. Se L’Expo 2015 riuscirà a far diminuire, anche solo di una lineetta, il surriscaldamento identitario che infuoca il pianeta, non fosse altro che per questo, non sarà stato vano.



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Giovanni Colombo

libero pensatore

consigliere comunale di Milano – PD



Lunedì, 29 settembre 2008