Editoriale
Guerre stellari

di Maria G. Di Rienzo

Ringraziamo Maria G. Di Rienzo[per contatti: sheela59@libero.it]per questo suo intervento

Negli ultimi anni, “multiculturalismo” e “sensibilità alle diverse culture” sono diventati termini che spuntano come funghi nelle agende, nei programmi, nelle dichiarazioni d’intenti di attori statali e non statali, organizzazioni non profit e consigli consultivi vari. Spesso si ha però l’impressione che chi li usa non sappia cosa significano, ne’ da dove vengono. Personalmente ho il vago sospetto che quanto sto per svelare a costoro li farà star male, perché sono concetti che hanno preso forma e si sono sviluppati negli Usa, e senza null’altro scopo, inizialmente, che migliorare la produttività delle aziende. (Il che, per carità, mi sta benissimo, ma la vernice dorata che riveste i termini comincia, almeno ai miei occhi, a scrostarsi un pochino.)

Già negli anni ’80 dello scorso secolo, teorici “aziendali” americani postulavano: “set di comportamenti congruenti, attitudini e politiche che permettano ad un sistema, agenzia o gruppo di professionisti di lavorare efficacemente in presenza di diverse culture”. Nel decennio successivo, i testi diretti al perfetto manager parlano di “competenza culturale” o di “consapevolezza culturale” come di familiarizzazione con caratteristiche culturali selezionate: storie, valori, credenze e comportamenti di un altro gruppo etnico, il che condurrebbe alla “sensibilità culturale”.

Non vi è nulla di intrinsecamente sbagliato in questi concetti, intendiamoci. Alcune delle cose che sottendono sono in effetti importanti. Noi abbiamo bisogno di conoscere altre culture, oltre alla nostra, e se vogliamo vivere insieme a persone che ad esse appartengono, abbiamo bisogno di capirle. Quello che urta me, tuttavia, non è cosa queste definizioni dicono, ma quello che NON dicono. L’avete presente il sig. John Gray? Forse no, ma è un altro tizio statunitense, uno che ha fatto un sacco di soldi con un libro sommamente idiota (ma citato, nel nostro paese, nei corsi sul “genere”) in cui arguisce, simbolicamente, che gli uomini vengono da Marte e le donne vengono da Venere e che se i “marziani” e le “venusiane” si comprenderanno meglio reciprocamente (a partire dal disconoscere la loro comune origine umana, come si può notare) tutti i problemi dei due sessi si risolveranno. Il che sembra la scoperta dell’acqua calda, ma in realtà è un falso. Ciò che Gray omette di includere nella sua zuccherosa tesi è che i “marziani” hanno un accesso al potere sproporzionatamente più alto delle “venusiane”, e che queste ultime stanno ancora sopportando ad un tempo gli strascichi di un sistema di oppressione che i primi hanno creato e sostenuto per secoli, e le “nuove” recrudescenze di tale sistema che però, dipinte di “multiculturalismo” e di grande “sensibilità culturale” dovrebbero essere più facili da trangugiare. Tuttavia vi assicuro che parecchie restano nella strozza, come quella di ieri 11 ottobre 2007: in un processo per violenza sessuale, ad Hannover, ad un uomo è stata riconosciuta l’attenuante di essere sardo. Proprio così: il giudice, multiculturale e di rara consapevolezza, gli ha concesso le “attenuanti etniche e culturali”. Il giovane immigrato italiano, convinto che la fidanzata lituana lo tradisse, l’ha tenuta prigioniera per tre settimane, seviziandola e sottoponendola anche a violenze sessuali di gruppo. I reati, inoltre, sempre secondo la sentenza, “sono stati un efflusso di un esagerato pensiero di gelosia dell’imputato”. Dieci e lode in logica, direi: visto che sono geloso di lei, e penso che mi tradisca, chiamo i miei amici perché la stuprino. Non fa una grinza, eh, anche se alcuni sardi in patria ed io, meno sensibili del giudice tedesco, siamo un po’ inorriditi.

Trasportando la metafora di Gray all’Italia, con gli italiani e gli europei in genere che vengono da Giove (tranne i sardi che a questo punto devono essere di Mercurio), gli asiatici da Saturno, gli africani da Nettuno, i Latino-Americani da Urano e i clandestini di qualsiasi tipo confinati nel CPT di Plutone, tutti convinti di volersi capire meglio, ecco che abbiamo messo fine alle “Guerre stellari”, con le uniche condoglianze da fare dirette a George Lucas. Ma un momento. Qualcuno di questi pianeti ha forse mai tentato di sfruttare e dominare gli altri? Qualche gioviano è per caso andato a colonizzare Nettuno? Le venusiane sono considerate non-persone e possono essere battute, stuprate e uccise allegramente in tutta la galassia?

La risposta è ovvia, e tutte le definizioni “culturali” summenzionate la evitano: non c’è un terreno “piano”, su cui tutti e tutte stiamo agendo allo stesso livello, con le stesse opportunità. Per il meglio e per il peggio, le relazioni fra generi, fra etnie, fra gruppi non possono essere capite senza un’analisi critica di che impatto ha su di esse l’oppressione, il privilegio e l’accesso al potere, con la consapevolezza costante che i dislivelli sono anche interni ai gruppi stessi. E’ necessario uscire da questa ambiguità, in caso contrario non stiamo affrontando i problemi, stiamo spargendo su di essi uno strato di polvere di stelle per non affrontarne la parte più dura e difficile. Altrimenti, se domani l’ex fidanzata impugna una Magnum 357 e fredda il sardo “multiculturalmente” compreso, non abbiamo titolo per sdegnarci moralmente. Ci toccherà darle una medaglia al valor lituano?



Maria G. Di Rienzo



Venerdì, 12 ottobre 2007