Editoriale
Il voto di Dio non è un monopolio repubblicano

di Paolo Naso, direttore della rubrica televisiva “Protestantesimo”

Da Agenzia NEV del 26/9/2007


Manca poco più di un anno alle elezioni presidenziali americane e, mentre si avviano i motori dei due principali partiti, già si raccolgono i primi sondaggi. Tra gli interrogativi più interessanti di questa lunghissima attesa elettorale, vi è l’atteggiamento della vasta area “evangelical”, quella che nel 2000 e nel 2004 si è orientata per George W. Bush e ne ha determinato la vittoria.
E proprio nei giorni scorsi anche sui giornali italiani sono apparsi i primi articoli sul prevedibile “voto di Dio”, ovvero sugli orientamenti elettorali di quella consistente fascia di elettori che si dichiara ferventemente cristiana e che, ad esempio "La Repubblica", è arrivata a valutare nell’ordine di quaranta milioni di potenziali elettori. Una cifra iperbolica e grossolanamente identificata con la “destra religiosa”. Se così stessero le cose, qualsiasi candidato repubblicano avrebbe già la vittoria in tasca.
La realtà è più complessa ed articolata. Innanzitutto l’area evangelical non coincide affatto con la destra religiosa dei vari telepredicatori che hanno intrapreso tante crociate contro la presunta secolarizzazione delle istituzioni americane; che hanno attribuito la tragedia dell’11 settembre all’intento punitivo di Dio per i crimini commessi dalle “femministe che abortiscono” o dai giudici che sposano le coppie gay; che minimizzano il principio costituzionale di separazione tra la chiesa e lo Stato per promuovere una cristianizzazione delle istituzioni pubbliche degli USA, dalla scuola ai tribunali.
Questa realtà della destra religiosa, certamente molto organizzata ed influente, non coincide con il mondo evangelical, assai più ampio e politicamente articolato. Quella è una lobby, un centro di potere tanto più forte quanto più è legittimato dalla Casa Bianca e dai riconoscimenti che questa garantisce ai suoi leader; al contrario il mondo evangelical è una complessa comunità di credenti fortemente ancorati a una tradizione teologica e spirituale di segno certamente “conservatore” ma in un’accezione teologica e non politica del termine.
Politicamente parlando il mondo evangelical è assai più variegato e diviso: in parte vota a destra, in parte vota democratico, in parte - una gran parte - tende ad astenersi esattamente come la maggior parte degli elettori americani. Raramente è un’astensione antipolitica; semmai è un’espressione di fiducia nei confronti del sistema politico statunitense che, al di là della personalità e della politica del presidente, sembra loro garantire comunque stabilità e sicurezza.
Il vero target della campagna democratica e di quella repubblicana, allora, è una quota assai inferiore di elettori evangelical indecisi tra i due schieramenti e che possiamo valutare nell’ordine di qualche milione di persone. Quattro o cinque, per intenderci, non molti di più.
Nel 2000 e nel 2004 il Partito democratico non riuscì a trovare argomenti e temi utili ad intercettare quest’area. Addirittura rinunciò a misurarsi con essa. Oggi tutti i candidati si sono resi conto che in America il “fattore religioso” è ancora importante e rilevante. Non potrebbe essere altrimenti in un paese che ogni settimana registra un tasso di presenza in chiesa superiore al 40% della popolazione: il doppio che in Italia, 4 volte quello della Germania o dell’Inghilterra; 10 volte quello della Svezia o della Danimarca.
Nessuno scandalo, quindi, se Hillary Clinton o Barak Obama parlano della loro fede e si pongono il problema di dialogare anche con l’area evangelical su temi come la sanità o le politiche per la famiglia. Il voto di Dio non è un monopolio repubblicano. (NEV 39/2007)



Giovedě, 27 settembre 2007