Editoriale
Qualcuno mi ha detto che ho sbagliato

di don Nandino Capovilla

Qualcuno mi ha detto che ho sbagliato. (Vedi articolo precedente )
Raccontando di quel "povero" ragazzo vittima dell’"incidente sul lavoro" alle Conterie, ho rischiato di assecondare, come un abile conduttore televisivo, la pericolosa moda di commuovere la gente per farle dimenticare quello che sta realmente accadendo e quello che dovrebbe urgentemente fare.
Dicono che bastavano le letterine dei bambini per far commuovere con questa storia di una famiglia buona, grandi lavoratori, gente semplice (proprio come noi italiani, pur essendo stranieri...) improvvisamente stroncata dalla "fatalità" di un "incidente"...
Io però volevo raccontare la tragedia che ha solo lambito i canali muranesi, partendo dal cuore, dai sentimenti che ci dovrebbero accomunare tutti, per arrivare a ragionare e ad interrogarsi insieme su questa ennesima tragedia avvenuta sul lavoro. Per incuria? Per superficialità? Questo lo decideranno altri dal parroco che usa la testa e il cuore insieme.
Perché mai non dobbiamo partire dal provare pietà per una vita finita in modo così atroce? Perché non dovremmo commuoverci con la stessa limpida intensità dei bambini, di fronte a quello che è, e proprio perché è, un dramma prima di tutto umano; dramma per una vita stroncata, per i sogni recisi, per gli affetti stravolti?
E poi però, certamente, bisogna scavare sotto la superficie e domandarsi perché, e avere la voglia - e sentire l’obbligo morale e collettivo - di indignarsi.
E allora le mie parole avrebbero dovuto generare, al posto di un’infinità di lacrimevoli approvazioni, una forte riscossa delle coscienze, un fastidio per come stanno andando le cose, a Murano e in tutto il nostro Paese.
Ancora più grave, infatti, del dimenticare solo dopo un mese la tragica morte del giovanissimo Vasilijuk, è abituarsi a farlo sistematicamente ogni giorno, mancando di accorgersi della morte assurda di una moltitudine sempre più grande di figli di Dio. Li chiamo così, perché altrimenti spariscono ancora prima, visto che al loro nome si preferisce la più asettica etichetta di "operaio", se non quella infamante di "clandestino" (che ormai il sentire comune equipara a "delinquente"...).
Un sussulto di indignazione.
Questo doveva uscire da quel cantiere maledetto la mattina del 22 settembre e questo avrebbe dovuto provocare la mia lettera di un mese dopo. Perché ormai, ad ogni mese che passa, il nostro Paese sprofonda in una fogna sempre più traboccante odio, intolleranza e indifferenza. Una cultura diffusa e maggioritaria, anche nell’esito del voto, ha così irresponsabilmente scavato alle fondamenta della nostra convivenza civile che, proprio come il muro enorme sotto cui hanno fatto scavare Vasilijuk, ci sta scagliando addosso macerie di un vivere la città e la comunità ormai condizionato solo dalla paura, dall’insicurezza e dalla sacrosanta difesa dei nostri interessi. Ma attenzione, la fogna è sotterranea, quindi in superficie si può ancora lasciarsi incantare dal profumo di un gesto di solidarietà o godere leggiadramente dei colori della grande famiglia dei popoli della terra!
"Don Nandino, non capisco quello che mi sta succedendo... Non sono mai stata razzista, davvero, ma è da un po’ che sento come se mi iniettassero ininterrottamente una flebo di odio verso gli altri. Devo confessare a Dio quello che in realtà non penso, ma che inconsapevolmente sto cominciando a pensare...".
E l’effetto, allora, di fronte ad evidenti ingiustizie e palesi violazioni dei diritti fondamentali della persona, è quello di lasciare che il silenzio avvolga questi fatti, che già da soli si denuncerebbero ad altissimo volume. Ci pensa la maggioranza silenziosa di noi cittadini a mettere a tacere ciò che dovremmo urlare a squarciagola. E ogni giorno le notizie misurano la temperatura sempre più alta dell’inciviltà... ma siccome abbiamo tanti altri pensieri per la testa, lasciamo correre...
E invece di dar voce e far sentire a tutti il pianto diventato protesta di un genitore che ha visto davanti ai suoi occhi seppellire di macerie suo figlio, trasformiamo lo sdegno in commovente partecipazione, come se si trattasse solo di porgere le dovute condoglianze ad un funerale.
E anche la Chiesa rifletta. Perché se fossimo conniventi a questo silenzio, se ci accadesse di preferire un lasciar perdere meno coinvolgente, se scegliessimo il prudenziale ’non disturbare il conducente’, invece di contribuire ad alzare il tono della protesta e il volume dell’indignazione, allora saremmo corresponsabili di questo degrado di umanità.
E non solo.
Perché "se delle nostre parole verremo giudicati dagli uomini, dei nostri silenzi verremo giudicati da Dio" (don Tonino Bello).

don Nandino Capovilla



Giovedì, 23 ottobre 2008