Politica
Il coraggio e la forza di guardare dall’alto

di Normanna Albertini

A sostegno dell’appello del 2 marzo a Bologna


Ringraziamo Normanna Albertini per questo intervento


LEGGENDO l’appello di Michele Boato, Maria G. Di Rienzo e Mao Valpiana, ripensavo ad una dichiarazione di Umberto Saba del febbraio 1945 apparsa su “Scorciatoie”: “Vi siete mai chiesti perché l’Italia non ha avuta, in tutta la sua storia - da Roma ad oggi - una sola vera rivoluzione ? La risposta chiave che apre molte porte è forse la storia d’Italia in poche righe. Gli italiani non sono parricidi ; sono fratricidi. Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani... « Combatteremo - fece stampare quest’ultimo in un suo manifesto - fratelli contro fratelli ».(…) Gli italiani sono l’unico popolo (credo) che abbiano, alla base della loro storia (o della loro leggenda) un fratricidio. Ed è solo col parricidio (uccisione del vecchio) che si inizia una rivoluzione. Gli italiani vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli.” Ecco: la campagna elettorale ora al via mi pare confermi in toto la tesi di Saba. Ora, qui nessuno, nemmeno Saba, penso voglia intendere il “parricidio” alla lettera, ma che di ricambio generazionale, di vero rinnovamento, di aria e animi e facce pulite, soprattutto di energie, idee, futuro ci sia bisogno e che non sia l’attuale compagine parlamentare a potreceli offrire mi pare evidente. Altrimenti continueremo a darci al “padre” eliminando i fratelli scomodi ed aumentando le ingiustizie sociali.
L’arte e la letteratura hanno il pregio di mostrarci la realtà svelata, priva degli orpelli e delle costruzioni traslate, oltre che delle sottigliezze linguistiche proprie di certa pratica del governo e propaganda politica. Così la letteratura, spesso, è più limpida e diretta nel mostrarci i fatti per quel che sono degli stessi mezzi d’informazione, quelli che oggi propagandano come “nuovo” un uomo politico sicuramente non più giovanissimo, che già fu a Valle Giulia con Pasolini e che oggi non riesce a fare di meglio che copiare il motto “Yes, we can” di un (lui sì, giovane!) candidato statunitense. Il vecchio che avanza, insomma, con tutto il suo carico di nulla, il vuoto e la mancanza di progetti seri davanti a sé. Un carico che è anche il fallimento di “operazioni umanitarie” condotte con l’esercito, eppure cocciutamente tenute in piedi addirittura da chi si era apertamente schierato contro la guerra. E allora viene in mente il racconto del vecchio e assonnato zio marinaio che narra una storia ai nipoti. Nei mari delle Antille è il periodo dell’Invincibile Armada e si incontrano due galeoni, l’uno inglese e l’altro spagnolo. Invece di giungere ad una soluzione in tempi brevi, i galeoni paiono voler proseguire a contrastarsi per sempre in mezzo ad un mare dove non spira un alito di vento, in una fatale “calma piatta” e a niente servono le incessanti esortazioni al marinaio inglese dei nipoti che desiderano un finale positivo, ovviamente per il galeone inglese: la narrazione termina senza né vinti né vincitori. Si tratta di un racconto-apologo di Italo Calvino, “La bonaccia delle Antille”, che bene esprimeva, in quel modo, la situazione di stallo in cui versava la politica italiana dell’epoca; non tanto una condizione di inefficienza e conservatorismo, piuttosto un contesto di attività improduttive dei protagonisti: il PCI e la DC nell’allegoria politica, i marinai spagnoli e quelli inglesi che, invece di muoversi per pervenire ad un obiettivo, sia esso una vittoria o a una sconfitta, si sorreggevano a vicenda evitando di prendere decisioni serie e perpetuando una pericolosa stasi perenne. Quella in cui ci troviamo oggi e che, se non tornerà a soffiare il vento che gonfia le vele e permette di navigare, ci porterà ad impaludarci in chissà quale stagno o bolgia infernale. Per questo credo sia importante raccogliere l’appelllo di Michele Boato, Maria G. Di Rienzo, Mao Valpiana: perché il loro è vento nuovo che può toglierci dal pantano ed evitarci il precipizio. Non vedo altre soluzioni. E mentre Benedetto XVI ricorda a tutti che l’inferno (quello dopo la morte) non è una metafora, ma è vero, pena di morte ed ergastolo senza fine nello stesso tempo per i peccatori, opera di un Dio più spietato di qualsiasi giudice terreno, credo che Michele, Maria e Mao ci spingano a cercare e a dare spazio a ciò che, qui, ora, in mezzo a noi, non è inferno, non è morte, non è distruzione, e a dargli spazio, possibilità di crescita e di vita.
“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; - diceva sempre Calvino nelle “Città invisibili”- se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne.Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione ed apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Come un altro protagonista delle opere di Calvino, il barone rampante, dobbiamo avere il coraggio e la forza di guardare dall’alto la situazione politica italiana e ricominciare a progettare un nuovo modo di vivere che non sia semplicemente produrre rifiuti e morte. Forse l’idea può sembrare una pazzia, ma già: i “poveri sono matti”, diceva Zavattini, matti e oggi invisibili per i governanti, talmente invisibili che addirittura i loro paladini di sempre nella politica sono spariti sciogliendosi nel budino del nuovo grande partito della nuova grande sinistra.



Lunedì, 11 febbraio 2008