Editoriale
Il lievito dei farisei

di Giovanni Sarubbi

Una risposta ad un nostro lettore sul tema della legge 194


Guardatevi dal lievito dei farisei che è l’ipocrisia”(Luca 12,1). Questa frase del Vangelo credo sia molto conosciuta. Probabilmente fu scritta non solo per contrastare il fariseismo dell’epoca, molto presente nel popolo di Israele, ma anche perché l’ipocrisia è una malattia comune a tutte le religioni. L’ipocrisia connota tutti i comportamenti religiosi che si estrinsecano nel rispetto rigoroso, al limite del patologico, di determinate regole che in qualche modo garantiscono a chi li pratica una sostanziale pace interiore o, come la chiamano i teologi, la “giustificazione”. Chi segue le regole di una determinata credenza si sente “giustificato” ed in pace con la sua coscienza, a prescindere dalla società nella quale egli vive. Chi segue tali regole pronuncia, anche senza farlo formalmente, tanti “me ne frego” durante tutta la sua giornata. L’importante è rispettare personalmente quelle regole per ottenere una “salvezza” personale, e se casca il mondo peggio per chi ci cade dentro.
Ebbene oggi come 2000 anni fa il male delle religioni si chiama ancora ipocrisia.
Voglio riferirmi in particolare a quanto sta avvenendo in queste settimana sulla questione dell’aborto, con l’invenzione della cosiddetta “moratoria dell’aborto”, ma il ragionamento si può applicare anche ad un altro tema caldo, quello del divorzio con annesso mancato riconoscimento delle famiglie di fatto che sono fra l’altro diffusissime, al nord come al sud del nostro paese.
Un nostro lettore ha scritto un commento ad un mio precedente editoriale riguardante l’aborto (Clicca Quì per leggere l’editoriale - Clicca Quì per leggere il commento ). In quell’articolo indicavo chiaramente come l’aborto in Italia è un fenomeno “tutto cattolico”, figlio “del perbenismo, dell’ipocrisia”. Questo nostro lettore scrive nel suo commento: “Nessuno - credo - preferisce l’aborto clandestino, nessuno vuol mandare in galera la donna che ha abortito, tutti sono convinti che la 194 è un compromesso doloroso ma - forse – necessario”.
Noi non abbiamo la stessa sicurezza, anche se espressa col dubbio, di questo nostro lettore. Ricordiamo che prima della legge 194 l’aborto clandestino era diffusissimo nel nostro paese, pur essendo allora il nostro paese certamente più cattolico di come lo è oggi. E’ del tutto evidente che ogni donna cattolica che abortisce costituisce al tempo stesso un fallimento ed una accusa contro il catechismo cattolico e le gerarchie ecclesiastiche che lo propugnano.
E’ noto, dai tanti fatti di cronaca venuti alla luce negli anni, che moltissimi medici che si dichiaravano obiettori nelle strutture pubbliche praticavano poi l’aborto clandestino a pagamento nelle strutture private. E’ un po’ come per il divorzio dove la chiesa nei fatti non è contraria al divorzio in assoluto, ma solo a quello praticato nelle strutture dello Stato, mentre è sicuramente favorevole a quello praticato dalla Sacra Rota che fra l’altro costa più di quello statale. Lo stesso Giovanni Paolo II, poco prima di morire, ebbe modo di lamentarsi della frenetica attività divorzista della Sacra Rota, attività che non è stata affatto ridotta ma che anzi è molto florida.
Per tutti gli aborti clandestini che si sono praticati in Italia prima della legge 194, e sono milioni e milioni, il nostro paese avrebbe dovuto essere trasformato in un gigantesco carcere. Ma credo si possano contare sulla punta della mano coloro che hanno dovuto rispondere del reato di aborto clandestino.
Il male è dunque l’ipocrisia e, peggio ancora, la doppia morale che viene praticata in modo quanto mai spudorato. Per i divorziati e risposati “poveri cristi” c’è l’esclusione di fatto dalla chiesa, ma se il divorziato si chiama Sarkosi ed è presidente della Francia lo si nomina anche canonico di una parrocchia di Roma. Se il morto si chiama Welby, nessun funerale, se si chiama Pinochet o Pavarotti si manda un cardinale a celebrare il rito funebre in pompa magna.
E’ dunque del tutto legittimo pensare che chi vuole colpire o abrogare o modificare la 194, dipinta come male assoluto, voglia in realtà ritornare ad una situazione simile a quella dei tempi del proibizionismo americano: formalmente l’alcol era proibito, di fatto esso era venduto a più non posso. Prima della 194 gli aborti erano proibiti ma ampiamente praticati da medici e da “mammane”. E chi vendeva alcol di contrabbando guadagnava fiumi di dollari come chi praticava aborti clandestini nel nostro paese. Proibire qualcosa non risolve alcunché, almeno fino a quando le cause che sono alla base di un fenomeno non vengono estirpate alla radice. Produce anzi un mercato illegale, è uno stimolo alla diffusione di pratiche criminali e all’arricchimento di determinate categorie di persone che poi useranno tali loro ricchezze per condizionare la società.
E fra le cause degli aborti c’è soprattutto la miseria. E contro la miseria, quella che oggi colpisce la maggioranza della popolazione italiana, non mi pare che le chiese si mobilitino come dovrebbero e potrebbero, tranne le poche lodevoli eccezioni che, come una rondine, non fanno primavera.
Poi c’è l’inesistenza della educazione sessuale e l’ostracismo, proprio di chi è a parole contro l’aborto, verso i metodi anticoncezionali. I movimenti femministi, per rispondere al nostro lettore, non hanno mai considerato l’aborto come uno strumento di regolamentazione delle nascite o addirittura come un metodo anticoncezionale. Solo per ignoranza o per disperazione si può pensare all’aborto come un metodo anticoncezionale e questo le femministe non lo hanno mai fatto.
E fra le cause degli aborti ci sono anche le violenze sessuali. Parlo di questo caso, molto più diffuso di quello che si possa pensare, per dire come l’espressione “rispetto della vita dal concepimento alla morte”, sia una formula intrisa di ipocrisia, niente affatto legata alla vita concreta delle persone e a ciò che avviene nella società. E’ una formula che esclude la misericordia e che condanna a morte senza appello chi la trasgredisce. Sia i Vangeli sia l’Antico Testamento sono invece pieni di controversie risolte in modo diverso a seconda delle circostanze, indicando a chi legge non regole rigide da applicare ma un metodo di analisi e di risoluzione del determinato problema che si presenta in una comunità. A chi gli chiedeva di lapidare la donna adultera Gesù chiede di fare una valutazione sul proprio rapporto con “il peccato” prima di scagliare la prima pietra. Uno scriba avrebbe detto “lapidatela” e avrebbe scagliata la prima pietra. La domanda è: Noi siamo come gli scribi?
Se si vuole trovare proprio una formula da proporre bisognerebbe dire che la vita va difesa da prima del concepimento. Chi parte dal momento del concepimento, dal momento cioè dell’atto sessuale, prescindendo da ciò che c’è stato prima nega in realtà il valore della vita come amore e il dare vita ad un nuovo essere come frutto di amore.
Una cosa è dire che l’aborto fa male fisicamente alla donna, altra cosa è rendere addirittura sacro l’atto sessuale in se, a prescindere dal contesto nel quale quell’atto è maturato e dalle conseguenze che quell’atto può avere innanzitutto sulla donna ma anche sulla famiglia di cui la donna fa parte o sulla stessa società .
Per concludere questa risposta al nostro lettore, voglio ribadire il concetto di fondo del mio editoriale: bisogna liberarsi dall’ipocrisia, quell’ipocrisia che si traduce in regole che impediscono all’amore di incarnarsi nella nostra vita personale e sociale. Ai 613 precetti dei rabbini del suo tempo Gesù propose un unico comandamento, quello dell’amore reciproco. E quando le nostre regole vanno in contrasto con quell’unico comandamento, dobbiamo semplicemente cambiare queste regole. Non c’è altro da fare. E a chi ama le crociate bisogna dire di smettere perchè le crociate hanno prodotto e producuno solo morti su morti, altro che vita.



Giovedì, 31 gennaio 2008