Editoriale
Donne e violenza

di Maria G. Di Rienzo

Ringraziamo Maria G. Di Rienzo [per contatti: sheela59@libero.it] per questo intervento

E’ probabile che sia colpa mia. Se una bambina di quattro anni può subire violenze sessuali per mesi senza che nessuno se ne accorga. Se un’adolescente deve riferirsi per il resto della vita ai suoi amici, ai suoi compagni di scuola, come al “branco” dei propri violentatori. Se una ragazza può scendere a buttare l’immondizia ed essere presa e stuprata. Se una lavoratrice può tornare a casa dal turno di notte ed essere aggredita e violata. Se una figlia litigando con il padre ne ottiene un colpo di pistola o uno stupro. E’ probabile. Innanzitutto perché sono una femminista e se sono una femminista dove accidenti ero mentre accadevano queste cose? Perché non sono entrata in una cabina telefonica ad infilarmi il costume da Superwoman e non sono volata a salvare le mie congeneri? Inoltre, come femminista e soprattutto come essere umano ferito e sconvolto, ho continuato a protestare per anni contro il trattamento inflitto a donne e bambine, a denunciarne le cause, a chiedere si intraprendessero passi per il cambiamento. E il coro mi ha risposto: ma non la vuoi smettere? Non vedi che le donne sono libere e vincenti e possono fare tutto ciò che vogliono e che è questo che scatena la violenza maschile? Gli uomini sono in crisi. E quando sono in crisi si rivolgono alla violenza. Poverini. Sono più di trent’anni che io sento questa cosa . Due generazioni, forse addirittura tre, e ancora la crisi non si risolve. Ci dev’essere un grosso deficit di apprendimento, mannaggia. O forse transita, la crisi, da padre a figlio come una malattia ereditaria? E le violenze di prima di questa ascesa luminosa delle donne, che abbaglia i loro compagni sino a costringerli ad essere dei farabutti, i quattromila anni di massacri e roghi e torture di prima, a cosa erano dovuti?

E poi, continua il coro, questo chiedere conto della violenza a chi la usa, la perpetua, ne fa uno stile di vita, è assai indisponente, poco caritatevole, un po’ intollerante. Anche le tue menate sul linguaggio, consentimi, chi se ne frega se nelle nostre parole c’è così tanto veleno contro le donne, in fondo sono battute (giusto, in fondo sono “battute”, a botte, ma non se tocca a noi personalmente è giusto non interessarsene). Hai considerato gli usi, i costumi, le tradizioni? Non essere così eurocentrica e filo-occidentale. E smetti, per favore, anche di essere bacchettona. Perché trovi tristi le veline? Guarda come sono contente queste giovani donne, come celebrano la propria bellezza, come danzano sensuali sotto gli occhi compiaciuti degli uomini che dirigono i programmi a cui loro partecipano mute, uomini che come età potrebbero essere i loro padri o i loro nonni e che mimano ossessivamente (ma per gioco, naturalmente) l’essere i loro partner sessuali.

Forse dovrei andare ad autodenunciarmi in questura, perché dev’essere colpa mia, certo che lo è. Anche l’aver incoraggiato, favorito, amato, ammirato e sostenuto tutti quegli uomini e ragazzi che hanno detto: questo non è il mio modello, non ho bisogno della violenza per essere qualcuno, voglio al mio fianco una compagna che mi ami e non una che abbia paura di me. Tanti anni fa, a Treviso, si celebrò un processo per stupro. Io, una ragazzina, ero nel corteo che si radunò all’ingresso del tribunale, un corteo di donne. Ad un certo punto formammo un cerchio, tenendoci per mano. Lo ricordi, tu, ragazzo con la sciarpa e i riccioli, che unico fra gli uomini presenti chiedesti se potevi entrare nel cerchio delle donne?

Ricordi chi ti tese la mano, chi la strinse? Chi aprì il cerchio? Ero io. Dimmi che esisti ancora, ti prego. Dimmi che credi ancora che la tua dignità e la tua autorevolezza vengano esaltate dalla dignità e dall’autorevolezza delle donne e non ne vengono sminuite. Dimmi che sei felice di essere stato quel ragazzo coraggioso, e di essere l’uomo che sei ora.

Dimmi che ti riguarda.

Maria G. Di Rienzo



Martedì, 23 ottobre 2007