Editoriale
L’ossimoro

di Giovanni Sarubbi

LA vita sociale è piena di “ossimori”. La parola ossimoro (pronunciabile tanto ossimòro quanto ossimoro) deriva dal greco da una parola che è l’unione di due altre parole che significano una «acuto» e l’altra «sciocco» ed indica una figura retorica che consiste nell’accostamento di due termini in forte antitesi tra loro. Esempi sono brivido caldo, urlo silenzioso, disgustoso piacere. Si tratta di frasi che di solito vogliono indicare un movimento, o una contraddizione, o, ancora, un limite alla propria comprensione della realtà o alle conoscenze dell’umanità, un qualcosa su cui continuare ad investigare, lanciata nell’agone sociale come si lancia una pietra in uno stagno per smuoverne le acque.
Se alcuni ossimori - scrive Wikipedia - sono stati immaginati per attirare l’attenzione del lettore o dell’interlocutore, altri nascono per indicare una realtà che non possiede nome. Questo può accadere perché una parola non è mai stata creata, oppure perché il codice della lingua, in virtù di alcuni limiti formali, deve contraddire se stesso per poter indicare alcuni concetti particolarmente profondi come accade spesso in poesia.
Quando si trasforma un ossimoro in una dottrina sociale, politica o peggio ancora religiosa, cominciano i guai, e gli esempi sono moltissimi.
Nella dottrina cristiana, ad esempio, ve ne sono molti ed importantissimi come il riconoscere nell’unico Dio tre Persone (Dio è uno e trino), oppure la definizione di Gesù come “vero Dio e vero Uomo”. Entrambi questi ossimori sono diventati due dogmi e se penso a tutti i morti che ci sono stati nel corso di duemila anni per difenderli o per attaccarli mi viene da piangere.
L’incolpevole ossimoro, inventato per spingere l’umanità ad andare al di la della conoscenza acquisita e per dichiarare in definitiva la propria ignoranza, può uccidere.
Un ossimoro non dovrebbe mai essere trasformato in una dottrina perché così facendo se ne perde il senso originale di stimolo alla ricerca e di raggiungimento di una conoscenza più profonda.
Anche in politica gli ossimori abbondano. In questi giorni ne sono stati riproposti alcuni quali “partito di lotta e di governo” o il “centralismo democratico”, tutti ossimori luttuosissimi per i partiti che li hanno sostenuti.
L’ossimoro “partito di lotta e di governo” fu inventato da Enrico Berlinguer (storico segretario del PCI dal 1972 al 1983) ai tempi del “compromesso storico”, altro ossimoro (cosa può avere di storico un compromesso?), alla fine degli anni 70, quando l’allora PCI fu ad un passo dall’entrata al governo del paese. Berlinguer doveva giustificare l’andata al governo con la DC del proprio partito che contro la DC aveva combattuto per molti decenni, dopo la fine del patto che nell’immediato dopoguerra aveva consentito la nascita della Repubblica e l’approvazione della Costituzione. Era un modo, almeno io così lo interpretai allora, per stimolare riflessione e impegno e non credo che Berlinguer avesse alcuna intenzione di trasformarlo in dottrina. Quell’ossimoro fu seppellito con Aldo Moro, ucciso dalle BR nel 1978, che insieme a Berlinguer stava cercando di realizzare il “compromesso storico”.
L’ossimoro “Partito di lotta e di governo” è stato riscoperto alcuni anni fa da Rifondazione Comunista per giustificare il suo stare al governo, per cercare di mantenere legati alle proprie scelte politiche i cosiddetti “movimenti” o il “movimento dei movimenti” (giusto per rimanere nel politichese più spinto ed inconcludente), con cui per anni quel partito ha avuto legami strettissimi e da cui ha avuto i voti. Il risultato è sotto gli occhi di tutti con la fine ingloriosa del governo Prodi e la liquefazione dell’Arcobaleno e dei partiti che lo costituivano, Rifondazione in primis.
A cosa si può ascrivere tale sconfitta, si sono chiesti in molti. Il segretario del Partito dei Comunisti Italiani, Oliviero Di Liberto, è arrivato alla conclusione che un partito o è di lotta o è di governo e che se non si hanno i numeri per governare non si deve andare al governo e quindi che bisogna archiviare la dottrina “partito di lotta e di governo”, sonoramente bocciata dall’elettorato.
Ma questa sua affermazione mette in luce un fatto che riguarda tutti gli ossimori trasformati in dottrina. Quando questo succede quasi sempre a prevalere nella pratica di quella dottrina è l’elemento più forte dell’ossimoro che oscura la parte più debole. Così nella dottrina del “partito di lotta e di governo”, ha prevalso il “partito di governo”, cioè l’esercizio del potere che, per chi lo esercita è una cosa fortissima. Stessa cosa sul piano religioso per “Dio uno e trino”, con il “padre il figlio e lo spirito” che hanno prevalso sul “Dio unico”; o per Gesù “vero Dio e vero uomo”, con il “vero Dio” che è diventato l’elemento discriminante per potersi definire cristiano.
L’ossimoro “centralismo democratico” ha una storia più lunga ma non dissimile da quella del “partito di lotta e di governo” o dei dogmi cristiani. E’ una formula inventata da Lenin per il partito bolscevico impegnato nella lotta mortale contro un nemico feroce ed assoluto come era il potere zarista nella Russia a cavallo fra la fine del 1800 e l’inizio del 1900. Il partito bolscevico era organizzato come una qualsiasi organizzazione militare, per lo più clandestina, con il pericolo continuo di essere infiltrato dalle spie zariste e con la necessità quindi di una disciplina rigidissima. Ma al tempo stesso, per vincere la battaglia contro lo zarismo, era necessario discussione e approfondimento scientifico della realtà Russa e unità d’azione ferrea, come solo un reparto militare può fare. La frase rendeva bene l’idea ed era praticata da persone che sulla propria pelle avevano sperimentato le persecuzioni zariste e che avevano scelto di impegnare tutta la propria vita contro tale sistema sociale. Compiuta l’opera, sconfitto lo zarismo, ci voleva qualcos’altro che rispondesse alla nuova realtà. Così non fu ed il “centralismo democratico” divenne anch’esso una dottrina e ben presto di quell’ossimoro è stato messo in pratica una sola parte, il centralismo, la più forte, che è stato usato per giustificare le cose più sporche e vergognose della storia del movimento di liberazione dei popoli.
Ora io non voglio con questo sostenere una sorta di condanna dell’ossimoro, anzi. Voglio invece sottolineare come ripetere gli ossimori del passato, trasformati in dottrine, è segno di crisi profonda delle idee, di incapacità a dare le risposte adeguate ai bisogni del momento presente, a trovare nuove vie che permettano all’umanità di uscire dai vicoli ciechi nei quali di volta in volta essa si caccia. Inventare ossimori sempre nuovi significa avere capacità di indicare sia i propri limiti sia possibili vie di sviluppo e di movimento, significa riuscire a concretizzare la parola “speranza”, significa riuscire a sognare. Fossilizzarsi sulla ripetizione di formule del passato è invece la morte, spirituale e materiale.
E quello a cui stiamo assistendo in questi ultimi mesi ed in questi ultimi anni, sia sul piano politico che su quello religioso, mi da più l’idea della partecipazione ad un grande funerale piuttosto che alla nascita di nuovi figli e figlie, e alle preoccupazioni e alle gioie e alle speranze che ogni nuova nascita induce nei genitori. E l’umanità ha bisogno di genitori e non di becchini.



Mercoledì, 23 luglio 2008