Don Lorenzo Milani, in un articolo pubblicato sul quindicinale mazzolariano «Adesso» il 15 dicembre 1950, e intitolato
"Natale 1950. Per loro non c’era posto", fa un piccolo esame del concetto di «mio». Un chierichetto dodicenne, dopo che il
sacerdote aveva spiegato ai fedeli che la società civile avrebbe potuto (anzi, dovuto) distribuire ai senzatetto le case
inutilizzate dai loro proprietari, replicò: «No, don Lorenzo, a me la ‘un mi torna! Sicché se avessi una casa mia, non
potrò buttar fuori chi voglio dalla MIA casa?». E un altro aggiunse: «Se perfino il poppante dice MIO!»
Don Milani conclude: «Già, appunto, è questo. È in quel MIO il mistero del povero che difende il signore. È la bestia uomo
che affiora sempre. Grullo che sono stato a sfiduciarmi. E non è sempre così? E non è dentro sempre il Nemico del primo,
del secondo, del sesto comandamento? E non è questa la mia, la nostra lotta di sempre?». Le maiuscole e il corsivo sono
nell’originale, poi apparso nel volume «Esperienze pastorali». La parola «signore», oggi meno usata, sta naturalmente a
significare ricco, padrone, proprietario.
Come mai il povero difende il ricco, il servo difende il «signore»? Per il concetto di proprietà: il mio è mio, non di
altri. La casa è mia, la strada è mia, la scuola e il lavoro sono miei, la città è mia, il paese è mio: fuori di qui tutti
gli altri, mendicanti, stranieri, pezzenti e così via. La porta è aperta ai ricchi, chiusa ai miseri. I poveri vogliono
salire di classe, non scendere: in questo sono uguali ai ricchi. Via i lavavetri, via i venditori di collanine, via chi
dorme in baracche, sotto i ponti, tra gli sterpi, il fango, lo sterco, le strade e autostrade di periferia che si
intrecciano sopra e sotto: sopra, utili a chi lavora e in qualche modo vive; sotto, utili a chi cerca di sopravvivere – e
talvolta, invece, vi muore di miseria.
Questi ultimi sono i miserabili, mentre i poveri sono una sorta di società intermedia tra loro e la borghesia. I poveri
trovano difensori, costituiscono una classe sociale, protestano, votano, cercano in qualche modo di difendersi, di uscire
dalle ristrettezze. Hanno sindacati e partiti. I miserabili sono niente, peggio di niente: infastidiscono i mercanti, i
politici, i borghesi, anche i poveri stessi che si vedono minacciati dal basso.
Dei miserabili non si occupa nessuno (dovrebbe, deve, occuparsene la cristianità, per cui tutti siamo uguali). I poveri
vedono nella borghesia il traguardo della loro emancipazione: logico che, all’idea di possedere finalmente una casa
propria, dopo tante lotte di genitori, di nonni e di bisnonni, il chierichetto voglia la libertà di difendere la propria
casa, da chiunque la minacci. È una sua proprietà, intende disporne come vuole. Il povero, il proletario, tende a diventare
borghese; vuol fare un salto di classe. Sente di aver diritto a una vita concreta migliore. Il possesso, il MIO, consacra
il suo diritto.
Rivolgendosi a Dio (lui lo chiama il Buon Dio), dopo essersi poste le domande sul Nemico che è dentro l’uomo, don Milani
sembra illuminarsi, capisce e, da sacerdote, conclude: «Ora non ho più paura, ho fiducia. Son pochi i cristiani. Qui come
in tutto, come nella purezza, come nel perdono. Non importa. Ne abbiamo viste ben altre, vinceremo anche questa col tuo
aiuto». Si ponga mente: «col tuo aiuto». Solo così si può, si deve, lottare per vincere cioè per strappare i miserabili
dalla strada, dalla droga, dalla fame, dalla delinquenza, dal terrore di essere cacciati ovunque e da chiunque.
Per il suo «Adesso», ormai più di mezzo secolo fa, don Primo Mazzolari ideò da subito una rubrica intitolata: «La parola ai
poveri». Rispondeva ai critici che non si parla dei poveri, né ai poveri, né in nome dei poveri: «Dare la parola ai poveri
è altra cosa», scriveva sul primo numero del quindicinale, 15 gennaio 1949: «Più facile dare loro una bandiera, una
tessera, un canto, un passo, una bomba a mano, un mitra...Più facile dare loro ragione. Non chiedetemi subito perché sia
tanto difficile dare la parola ai poveri [...] E vorrei pure pregarvi di non chiedermi se ci sono dei poveri, chi sono e
quanti sono, perché temo che simili domande rappresentino una distrazione o il pretesto per scantonare da una precisa
indicazione della coscienza e del cuore». Non c’è commento, sembra oggi.
Mario Pancera
Giovedì, 04 ottobre 2007
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